Torino: coabitare nel bosco a pochi passi dalla città

Sotto la basilica di Superga un lungo sentiero percorre i boschi della collina torinese: è l’Anello Verde, che collega la valle di Reaglie con quella del Cartman. Un percorso amato dagli escursionisti ed un sistema del verde che unisce fiumi e collina valorizzando il bellissimo ambiente naturale.CC 2016.02.14 Reaglie 001
Reaglie è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici dalle stazioni di Porta Nuova e Porta Susa, e in questa località – amministrativamente compresa nel territorio comunale torinese – un’associazione ha individuato un’antica casa di campagna risalente al XVIII Secolo nella quale realizzare un’esperienza di coabitazione.
Accade raramente di incontrare persone che desiderano vivere il più possibile immerse nella natura pur mantenendo la normalità della vicinanza e dei legami con la città, preservando l’indipendenza degli spazi abitativi privati al fine di tutelare l’intimità.
L’immobile, inserito nel Parco della Collina di Superga – con la sua superficie di 88.000 m2 di terreno collinare e boschivo uno dei più grandi di Torino – dista meno di cinque chilometri dal centro cittadino e l’agevole accessibilità dalla città permetterà la creazione di sinergie con associazioni e privati torinesi nello sviluppo di progetti.
Il parco, che offre un pozzo ed una valletta pianeggiante nelle immediate vicinanze dell’edificio, è visto come una risorsa agricola, energetica, per iniziative socio-culturali e tra queste attività per bambini nel bosco e forse anche un cinema all’aperto. È in progetto l’impianto di orti, piante da frutto, vitigni, arnie.
L’immobile, in corpo unico della superficie abitativa di circa 600 m2 calpestabili, è attualmente frazionato in cinque appartamenti in buone condizioni. Dispone inoltre di circa 250 m2 di locali accessori: androne coperto, box, magazzino, tettoia, legnaia, di una cantina di 70 m2 e di una soffitta che si sviluppa per metà della pianta.
Il progetto prevede di rimodulare l’edificio in sei o sette unità abitative, migliorandone l’efficienza energetica ma evitando ristrutturazioni troppo onerose, ed un ampio spiazzo esterno verrà adibito a parcheggio capace di accogliere venti auto.
Relativamente agli spazi comuni coperti, l’idea attuale prevede una cucina per cene in comune e feste, un’area bimbi, uno spazio aperto ad esterni da adibire a B&B o per accogliere l’attività di associazioni, workshop, laboratori, coworking, il recupero della legnaia in cui è presente un forno ed uno spazio polivalente di circa 100 m2 per uso interno.
Per chi volesse approfondire l’argomento questo è il link al sito dell’Associazione Coabitare, promotrice dell’iniziativa.

