Sapessi com’è strano vedere una cascina, a Milano

Non ci crede mai nessuno, eppure Milano è il secondo Comune agricolo italiano: 2.919 ettari su una superficie comunale complessiva di 18.175 vale a dire il 16 per cento. Punteggiati da cento cascine, oltre la metà delle quali di proprietà pubblica.CC 2016.07.05 Cascine Milano 002Pascoli e grandi orti, vivai e campi di grano, risaie e ghiacciaie, mulini e fontanili, fossi e marcite nel corso di oltre un millennio hanno contribuito a costruire un paesaggio agricolo sconosciuto alla maggior parte dei cittadini.
Nella maggior parte dei casi sono dislocate nella fascia meridionale ed occidentale della città e, insieme con strutture attive nell’agricoltura, nell’allevamento, nel florovivaismo ve ne sono altre dove si svolgono attività sociali, in svariati casi alloggiando persone disagiate, ma rimane una quota non trascurabile di edifici e terreni in disuso che potrebbero essere recuperati.CC 2016.07.05 Cascine Milano 004Distretto Agricolo Milanese, Facoltà di Agraria, Politecnico, Associazione Disponibile, Fondazione Cascine Milano 2015 (per citare solo alcuni nomi) in collaborazione con il Comune e con il concorso di numerose cooperative, associazioni, comitati e privati cittadini svolgono da anni un impegnativo lavoro tendente al riutilizzo degli spazi, spesso ampi, per mantenere vivo il tema allargando la base di interessi e consensi attraverso interventi di sensibilizzazione dei cittadini e delle istituzioni, affinché le cascine ritrovino la loro vocazione agricola o rinascano attraverso interventi sociali, culturali o ambientali.Colorful rural house with gardenLe difficoltà ci sono, primariamente quelle economiche: recuperare una cascina costa e, mancando l’intento speculativo, sono ben pochi, anche nell’industria agroalimentare, gli sponsor che non cedono alla tentazione di finanziare qualche installazione urbana di dubbio gusto ma di certa visibilità funzionalmente ad un ritorno da parte del target dei consumatori dormienti. Le imprese di costruzione, e mi riferisco a quelle blasonate, preferiscono investire in grattacieli destinati a consumare suolo e rimanere vuoti, ma illuminati di notte, e le fondazioni bancarie allargano più la bocca che i cordoni della borsa.
Ma cosa si produce nelle cascine milanesi? Secondo una mappatura promossa nel maggio 2014 dal Touring Club in collaborazione con Comune di Milano, Esselunga e Distretto Agricolo Milanese e riguardante un primo lotto di 32 unità si possono anzitutto acquistare prodotti a chilometro zero, conoscere i contadini e la loro realtà lavorativa, le coltivazioni locali, l’allevamento e la vendita diretta dei prodotti della terra per promuovere una parte importante dell’economia ponendo attenzione alla qualità e alla sicurezza del cibo.CC 2016.07.05 Cascine Milano 003Grazie alla mappa i milanesi possono sapere che alla cascina Corte del Proverbio – nel parco delle Cave – è possibile acquistare miele, o che alla Cascina Grande di Chiaravalle accanto all’attività agricola vi è un centro equestre. Oppure che alla cascina Campazzo, sorella della Campazzino e nel parco del Ticinello a meno di duecento metri dalla stazione M2 di Abbiategrasso, tanti milanesi vanno a comprare latte crudo ai distributori automatici. E ancora il Nocetum gestito da un’infaticabile suora, Ancilla Beretta, che accoglie ragazze madri e donne vittime di violenza. Naturalmente la mappatura non trascura quell’ecoscicchissimo giocattolo della Cascina Cuccagna, a Porta Romana.