Alberto C. Steiner

Ulivi salentini: il resto è silenzio

Ce lo aveva chiesto l’Europa, ovvio, e scrivendone il 27 marzo 2015 nell’articolo Gli ulivi? Li abbiamo finiti… leggibile qui esprimevo la mia opinione: “Secondo me si dovrebbe procedere ad un nuovo ratto di Europa, tenendola segregata in qualche buco in Aspromonte o in Sardegna, ma questo è un altro discorso, della serie chi vuol esser servo sia….”
Inquadro questo scritto, oltre che nell’ambito dell’ecosostenibilità, nel mio concetto di quanto sia prossimo il Medioevo prossimo venturo e di quanto sempre più farsesco appaia – e senza bisogno di scomodare Platone – il concetto di democrazia rappresentativa.CC 2016.01.27 Salento 001E vengo al dunque. Ho lasciato trascorrere oltre un mese dal 19 dicembre scorso, quando venne emanato il provvedimento giudiziario che bloccava l’eradicazione degli ulivi salentini malati. L’ho fatto per poter, letteralmente, contare gli articoli e gli spazi video dedicati dai media a diffusione nazionale a questo accadimento di portata indiscutibilmente epocale. A parte alcune notizie della prima ora, le solite critiche ai violenti manifestanti (che di violento non avevano proprio nulla, tanto è vero che venivano inquadrate tranquille casalinghe scese in strada imbracciando rami di ulivo) ed alcuni trafiletti sparsi il conto è presto fatto: zero.
Mi limito alla stampa cartacea: ne hanno parlato il francese Le Monde e lo statunitense Washington Post (con un bellissimo articolo), il tedesco Der Spiegel e il britannico The Guardian, lo svizzero Neue Zürcher Zeitung e persino The Australian Financial Review, senza dimenticare i canadesi Vancouver Sun e Le Soleil de Quebec.
Da noi gli scritti su portali, siti, blog e social a tema ecosostenibile si sono sprecati, è naturale. Ma, per quanto vasto possa apparire, si tratta di un fenomeno di nicchia.
Resto convinto che i media a grande diffusione abbiano ignorato l’avvenimento perché l’indagine che ha bloccato le eradicazioni degli ulivi non sarebbe mai partita senza la nascita del Popolo degli Ulivi: un movimento territoriale eterogeneo, trasversale, senza leader, senza bandiere, senza padrini e senza padroni, creativo e per questa ragione da tanti ignorato e aggredito. Quelli non erano clientes di nessuno, schifavano anzi sia la Nomenklatura sia i Masaniello in cachemire, perché occuparsene?
Resta il fatto che la Procura di Lecce ha indagato dieci persone, tra queste il commissario straordinario Giuseppe Silletti, ipotizzando svariati reati e tra questi violazione dolosa delle disposizioni in materia ambientale e falso, ed è illuminante un passaggio dell’ordinanza redatta dagli inquirenti: “… la sintomatologia del grave disseccamento degli alberi di ulivo non è necessariamente associata alla presenza del batterio, così come d’altronde non è ancora dimostrato che sia il batterio, e solo il batterio, la causa del disseccamento …”CC 2016.01.27 Salento 002Eppure dall’alto del Palazzo e persino dei Palazzotti abitati dai vari Don Rodrigo numerose sono state le aggressioni, le denigrazioni, le denunce, gli ostacoli con cui si è tentato di ignorare le ragioni di questa gente (non ho scritto questo movimento, ho scritto questa gente) perché, pur tra inevitabili limiti e contraddizioni, quello salentino è uno dei più interessanti fenomeni territoriali apparsi negli ultimi anni.
Lo è perché ha coinvolto persone comuni di età, percorsi culturali, sociali e politici differenti, che non hanno cercato padrini o padroni politici ai quali delegare la soluzione del problema e neppure capipopolo dai quali farsi guidare. Le persone si sono autoorganizzate, scegliendo di intervenire, in molti modi e direttamente.
Non si sono appecoronate al mantra ce lo chiede l’Europa, ed hanno utilizzato non solo strumenti tradizionali: assemblee, incontri, manifestazioni, presidi, azioni di pressione a livello europeo, ricorsi al Tar, ma anche social network, feste e pic-nic nei paesi e nelle campagne, creando e rendendo visibile la possibilità di un mondo nuovo, connotato da relazioni sociali effettive e concrete.
E poi ci sono state le azioni di disobbedienza creativa, come quando sono stati piantati a sorpresa centinaia di ulivi. E non dimentichiamo fiaccolate e momenti di informazione e formazione dedicati ai sistemi naturali di cura delle piante ed all’agroecologia. Si, ci sono stati anche blocchi stradali e ferroviari. Normale, quando si protesta.
Ma queste persone hanno contemporaneamente, e forse senza saperlo, fatto una cosa veramente importante: hanno evidenziato e proposto un’idea diversa di agricoltura e un rapporto diverso tra comunità e ambiente naturale, contribuendo non solo a rompere la gabbia di silenzio e bugie costruita intorno agli ulivi malati, ma anche costringendo a ridurre il numero di alberi da abbattere e dando un senso al termine Comunità.
Non importa quindi se i grandi media hanno cercato di rendere il tutto innocuo, invisibile e persino ridicolo: quelle persone hanno dimostrato che, senza gli eccessi e la strumentalizzazione dei NoTav piemontesi, è possibile lottare, che è il tempo del fare e che si sta tornando al concetto di Comunità locale dove ciascuno è responsabile del proprio operato di fronte a se stesso ed ai concittadini.
E mi fermo qui perché di questo mi interessava parlare. Altrimenti dovrei addentrarmi in un ginepraio di domande a sfondo economico finanziario circa la sorte dell’ulivicoltura salentina una volta eradicati gli ulivi, da dove sarebbero arrivate le olive per la spremitura, quali sarebbero state le compagini societarie delle imprese interessate, quali banche le avrebbero finanziate e come, quali finanziamenti pubblici sarebbero stati emanati e da dove avrebbero preso i soldi, e chi li avrebbe gestiti… altro che il virus creato in vitro dalla demoniaca Monsanto! no grazie, preferisco parlare di bellezza piuttosto che di spazzatura.

Alberto C. Steiner

Sempre più affilati i denti a sciabola della finanza etica

Il 9 luglio scorso pubblicavamo l’articolo Analisi del portafoglio di Banca Etica Sgr leggibile qui che argomentava, dati alla mano, come il portafoglio dei titoli componenti i fondi che detto istituto di credito offriva ai propri clienti non fosse affatto etico.Cesec-CondiVivere 2015.07.09 Io odio la finanza sostenibileL’articolo riprendeva, aggiornandolo ed integrandolo, quanto scrivemmo il 7 novembre 2013 leggibile qui nonché il breve saggio: Attenti! ora la finanza speculativa si traveste di verde, pubblicato addirittura il 18 novembre 2009 sul sito TGCom24 a firma Fiori & Foglie, linkato all’interno dell’articolo citato sopra.
A confortare ciò che scrivemmo giunge il 30 dicembre scorso l’articolo Possiamo fare a meno dei fondi etici? pubblicato su Comune-Info a firma di Paolo Trezzi e leggibile qui: un punto di vista assolutamente critico e dettagliato su Etica sgr, la società di gestione del risparmio che, scrive l’autore, “corre sempre di più il rischio di amministrare portafogli di società quotate piuttosto discutibili” affermando perentoriamente: “Etica Sgr, la società di gestione del risparmio di Banca etica (e altri), dovrebbe chiudere, essere chiusa. In forza delle stesse ragioni per cui è nata Banca etica.”
Per parte nostra lasciamo volentieri la lettura dell’articolo, dove si parla di armi, autostrade, sfruttamento di lavoro minorile e chi più ne ha più ne metta, a chi fosse interessato. Senza ulteriori commenti. Quel che avevamo da dire lo abbiamo già detto.

Alberto C. Steiner

Guardate queste foto: potrebbero essere le ultime

Le cascate valtellinesi dell´Acquafraggia potrebbero scomparire: la finanza dai denti a sciabola, travisata con la mascherina dell’ecosostenibilità, le ha puntate funzionalmente alla realizzazione dell’ennesimo bacino imbrifero valtellinese destinato alla produzione di energia idroelettrica.CC 2015.12.17 Acquafraggia 001La comunità potrà tornare a beneficiare delle acque reflue, opportunamente depurate, però dietro pagamento di un canone in barba al referendum del 2011 attraverso il quale gli italiani hanno scelto che l’acqua, considerata bene primario irrinunciabile, non possa essere oggetto di acquisizioni e speculazioni.
Sono state naturalmente fornite ampie rassicurazioni che il canone sarà calmierato, che il suo ammontare coprirà solo i costi dell’ordinaria gestione e che nessuno guadagnerà o, peggio, speculerà sull’acqua. Come no.
Non dimentichiamo che la Valtellina gode di una legge speciale di salvaguardia, pensata proprio per le sue acque funzionalmente all’utilizzo per finalità produttive. Verrà puntualmente disattesa, ne siamo certi.CC 2015.12.17 Acquafraggia 002Le cascate si trovano a Borgonuovo, e le parti visibili dalla strada sono solamente le più suggestive, ma certamente non le uniche.
Il bacino dell´Acqua Fraggia costituisce un patrimonio ambientale, energetico e scenografico senza eguali: è situato all´imbocco ovest della Val Bregaglia, solcata dal torrente omonimo che nasce dal Pizzo di Lago a quota 3.050 in un punto di spartiacque alpino fondamentale per l’ecosistema europeo poiché vi sgorgano e discendono fiumi che sfociano nel mare del Nord, nel mar Nero e nel Mediterraneo. Nel suo percorso verso il fondovalle il fiume percorre due valli sospese di origine glaciale, la prima situata a quota duemila e l´altra sui mille metri di altitudine. Ed ecco l´Acqua Fraggia, che forma una serie di cascate, di cui quelle più in basso con il loro doppio salto sono solo le più suggestive. Deriva da qui il toponimo di Acqua Fraggia, da acqua fracta, vale a dire torrente continuamente interrotto da cascate.CC 2015.12.17 Acquafraggia 003Le cascate, con il loro maestoso spettacolo, impressionarono pure Leonardo da Vinci che trovandosi a passare per Valle di “Ciavenna” ne ammirò la bellezza selvaggia e così le menzionò nel suo Codice Atlantico: “Su per detto fiume si truova chadute di acqua di 400 braccia le quale fanno belvedere…”
Dalla sommità delle cascate si può percorrere un sentiero attrezzato tra castagni, ginestre e rocce, dal quale è possibile ammirare da vicino questo stupendo spettacolo naturale, unico nel suo genere per bellezza e imponenza. Una breve deviazione sulla destra porta ad un ampio terrazzo, a pochi metri dal fragoroso turbinio delle acque.
Ma questo alle varie Edison, A2A, Électricité de France, Intesa San Paolo, Unicredit, Crédit Immobilier de France, Cariparma Crédit Agricole non interessa un accidente.

Alberto C. Steiner

Natale in Valsesia: Venite adoremus, il Botteghin Gesù

Ho un legame particolare con la Valsesia per avervi trascorso anni, durante l’adolescenza. Sono inoltre un fautore del trasporto ecosostenibile, in particolare di quello ferroviario.
Per queste ragioni un amico mi ha girato la notizia pubblicata dal quotidiano La Stampa il 27 corrente: Varallo, sotto l’albero c’è il treno.CC 2015.11.28 Varallo 002Il sommario declama: “La linea torna a vivere per Natale, a partire dal 13 dicembre” ma, leggendo il pezzo a firma Maria Cuscela, è scritto chiaramente che la ferrovia tornerà a vivere il 13 dicembre. Segue il programma dettagliato del treno storico a vapore che partirà da Milano Centrale all’ora tale per poi fermare a Novara, Vignale, Briona, Fara, Sizzano, Ghemme, Romagnano, Grignasco, Borgosesia, Quarona e arrivo a Varallo all’ora X per ripartire all’ora Y. Il biglietto, oltre al viaggio in treno, comprende la degustazione di prodotti tipici e la salita al Sacro Monte in funivia.
A Varallo, rende inoltre noto il sindaco nell’articolo, sono allestiti mercatini natalizi ed una pista di pattinaggio sul ghiaccio. Insomma, una marchetta.CC 2015.11.28 Varallo 001Per chi non la conoscesse, la realtà è che quella ferrovia – inaugurata l’11 aprile 1886 – è stata chiusa al traffico viaggiatori nel settembre 2014 nel quadro di quella macelleria messicana altrimenti chiamata intervento di risanamento che ha visto il Piemonte sbarazzarsi di oltre un terzo delle proprie ferrovie locali. Il Cuneese, in particolare, ha subito una vera mattanza. Tornando alla nostra linea, per un certo periodo i pendolari che da Varallo dovevano recarsi verso Novara non ebbero a disposizione neanche gli autobus.
Ma nel maggio scorso un treno storico apparve all’orizzonte, lanciando il proverbiale fil di fumo come nella Butterfly: era organizzato da Fondazione FS in occasione di Expo 2015.CC 2015.11.28 Varallo 003Infatti proprio Fondazione FS vorrebbe ripristinare la ferrovia. Attenzione: per soli fini turistici. Per arrivare a questo, dopo che sono stati spesi fior di denari pubblici per il completo rifacimento della ferrovia avvenuto nel 2012, si sono ridotte le corse, il servizio è stato sospeso e poi ripreso con un orario dissennato che non teneva conto di eventuali coincidenze a Novara, si è dapprima ridotto e poi soppresso il servizio nei giorni festivi.
È una tattica ben nota nel mondo dei trasporti: si crea scontento e disinformazione, si allontana l’utenza – che non ritiene più il servizio affidabile – e si giustifica così l’esiguo numero dei viaggiatori come pretesto per sopprimere la ferrovia. E spesso trasformarla in pista ciclabile.
In questo caso Fondazione FS, che ha raccolto un certo numero di rotabili d’epoca e gestisce (in modo pessimo) il Museo Ferroviario Nazionale, ambisce evidentemente la linea per le sue caratteristiche ambientali e paesaggistiche che ne farebbero un ottimo scenario per treni turistici: della polenta, delle castagne, di questa e quella sagra. Tutta roba che fa cassetta con buona pace della cultura vera e del rispetto del territorio.CC 2015.11.28 Varallo 004Ma quello che interessa qui rimarcare è come viene distorta una notizia: un evento legato a puro marketing spacciato come il rifiorire di una linea ferroviaria. E non c’è solo questo: c’è la fossa comune pronta ad accogliere tutte le chiacchiere sull’ecosostenibilità, sull’attenzione, sul ruolo imprescindibile, sul rilancio del trasporto ferroviario. Meno inquinante e costoso, e indiscutibilmente più veloce, rispetto a quello pubblico su gomma che sulle relazioni non urbane deve necessariamente condividere lo spazio con i veicoli privati.