Alberto C. Steiner

Ecosostenibilità dell’anima: la memoria è Donna

Quando noi italiani pensiamo alla pulizia etnica ci raffiguriamo normalmente i Balcani, l’Africa post-coloniale o, andando a ritroso nel tempo, gli Armeni, i Nativi Americani, i Catari.
Quasi mai arriviamo a considerare che anche la nostra Penisola fu teatro di simili efferatezze, eppure i Celti – o, per meglio dire, le tribù di matrice celtica – primi abitanti della Lombardia e fondatori di Milano, furono dapprima sterminati fisicamente dai Romani e, successivamente, la religione cristiana tentò in ogni modo di cancellare le tracce delle loro credenze religiose basate su una Natura Madre e su un intimo contatto con foreste, acqua, animali, montagne. Ma non vi riuscì: possiamo ancora ritrovare, vivissimi e presenti, i segni di quell’arcaico e arcadico modo di intendere la vita nella tradizione, nelle leggende, nei miti, nelle feste popolari, nelle filastrocche, e nelle testimonianze oggettive.CC 2016.07.04 Celti 001Per esempio, nel capoluogo lombardo, in quella stele con la famosa “scrofa mediolanuta” sognata da Belloveso e che originò il toponimo Mediolanum, peraltro conteso con i significati di località in mezzo alla pianura oppure luogo fra corsi d’acqua, stante la presenza dell’Olona, del Lambro e del Seveso. Si tratta di uno dei bassorilievi più antichi mai rinvenuti nella Regione, che tuttora campeggia al posto d’onore su uno degli edifici più importati del capoluogo, il Palazzo della Ragione di piazza Mercanti.CC 2016.07.04 Celti 002Dei Celti si sa ancora pochissimo perché come altri erano un popolo che non affidava alla scrittura la propria memoria, ma nel corso degli anni scolastici 2009-2010 e 2010-2011 vennero attuati onorevoli tentativi, in programmi didattici per le scuole elementari e medie, per insegnare l’acquisizione di un metodo atto a riconoscere ciò che dei Celti è rimasto insegnando a bambini e ragazzi ad osservare ciò che li circonda con occhi nuovi, a censire le tradizioni popolari locali alla scoperta delle matrici celtiche e, al termine del corso, organizzando una festa con tanto di falò propiziatori.
Come in tutte le comunità arcaiche anche in quella celtica le donne occupavano un posto di rilievo nell’economia della tribù e del villaggio: furono le prime contadine, preparavano il cibo, curavano i malati, determinavano i tempi della festa e del piacere, della vita e della morte, amministravano il rapporto con gli spiriti, prevedevano il futuro e interpretavano le voci dell’aldilà. Sappiamo bene come tale cultura venne ad un certo punto demonizzata e distrutta da Chiesa e Stato: in tal senso la caccia alle streghe fu la prima “soluzione finale” della storia europea.
Ma anche in questo caso non tutto il loro sapere è andato perduto, anche se certe capacità e conoscenze sopravvivono ancora oggi, alcune rivalutate pubblicamente, altre in maniera sotterranea.CC 2016.07.04 Celti 003Ritroviamo la figura dell’Herbaria già nella cultura Romana, e non ancora con valenza completamente negativa: è storicamente provato come i primi orti non servissero per nutrire bensì per guarire, e furono proprio le donne a realizzarli; e ancora le donne provvidero a curarli ed a renderli esteticamente gradevoli, non solo per il piacere dello sguardo ma anche per l’energia che emana da ciò che costituisce una gioia per l’anima e uno sfogo di creatività.
Il corso sopra menzionato si occupò ache di tale aspetto: nella cornice del Parco Nord furono realizzate alcune aule verdi nelle quali vennero attuate delle sperimentazioni basate sull’antico uso delle erbe officinali, creando nel contempo spazi dedicati ai colori dei fiori, ed in special modo ad alcuni di essi,i che da sempre la tradizione assegna  all’uso rituale sacralizzato.
Il corso non trascurò di far conoscere, mediante audiovisivi ed altri supporti, la storia della stregoneria in Europa, il censimento delle tradizioni popolari locali e la ricognizione degli orti esistenti, coinvolgendo inoltre nelle lezioni sull’uso delle erbe e degli orti donne che se ne occupavano.