Alberto C. Steiner

Mangia di stagione: interessante iniziativa della Provincia di Roma

Vi siete mai chiesti perché la frutta estiva è ricca d’acqua e quella invernale è più asciutta? Semplice: perché se quella estiva fosse asciutta si surriscalderebbe, mentre se quella invernale fosse ricca d’acqua gelerebbe.Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 004Non manca inoltre un’importante ragione nutrizionale, come vedremo al termine di questa premessa, necessaria per inquadrare la questione: come gran parte degli Italiani della mia generazione provengo da una famiglia di antiche origini contadine. Gli ultimi furono i miei nonni paterni: tra il Polesine e il Delta del Po si occupavano di agricoltura ed allevamento di bovini e anguille sino alla devastante alluvione del 1951, quando vendettero le terre e si ritirarono. Ma le tradizioni rimasero ed io, pur essendo nato in epoca successiva, ricordo che in concomitanza delle festività natalizie una delle prelibatezze era “l’uva di Natale”, bianca e decisamente dolce a causa dell’appassimento. Da quel momento e fino a settembre di uva non se ne parlava più. In primavera arrivavano a rotazione fragole, nespole, albicocche, ciliegie, fino all’apoteosi di pesche, meloni, angurie, lamponi, more e mirtilli, questi ultimi invero presenti tutto l’anno poiché opportunamente conservati venivano usati anche in cucina. Si chiudeva con pere, fichi, noci e uva, per passare a castagne, mele, arance e cachi.
Onnipresenti datteri, banane, ananas e frutta secca ma avocado, mango, tamarindo e via tropicando chi li ha mai visti sino ai primi anni Settanta?
Di pomodori e melanzane in inverno nemmeno a parlarne; cetrioli si, ma conservati in aceto e spezie all’uso tedesco. Crauti quanti ne volevamo: freschi in stagione, bianchi e rossi, in salamoia durante il resto dell’anno insieme con conserve di verdure miste sottaceto e barattoli di salsa di pomodoro. Le insalate, infine, marcavano le stagioni con i loro colori: il tarassaco – da noi detto pissacan – nelle sue progressionii di verde da marzo a ottobre, consumabile crudo e successivamente cotto; le lattughe, la riccia, la rucola sino al rosso del radicchio di Chioggia o di Treviso, o al bianco di quello mantovano.
Menzione speciale infine per la rucola, erba povera e spontanea sdoganata come si dice ora nelle preparazioni della cucina pseudopopolare riscoperta dall’intellighenzia ecochic degli anni Settanta. Quando mia nonna leggeva di certe ricette immancabilmente commentava con un “I g’ha scoverto l’acqua in canal” che sapeva di vetriolo…CC 2015.09.13 Mangia di stagione 001Oggi andiamo al supermercato ed in ogni momento dell’anno troviamo qualunque cosa, peraltro dalle provenienze più disparate.
Paleontologi ed archeologi fissano in 10mila anni fa la fine del Paleolitico con l’introduzione di agricoltura e allevamento presso alcune società euroasiatiche.
Ma ancora oggi tali pratiche non sono universalmente condivise: Pigmei, Boscimani, Indios amazzonici, Semang malesi vivono tuttora di quanto la natura offre loro spontaneamente. Per essere più precisi resistono all’apparentemente inesorabile avanzata delle società agricole e industrializzate. Il fatto che, ancora oggi, riescano a sopravvivere di sola caccia e raccolta significa che in determinate circostanze ambientali ciò rappresenta uno stile di vita efficiente: se la natura offre spontaneamente del cibo, perché compiere sforzi per procacciarsene altro?
Alle nostre latitudini, dove la natura è stata piegata dall’Uomo per sottostare alle sue esigenze, possiamo ancora trovare numerose specie vegetali selvatiche adatte all’alimentazione. Il loro numero è però in rapida diminuzione in ragione della costante perdita di biodiversità, dovuta principalmente alle logiche di mercato dell’agricoltura intensiva e al sacrificio di interi ecosistemi a favore di aree antropizzate.
La questione sembra apparentemente slegata dalla nostra quotidianità, e invece la nostra stessa esistenza è strettamente dipendente dalla biodiversità.
E così ho anch’io pronunciato il mantra catastrofista tanto caro a chi dovrebbe avere a cuore le sorti del pianeta, nonché i mezzi per potersene occupare salvo non andare oltre il blabla dei proclami e dei convegni…KL Cesec CV 2014.03.04 Ambiente maneggiare con curaIn ogni caso e come sempre le chiacchiere stanno a zero ma i numeri parlano chiaro: dall’anno 1900 ad oggi il 75% delle varietà vegetali è andato perduto, i tre quarti delle risorse alimentari mondiali dipendono da sole 12 specie vegetali e 5 animali e delle 75.000 specie conosciute solo 7.000 vengono usate in cucina. Delle 8.000 varietà censite in Italia nel 1899 ne sono rimaste 2.000.
Dalla fine della II Guerra Mondiale ad oggi delle 400 specie di grano esistenti il 90% sono scomparse. E che dire delle mele? Oltre un migliaio di antiche varietà ha ceduto il passo nell’80% dei casi a 4 varietà: due americane, una australiana e una neozelandese. Lo stesso vale per i pomodori: delle 300 cultivar commercializzate solo 20 sono autoctone. Stessa solfa per le altre solanacee, le cucurbitacee, i legumi e via elencando.
Il nostro Paese, con 57.000 specie animali, pari a un terzo di quelle europee, e 5.600 specie floristiche (il 50% di quelle europee) il 13,5% delle quali endemiche ha un patrimonio biodiverso fra i più importanti. Bene: 138 specie, il 92% delle quali animali, sono a rischio di estinzione a causa del consumo del suolo che erode gli habitat naturali, ed in ragione dell’intensificazione dei sistemi di produzione agricola. L’Italia, capeggiata dalla Lombardia, con il 43,8% di superficie coltivata è il Paese europeo con la maggior estensione di aree agricole. Ma l’abbandono dei sistemi tradizionali e naturali in favore di quelli industriali, l’impiego di sostanze chimiche dannose per il territorio, la logica della crescita infinita stanno abbattendo drasticamente il numero delle specie esistenti e, di quelle rimanenti, le qualità nutrizionali.
La delocalizzazione produttiva, nella quale noi italiani non siamo secondi a nessuno avendo da gran tempo acquisito direttamente o attraverso holding multinazionali immense estensioni di aree nel Sud del mondo, contribuisce inoltre a dare il colpo di grazia alla biodiversità.KL-Cesec - Supermercato - OrtofruttaLe nostre abitudini alimentari, rapportate a quelle dei nostri genitori e dei nostri nonni, sono state rivoluzionate nell’ultimo quarantennio attraverso il mutamento dello stile di vita, le aumentate disponibilità di cibo ed i trattamenti di raffinazione industriale: siamo le prime generazioni della storia ad avere il problema dell’obesità e del diabete sin dalla più tenera età.Cesec-CondiVivere 2014.12.03 Zingari 003Lo sviluppo delle produzioni intensive, delle monocolture e l’evoluzione delle capacità di trasporto hanno comportato che le disponibilità agroalimentari ci consentano di avere in ogni periodo dell’anno qualsiasi prodotto o perché coltivato in serra o perché proveniente da Paesi a stagioni rovesciate rispetto alle nostre.
I prodotti vengono però raccolti con largo anticipo rispetto alla loro disponibilità al banco, e la loro maturazione e conservazione avvengono spesso durante lo stoccaggio ed il trasferimento, non di rado grazie all’impiego di prodotti potenzialmente tossici.
Tutto questo si tramuta in un maggior costo:

  • economico, in quanto il prodotto deve ripagare dei maggiori investimenti compiuti per realizzarlo fuori stagione, per conservarlo o per farlo giungere da lontano fino al nostro Paese;
  • ambientale, in quanto si ha un dispendio di energia e un maggiore sfruttamento di risorse naturali (ad esempio il gasolio usato per riscaldare le serre);
  • nutrizionale, perché ogni tipo di frutta o verdura nasce, indipendentemente dalla volontà umana, per rinfrescare d’estate e riscaldare d’inverno. Pomodori e cetrioli, per esempio, sono tipicamente estivi per tale ragione, mentre carciofi e verze sono tipicamente invernali per la ragione opposta.

Per rieducare ad un consumo alimentare responsabile, salutare ed ecosostenibile l’Assessorato alle Politiche dell’Agricoltura della Provincia di Roma ha promosso una lodevole iniziativa diffondendo un simpatico volumetto di 34 pagine, dal titolo La stagionalità dei prodotti agricoli nella provincia di Roma.CC 2015.09.13 Mangia di stagione 002Di agevole consultazione e gradevolmente illustrato descrive mese per mese i prodotti stagionali, concludendosi con un interessante capitolo sulle conserve e con uno di utili indicazioni che aiutano a consumare prodotti quanto più possibile sani e ricchi dei loro nutrienti naturali. Il volume è scaricabile in formato pdf a questo indirizzo.
Pur esulando dall’argomento della stagionalità, accenno in chiusura alla questione della filiera corta: le sue caratteristiche consentono rispetto della stagionalità, migliore qualità e freschezza del prodotto; l’assenza di intermediari permette inoltre un più adeguato compenso degli addetti, spesso schiacciati dalle politiche della grande distribuzione.