Alberto C. Steiner

CESEC, Centro Studi Ecosostenibili: chi siamo

Per una volta parliamo di noi, spendendo solo poche parole. Anzitutto siamo una microstruttura, perché l’interlocutore abbia risposte immediate e certe direttamente da chi possiede le facoltà decisionali. Questo ci consente la massima efficacia.CC 2016.06.28 Chi siamoProgettiamo il recupero strutturale e funzionale di realtà territoriali dismesse e, più in particolare, in stato di pregiudizio finanziario: aziende agricole, terreni, edifici rurali, borghi abbandonati per riportarli a nuova vita impiantandovi attività agrosilvopastorali, di trasformazione agroalimentare, artigianali, ricettive, didattiche, residenziali attuate preferibilmente secondo la formula del cohousing. Crediamo nella comunità ma non nella comune.
Attenti al rispetto del territorio ed alle sue tradizioni, relativamente ai recuperi edilizi poniamo particolare cura nell’utilizzo di materiali locali e naturali quali, per esempio, paglia e terra cruda, calce e pozzolana, beole, carpenterie in legno ed infissi e serramenti certificati non trattati con agenti chimici.
Attenti all’impatto ambientale privilegiamo l’utilizzo di energie a bassa intensità e rinnovabili: fotovoltaica e idraulica, recupero delle acque piovane e riutilizzo di quelle domestiche, minimizzazione degli sprechi anche attraverso il riutilizzo dei rifiuti.
Ove possibile tendiamo a non installare impianti di riscaldamento, diversamente ci atteniamo alle specifiche note come KlimaHaus, fissate originariamente dalla Provincia di Bolzano con il DPGP 34 del 29 settembre 2004 e che fissano in Classe A un valore di fabbisogno energetico per riscaldare efficacemente per un anno la superficie di 1 m² ≤30 kWh/m²a (parametrate a 3 litri/m² di gasolio), e in Classe Gold ≤10 kWh/m²a (1 litro/m²).
Attenti alle istanze sociali tendiamo ad insediare, nelle strutture oggetto di recupero, quote residenziali e lavorative destinate a soggetti deboli o portatori di disagio sociale, non come attività caritativa bensì creando realtà in grado di autoalimentarsi finanziariamente.
Crediamo che l’ecosostenibilità e l’iniziativa privata possano sostenersi vicendevolmente e che siano anzi maggiormente efficaci senza etichette o sponsor politici; per tale ragione la nostra attività si sviluppa preferibilmente grazie al ricorso a risorse finanziarie private: business angels e investitori ai quali, nel medio periodo, siamo in grado di riconoscere remunerazioni adeguate.
La nostra esperienza lavorativa specifica data da oltre un ventennio e attraverso le nostre sedi operative di Milano e Verona siamo attivi nel Nord e Centro Italia.

Alberto C. Steiner

Se la consapevolezza è un optional

Ho sul tavolo la perizia di un trilocale in via Cesare Correnti, a Milano, della superficie commerciale pari a 107 m2. Risale all’anno scorso e l’arguto collega lo ha valutato 750mila Euro.CC 2016.06.23 Correnti 001Notare in alto a sinistra nella planimetria qui sopra riportata quella specie di L rovesciata: è una balconata che affaccia nel cortile, alla quale si accede dal vano scala. Misura complessivamente m2 6,3308.
Se la proprietà è valutata 750.000 Euro parametrati ad una superficie commerciale di 107 m2, vale a dire 7009,34 €/m2 la balconata varrebbe 7.009,34 x 6,3308 =  44.374. Più di 44mila Euro per un pezzo di ringhiera?
L’esimio collega chiosa altresì, nella descrizione tecnica, che la proprietà è in un contesto elegante di metà Ottocento (vero) ben abitato (meglio verificare, l’esperienza mi ha insegnato che le sorprese sono in agguato) ed in un quartiere di pregio e tranquillo. Come no: dietro l’angolo ci sono le Colonne di San Lorenzo, il Parco delle Basiliche e il Ticinese ed ogni milanese sa cosa significhi ad ogni ora del giorno e soprattutto della notte: strafatti, accattoni, balordi, schiamazzi, bottiglie di birra schiantate a terra, vomito ed ogni forma di deiezione umana e disumana.CC 2016.06.23 Correnti 002La stessa via Correnti è un maleoelente corridoio impestato da auto in coda ad ogni ora del giorno, alla mattina in direzione centro ed alla sera in direzione periferia; per percorrere i suoi trecento metri scarsi ci si impiega più di mezzora.
Supermercati, scuole, servizi di quartiere? Ma non diciamo cazzate… beh, no: c’è San Vittore, non lontano. L’appartamento si trova al secondo piano, quindi nemmeno ad un piano alto: vi lascio immaginare. Inoltre, stando alla planimetria, l’accesso è da una specie di disimpegno adiacente alla cucina, il bagno affaccia sulle scale e la camera da letto padronale, considerato che non può esserlo il loculo di m 4,27 x 2,21 in alto a sinistra, è ricavata necessariamente in uno dei due locali che affacciano sulla strada. Insomma, un appartamento tagliato malissimo.CC 2016.06.23 Correnti 003Non occorrono altri commenti, dico solo che se un mio cliente disponesse di quella cifra e fosse sano di mente, con 125mila Euro gli troverei un bilocale d’appoggio in città (e non necessariamente a Ponte Lambro), con 550mila una tenuta della madonna nel Piacentino o sui colli bergamaschi o bresciani, forse addirittura sulla sponda lecchese del Lario. E gli rimarrebbero in tasca 75mila Euro da impiegare, tolto il mio compenso, come preferisce.