Alberto C. Steiner

Ecososteniblità dell’anima: servono ingegneri per progettare sogni

Ha scritto Franco Arminio, nel suo Geografia commossa dell’Italia interna: “Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.
Attenzione a chi cade, attenzione al sole che nasce e che muore, attenzione ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.”CC 2014.04.30 Rinascere 001Questa frase mi ha indotto a rileggere l’articolo Solo attraverso profondi cambiamenti individuali il nostro Paese potrà rinascere, che pubblicai il 30 aprile 2014 su queste pagine (visionabile qui) poiché riconsiderandolo alla luce di mutamenti che non avvengono, di iniziative delle quali tanto si parla ma che sono costantemente al palo e di quella truffaldina bruttura dell’Expo 2015 mi è parso più che mai di viva attualità.
L’articolo nacque sulla scia di interessanti scritti pubblicati in quel periodo dal sito partner Consulenza Finanziaria argomentando di competitività estera e di malcostume delle aziende nostrane, oltre che di gestione del credito bancario.
Oggi più che mai il mondo, visto dal nostro Paese, appare immenso e pauroso perché i suoi equilibri stanno mutando ad una velocità inaudita, e nello scenario sono entrati di prepotenza nuovi protagonisti ben più grandi di noi, alterando antichi equilibri e stravolgendo gerarchie di potere che si credevano consolidate.
Questioni mai incontrate prima chiedono una soluzione, ma le opportunità di cambiamento vengono percepite come pericoli.
È già accaduto: per provincialismo, miopia e furbizia, quando non malafede, degli attori politici ed imprenditoriali nostrani l’Italia è arrivata impreparata alle grandi svolte, perdendo tempo prezioso. Ed anche oggi, se non saremo pronti ad intuire gli scenari del futuro, se non sapremo valutare la direzione del cambiamento nelle tendenze di lungo periodo, rischieremo di prendere una volta di più le decisioni sbagliate. Pagandole a caro prezzo.
Basti pensare che invasione è il termine più usato dagli attuali predicatori dell’Apocalisse: invasione di immigrati clandestini, di prodotti cinesi, di capitali stranieri che ci colonizzano. E non ci accorgiamo che tutto ciò che temiamo è in realtà già accaduto.
Intendiamoci: di fronte ad ogni cambiamento la paura è legittima perché le grandi novità spaventano, possono nascondere delle incognite ed il riflesso automatico ingenera un meccanismo di difesa. Oppure nega il cambiamento.
Per comprendere qualsiasi accadimento attribuendogli l’esatta misura è indispensabile non solo mutare prospettiva, ma anche osservare con distacco come l’oggetto delle nostre attenzioni risuoni dentro di noi comprendendo quali nodi da sciogliere e persino quali antiche ferite faccia vibrare. Solo così è possibile identificare la natura dei presunti pericoli che ci minacciano, stabilire se il modo per difenderci sia l’attacco – che non sempre è la miglior difesa – oppure il lasciarci morbidamente andare, per vincere la sfida senza accontentarci semplicemente di limitare i danni. Vale a dire per vivere piuttosto che accontentarci di sopravvivere.
Esistono anche da noi imprenditori illuminati: sono quelli che spesso non fanno notizia e che insieme con i più attenti osservatori possono tentare di rispondere con sano pragmatismo alle domande offrendo punti di vista nuovi e proprio per questo rivoluzionari.
Ma le scelte da fare non riguardano solo governi, classi imprenditoriali e dirigenti bensì primariamente la vita quotidiana di tutti noi: nel segno di un’Energia nuova e pulita sono tante le riforme dal basso che ciascuno di noi può avviare da subito, e costituiscono un antidoto alla lagnanza, alla rassegnazione, al senso di impotenza che non è mai nelle cose ma dentro di noi. Sono quell’impotenza, quella rassegnazione che respiriamo oggi in Italia nell’attesa sempre delusa di grandi cambiamenti, svolte, catarsi collettive, rinascite nazionali. Che dovrebbe essere sempre qualcun altro ad attuare.
Siamo invece noi che con maturata consapevolezza, impegno civile, consumi responsabili, dobbiamo incamminarci alla ricerca del nostro destino per costruire il nostro futuro. Detto in altri termini: è solo attraverso una profonda revisione dei nostri modelli produttivi, di consumo, sociali, interiori che possiamo agire per scuotere i sistemi politico e produttivo.
Ma se continuiamo a lamentarci attribuendo a chicchessia la responsabilità dei nostri fallimenti e del nostro non andare avanti, non solo resteremo al palo, ma inevitabilmente ci attende una regressione: economica, sociale, delle coscienze, intellettiva.Cesec-CondiVivere-2014.10.07-Medioevo-prossimo-venturoNon ci sono alternative: o ci risvegliamo dal sonno aprendoci ad un nuovo approccio alla qualità della vita, che presupponga un mondo nel quale il punto di riferimento non sia più il pil bensì la decrescita più o meno felice, o siamo dei morti che vagano in paesi dei balocchi, in realtà cimiteri alla portata di chiunque abbia occhi per vedere e cuore per sentire: autobus e metropolitane, centri commerciali, installazioni pseudoculturali di plastica.
Si dice che un intento individuale e decentrato non possa nulla ma non è affatto vero: dai gesti che ciascuno di noi compie ogni giorno possono nascere gli innumerevoli stimoli destinati a mutare il gradiente energetico in grado di sospingere il nostro Paese, e le nostre anime, verso l’ormai indifferibile cambiamento.Cesec-CondiVivere 2014.10.17 Appennino modenese vista suggestivaAltrimenti ci attende quello che da anni chiamo il medioevo prossimo venturo, che non considero una calamità ma un’opportunità ed al quale mi sto felicemente preparando attraverso la progettazione ecosostenibile di luoghi destinati ad accogliere piccole comunità il più possibile autosufficienti.