Alberto C. Steiner

In quel tempo… in 250mila camminarono sulle acque

Non è successo sul lago di Tiberiade ma su quello d’Iseo, grazie ad una passerella galleggiante a pelo d’acqua, installata da uno dei più grandi esponenti di una corrente artistica detta Land Art che, guarda caso, si chiama Christo.
No, pare che ai panini per la folla non abbia pensato nessuno. E in verità in verità vi dico che questo non è bene.CC 2016.06.22 Floating 001Tutti osannano la geniale installazione, Lombardia da Vedere si spinge addirittura ad affermare che «vale proprio la pena provare l’emozione di far parte di un’opera d’arte di livello internazionale.»
Io la trovo un’oscenità ributtante in ragione dell’impatto ambientale, del pericolo che può costituire per natanti e visitatori e della sua assolutà inutilità culturale.
E intanto leggo su Il Giornale di Brescia di oggi (ieri per chi legge – NdA): «In quattro giorni di apertura di The Floating Piers si sono registrati circa 250mila visitatori. E la passerella, fa sapere la cabina di regia, necessita di lavori di manutenzione straordinaria.
Ci sarà quindi una selezione nei punti di ingresso: Il residuo ponte fruibile – spiega l’organizzazione – consentirà la presenza di non oltre 1.000 persone, mentre la parte di terraferma interessata consentirà l’accesso di sole 1.000 persone.»CC 2016.06.22 Floating 002Struttura solida, non c’è che dire. Dopo 40 anni Christo, l’imballatore compuilsivo di origine bulgara definito artista per aver impacchettato qualsiasi cosa gli capitasse a tiro compresi la Porta Pinciana e il Reichstag, ritorna in Italia: confesso di non averne sentito la mancanza.
Dall’intellighenzia inculturale nostrana gli è stato concesso di scegliere il Sebino per imbrattarlo con detta passerella che, dal 18 giugno al 3 luglio, permette anche ai non credenti di camminare sulle acque per una lunghezza di tre chilometri. Realizzata con 200mila cubi di polietilene ad alta densità che formano pontili galleggianti larghi 16 metri, è rivestita da 70mila metri quadrati di scintillante tessuto arancione. Il percorso, da Sulzano a Monte Isola, si svolge tra terra e acqua includendo l’Isola di San Paolo.
Rispondendo alle lamentele dovute alle estenuanti file per poter accedere all’impagabile opera l’artista ha chiosato, stando a quanto riportato dal quotidiano La Repubblica:  “L’attesa è parte della mia opera, o avete pazienza o non venite.” Vale, come sempre, il mai abbastanza usato gavte la nata citato da Eco nel Pendolo.

ACS

Seawer: è coreano il mostro marino che mangia la plastica

L’idea mi colpì e ne scrissi l’11 aprile 2014 su Kryptos Life and Water – Investire nel futuro del pianeta Terra, ma sembrava dovesse finire relegata nel cassetto dei sogni. E invece una società finanziaria cinese sta oggi mostrando interesse per il progetto del coreano Sung Jin Cho.
Il suo nome è Seawer: si tratta di un grattacielo al contrario, galleggiante e di forma conica del diametro di base pari a 550 metri, immerso nelle acque marine da pelo d’acqua e sino a 300 metri di profondità.CC 2016.06.13 Seawer 001La struttura, in grado di funzionare come stazione di riciclaggio per l’oceano, è in realtà un foro di aspirazione al cui interno verrebbe inglobata la spazzatura affiorante sulla superficie dell’acqua.CC 2016.06.13 Seawer 002La plastica, raccolta da appositi filtri, verrebbe dapprima frantumata e successivamente micronizzata attraverso cinque filtri consecutivi in modo da poter essere recuperata e, una volta ridotta in particelle e risalita verso la superficie per effetto della leggerezza, potrebbe essere raccolta e riutilizzata una volta separata dall’acqua e da qualsiasi eventuale residuo organico.
Quella dei residui organici è una questione alla quale si sta lavorando: l’impianto, nella sua attuale configurazione, non può evitare l’assorbimento di piccoli animali marini, che allo stato attuale del progetto verrebbero rilasciati in mare costituendo una forma di nutrimento per la fauna ittica.
L’acqua raccolta invece, filtrata una prima volta, verrebbe convogliata nelle profondità della struttura finendo in appositi bacini di sedimentazione e decantazione per essere ulteriormente purificata e, una volta ripulita, verrebbe rilasciata nuovamente in mare.
Per dare un’idea dell’eventuale ricaduta del progetto, i marinai che solcano le acque del Pacifico sempre più frequentemente si trovano a navigare in un vero e proprio mare di spazzatura, originato dal fatto che ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti plastici finiscono negli oceani, arrivando a formare vere e proprie isole di pattume non biodegradabile denominate GPGP, Great Pacific Garbage Patch; alcune di queste sono di dimensioni superiori ad un paese come la Francia e, guidate dalle correnti oceaniche, hanno più volte compiuto il giro del mondo costituendo una grave minaccia per l’ecosistema e per gli animali marini.CC 2016.06.13 Seawer 003I rifiuti navigano talmente compatti, com’è visibile nello schema a corredo riportato qui sotto, da impedire all’aria ed alla luce del sole di penetrare nell’acqua, con tutte le immaginabili nefaste conseguenze.CC 2016.06.13 Seawer 004L’impianto non solo sfrutterebbe l’energia solare per il funzionamento e per gli spostamenti, ma sarebbe in grado di produrre energia elettrica.
Nonostante la menzione d’onore che guadagnò al concorso eVolo Skyscraper 2014 il progetto, sicuramente futuristico, venne però definito visionario.
A nostro parere una sola cosa è certa: il notevole costo di realizzazione, che se fossimo più civili e consapevoli avremmo potuto risparmiare destinando le risorse ad altre iniziative. Ma ormai siamo alla polmonite, e quella non si cura con l’aspirina (Le immagini provengono da Kryptos Life and Water).

Alberto C. Steiner

Storie di sodomiti e sodomizzati: Veneto Banca

E così siamo arrivati al dunque: anche Veneto Banca, come Popolare di Vicenza, è costretta ad azzerare il valore delle azioni. Pare comunque disposta ad andare in conciliazione con gli azionisti. Questa si che è una consolazione…CC 2016.06.01 Venetobanca 001Non avendo trovato sottoscrittori “di peso”, e non sappiamo da cosa sia dipeso, Veneto Banca è stata costretta ad azzerare, o quasi, il valore delle azioni.
Una storia che ricorda fin troppo da vicino Banca Popolare di Vicenza, che come è ormai noto ha fallito il tentativo di quotazione ed è stata “salvata” dal fondo Atlante.
E a cosa stanno pensando i cervelloni della banca? A convincere gli investitori a mettere nuovi capitali nella banca, è ovvio.
Più probabilmente sarà ancora una volta il fondo Atlante a mettere una pezza.
Secondo un comunicato dello stesso istituto di credito, Veneto Banca si dice disponibile ad andare in conciliazione con tutti i suoi clienti possessori di azioni, di fatto ormai talmente svalutate da essere invendibili. La nostra speranza è che non sia solo un’arma a disposizione della banca per chiudere la vicenda a poco prezzo, ma che le condizioni della conciliazione siano eque e garantiscano un giusto risarcimento ai risparmiatori coinvolti. Tanto più che pesa il sospetto che le azioni siano state vendute senza informare i consumatori dei possibili rischi, abbassandone poi il valore dell’80-90% rispetto solo a pochi mesi prima e rendendo di fatto nulla la possibilità di rivederle.
Un po’ di storia: a dicembre 2015 Veneto Banca aveva fissato il prezzo di recesso delle azioni a 7,30 euro, obbligando di fatto gli azionisti che avessero voluto liberarsi delle azioni a perdere l’81% del valore di ogni azione (solo ad aprile il valore era a 39,50 euro). Per queste ragioni l’istituto di credito è stato diffidato per aver violato i diritti e gli interessi dei consumatori stabiliti dal Codice del Consumo e dalla normativa dei settori bancario e finanziario, vale a dire dalla Consob, l’organismo di controllo in seno alla Banca d’Italia, la banca della quale sono proprietarie le maggiori banche nazionali.
Ed ora, cosa sta per accadere agli azionisti?
Semplice: trattandosi di una banca non quotata, dopo aver acquistato le azioni i clienti non hanno la possibilità di liquidarle. L’unico modo di liberarsene, infatti, è quello di rivenderle alla banca stessa, che però non è tenuta a riacquistarle. E la banca  non solo ha tagliato il prezzo dell’81% Veneto Banca ma impedisconoe ufficialmente agli azionisti di avvalersi del diritto di recesso. Infatti se anche i risparmiatori fossero disposti a subire le perdite, le normative varate guarda caso qualche mese fa da Bankitalia permettono alle banche popolari di escludere il diritto di uscita ai soci nel caso in cui la banca non rispetti il capitale minimo richiesto dalla Bce.
Ma le brutte sorprese non sono finite: il rischio che siano gli azionisti a pagare le difficoltà della banca è alto. Se non dovesse andare in porto la ricapitalizzazione e nessuno degli investitori istituzionali, come pare, fosse intenzionato a mettere soldi nel fondo Atlante per salvare la banca, potrebbe scattare il meccanismo del bail-in; in questo caso proprio i possessori di azioni e obbligazioni sarebbero obbligati a mettere soldi di tasca propria per tenere a galla l’istituto di credito. Difficile uscirne, il nostro consiglio è: chi ha la possibilità di andarsene – titolari di obbligazioni quotate e correntisti – farebbe bene a migrare altrove il prima possibile.
E per la serie: le favole della buona notte, la banca (e questo vale anche per Popolare Vicenza) avrebbe intenzione di quotarsi in Borsa nei prossimi mesi. Grazie a questo gli investitori dovrebbero (dovrebbero) riuscire a rivendere le azioni. Si ma, a che prezzo?
Conti in rosso e aumento di capitale imposto dalla Banca Centrale Europea entro il primo semestre 2016 sono due premesse poco incoraggianti, che porteranno certamente la banca ad offrire le nuove azioni a prezzi stracciati, penalizzando così i vecchi azionisti.
E poi c’è chi dice via dall’Europa… Certo, perché così anche quel minimo di controllo verrebbe a cadere.