Alberto C. Steiner

Strage di alberi lungo la ferrovia Monza – Molteno

Non è stato nessuno. Trenord rigetta le responsabilità, affermandosi operatore di trasporto e quindi senza responsabilità in ordine alla gestione del territorio ed invitando anzi a non diffondere notizie prive di fondamento.Cesec-CondiVivere 2015.06.10 Abbattimento Alberi Ferrovia Brianza 001Rimane il fatto che i numerosissimi alberi abbattuti nelle ultime settimane, molti di loro più che centenari, si trovavano all’interno delle aree ferroviarie pertinenti agli impianti della ferrovia Monza – Molteno, e in particolare nelle stazioni di Villasanta, Biassono-Lesmo, Macherio-Canonica, Triuggio-Ponte-Albiate, ed anche di Macherio-Sovico lungo la linea Seregno – Carnate.
Si saranno abbattuti da soli perché volevano diventare mobili di pregio realizzati da qualche artigiano locale? Chissà.Cesec-CondiVivere 2015.06.10 Abbattimento Alberi Ferrovia Brianza 002Resta il fatto che il taglio degli alberi che va avanti incontrastato da alcune settimane è un giallo in cerca d’autore. Sabato 6 giugno è stata organizzata presso la stazione di Biassono una manifestazione di denuncia da parte degli Ecocivici Verdi Europei di Monza e Brianza, sono state scritte lettere ai sindaci dei comuni interessati, agli amministratori del Parco Valle del Lambro e a Trenord che, dopo la manifestazione citata, ha emesso il comunicato di cui abbiamo riferito più sopra, ed il cui testo integrale è possibile leggere negli articoli linkati.
Negli stessi articoli viene fatto notare come, se per la prima volta due diverse generazioni di attivisti per l’ambiente hanno collaborato insieme, i cittadini sono ormai incapaci di reagire, la coscienza collettiva sa ormai esprimersi solo attraverso i click sui social. E ci duole che chi si è preso la briga di scendere in paizza – o per meglio dire in stazione – abbia vergato documenti con toni molto diplomatici. Certo, è improntato al buonsenso scrivere: “Difendere gli alberi, proteggere la Terra, non significa porsi a favore di una parte, o schierarsi contro qualcuno, bensì mostrare a chiunque la straordinaria vitalità e bellezza delle nostre radici“. A nostro parere non è vero che non bisogna. Bisogna invece, eccome, perché bisogna scegliere da che parte stare.Cesec-CondiVivere 2015.06.10 Abbattimento Alberi Ferrovia Brianza 003Certo, è segno di civiltà e sensibilità abbracciare gli alberi e organizzare una biciclettata. Ma in certi momenti il buonsenso, la pacatezza, la buona educazione temiamo non bastino. E ce lo hanno insegnato anche certe esperienze e la conoscenza diretta di quale sia la considerazione che certi amministratori del bene pubblico hanno dei cittadini: zero.
Per non parlare di quella che hanno dei beni amministrati: non avendo più binari da smantellare per creare il deserto dove un tempo c’erano scali merci, rimaneva l’opportunità di abbattere gli alberi per restare nelle norme di sicurezza di un testo di legge assurdo e per evitare problemi di manutenzione del verde: “Effettivamente c’è una legge del 1980 che norma la sicurezza delle ferrovie. Ma se si dovesse applicare alla lettera si dovrebbero abbattere migliaia di alberi” afferma Roberto Albanese degli Ecocivici Verdi Europei di Monza e Brianza, aggiungendo: “In realtà in questo caso è venuto a mancare il buonsenso. O meglio, piuttosto che procedere alla manutenzione costante e a un progetto di riqualificazione coerente, si è preferito eliminare il problema con l’abbattimento degli alberi. Perché tagliare gli alberi costa meno che non mantenerli“.
Certo, andare a far presente a muso duro, sottovoce e senza troppi testimoni attorno a certi personaggi che sarebbe un vero peccato se il loro bambini dovessero piangere, aggiungendo perché non ci sono più gli alberi, è ovvio, costituirebbe un atteggiamento dai toni mafiosi che metterebbe allo stesso livello di questi parassiti. Purtroppo ai cittadini, a quelli perbene, non rimangono che l’espressione del voto e le denunce.
Così è, se vi pare. E intanto è come quando hanno ucciso l’Uomo Ragno: chi sia stato non si sa e nel frattempo si è risolto il problema buttando il bambino insieme con l’acqua.

Alberto C. Steiner

Gli articoli richiamati nel testo sono leggibili su Vorrei e su Lista per Biassono.

Sharing economy: una pericolosa “alternativa”.

A fronte di 90mila italiani che affittano per brevi periodi la propria casa evitando così di essere costretti a saltare le rate del mutuo, duemila Bed & Breakfast accetterebbero di essere pagati con un baratto senza presentare il conto agli ospiti.
E se centinaia di migliaia di persone abbattono le spese di viaggio del 75% caricando in auto passeggeri che non conoscono, sette milioni di persone nel mondo dormono gratuitamente in casa d’altri al posto di pagare un albergo. Numerosissime famiglie tedesche, invece di fare la spesa, consumano alimenti da altri ritenuti superflui,  risparmiando 400 euro mensili.Cesec-CondiVivere 2015.06.06 sharing economy pericolosa alternativa 001Ma non è finita: questi sono solo alcuni esempi della sharing economy, l’economia della condivisione che sta diventando il nuovo paradigma economico basato sullo scambio, sulla condivisione e sulla collaborazione che, secondo alcune stime, sembra valga almeno 110 miliardi di euro e sia in crescita del 25 per cento ogni anno.
È la tesi sostenuta da Gea Scancarello in Mi fido di te, libro edito da Chiarelettere che si definisce un viaggio nelle opportunità create dai nuovi network che offrono servizi legati all’economia collaborativa. Il tutto raccontato direttamente da chi ha provato house sharing, carpooling, social eating, foodsaving e via condividendo.
Concordo sul fatto che, nel pieno della crisi che attanaglia sistemi produttivi e consumatori, l’economia dello scambio contribuisca a ripensare il capitalismo in una logica redistributiva, nella quale i costi si trasformano in risorse e le persone possono riappropriarsi di occasioni economiche e sociali.
Ma, a parte il fatto che sarebbe stato bello leggere questo libro in italiano invece che infarcito di inutili anglicismi, in tutto devono esserci dei limiti. Primi fra tutti la propria integrità, ovvero il proprio Spazio Sacro, e la consapevolezza che non tutto ciò che viene contrabbandato come alternativo è oro che luccica. Mi spiego: questo modello ci porta a diventare accattoni credendo di essere fuori dal coro, ci fa smarrire il senso del lavoro e della sua dignità, non ci fa alzare la mattina determinati a costruire perché qualcosa comunque accadrà.
Ovvero: non preoccupiamoci se il nostro diritto al lavoro verra’ gradualmente smantellato, del resto il lavoro è pena, costrizione e sfruttamento e, mettendo insieme un po’ di reddito di cittadinanza e un po’ di elemosina barattata in giro, dovremmo riuscire a sfangare la fine del mese.
E poi io, scusate, ma non mi fido di uno che non solo non so come guida, non so se e come sia assicurato e non so infine se nel portabagagli trasporti un quintale di fumo.
E se i gestori di B&B vogliono svilire la loro professionalità regalando il soggiorno in cambio… in cambio di che? Dormo due notti e gli ridipingo le pareti? Ma figuriamoci, loro dimostrano di non valorizzare adeguatamente la risorsa imprenditoriale sulla quale hanno investito, e io in compenso so di non valere nulla come imbianchino.
Trovo che questo libro, al di là delle buone intenzioni, sia un inno al pressapochismo ed alla mancanza di professionalità ma, se decidiamo di vivere in una comune o in una setta di matrice orientaleggiante dove la condivisione è totale abbiamo fatto bingo. Peccato che gli hippies siano morti di vecchiaia e di stenti, tranne i più furbi che son diventati guru, e siano rimasti solo gli straccioni con la presunzione di insegnare agli altri come essere alternativi.
Oltretutto seguendo il percorso indicato nel libro si fa il gioco del potere più bieco, quello che oggi non è più neppure capitalista ma iperfinanziario, che vuole una massa di beoti non pensanti, amorfi, privi di iniziativa e massificati in ogni senso verso il basso come i negri (sissignori, ho scritto negri: consultare il Devoto-Oli) ridotti a vivere in attesa degli aiuti umanitari. L’iniziativa, signori, non consiste nello svegliarsi la mattina per andare a cercare la carità mascherata da new economy. Da delettare, libro e modello.

Lorenzo Pozzi

Beati gli ultimi perché faranno i primi: Avanzi di galera

Nella centralissima zona Magenta, a Milano, a pochi passi dalla basilica di Sant’Ambrogio, esiste un luogo pensato per 800 coperti, ma che ogni giorno riesce invece ad allestirne 1.500. Ma non è il ristorante di un elegante resort, è il carcere di San Vittore.Cesec-CondiVivere 2015.06.03 Avanzi di galera 001Nel 2005 per i tipi dell’editore Tommasi alcuni detenuti hanno pubblicato Avanzi di Galera, 190 pagine nel formato 12×22 in cui raccontano, in modo spesso umoristico ed autoironico ma senza filtri, la difficoltà di combinare il pranzo con la cena nel microcosmo carcere, dove non esistono le mense alle quali ci hanno abituati i film americani ma i detenuti prendono i pasti nelle celle. E chi può permettersi di fare la spesa cucina su fornelli da campeggio nella minuscola cucina che è anche il bagno, gli altri mangiano il carrello, ovvero quel che passa il convento, di qualità non esattamente eccelsa.
Alcuni attrezzi di cucina non sono ammessi, compresi i coltelli che vengono spesso ricavati dai coperchi delle scatolette di tonno ed altre conserve e l’inventiva la fa da padrona. L’approntamento dei forni o dei frigoriferi, per esempio, costituiscono apoteosi di creatività.
Il carcere, dove non si butta via niente perché tutto serve, come paradigma del riciclo: di cibo e di oggetti.
Un libro molto più utile all’ecosostenibilità e, in una babilonia di odori, sapori e culture, all’integrazione culturale di quanto non lo siano certi testi dell’alternativa patinata.
Temo che il libro, che ha persino un premio attribuito da una giuria presieduta da umberto Eco, sia ormai introvabile: ho avuto l’opportunità di leggerlo perché me lo ha prestato un amico e… prefazione di Renato Vallanzasca, mica pizza e fichi.

Lorenzo Pozzi