Alberto C. Steiner

Ti lascio Bio

Semplicemente magistrale. Il bio di maniera, il bio dell’ignoranza, il bio ecochic demolito a colpi di risate. Leggetelo qui ma soprattutto ascoltatelo e guardatelo qui.CC 2016.05.30 Ti lascio bioE questo è un estratto.
Hai messo la giacca buona, quella in fibra vegetale e te ne sei andato nei salotti-bene, eh, bastardo d’un Bio.
Sei entrato come una rockstar, alle feste, negli home-restaurant, nei fusion bistrot, nei vegan bakery, nei veggie burger, nei meltin pepper, nel fucking crumble e in mille altre stronzate che non so minimamente cosa significhino.
Bio…eri il mercato del giovedì, il vecchio al bar, la zappa che ti faceva venire le vesciche con le bolle d’acqua, che sembravi un paziente di Madre Teresa di Calcutta.
E ora?!
E ora Bio, che ci fai nella boutique a Parigi con le tue foglie lucidate una per una?!
Hai fatto i soldi a colpi di germogli tibetani, di caprette pettinate coi prodotti Kerastase e fotografate da Tim Walker.
Sei diventato ricco con la farina di Kamut, eh?
Mi hai rotto il cazzo Bio.
I contadini…
I contadini mi hanno detto che se ti beccano, caro Bio, ti mettono il forcone nel culo e girano fino a quando non fuoriesce il centrifugato della tua ignoranza, Bio, anzi l’estrazione a freddo.
Ti lascio Bio, mi hai delusa tu e tutti i mercatini con gli artisti di strada e gli artigiani vestiti da folletti.
Tu e i tuoi certificati NO OGM che l’Europa vende a caro prezzo.
Tietteli stretti i tuoi bollini verdi e facci la raccolta di pentole al supermercato.
E’ finita.
Vai a morire ammazzato Bio.

Alberto C. Steiner

I numeri dell’agricoltura lombarda

Quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello. Ma vacche e suini, confinati in veri e propri lager, non lo sanno.
Del resto chissenefrega, mica hanno letto il Manzoni loro. Tutt’al più diventano Manzotin, il marchio acquistata giustappunto nel gennaio di quest’anno dal boss della carne nazionale, il solito Cremonini.
Lo scopo di questo scritto è evidenziare i numeri dell’agricoltura lombarda. Dopo il censimento del 2000, quello del 2010 e quello del 2013 l’Istat ha in corso l’elaborazione di un aggiornamento dello stato dell’arte, ancora privo dei crismi dell’ufficialità ma che presenta importanti spunti di riflessione: economica, sociale ed etica.
Nell’attesa che l’indagine venga diffusa ufficialmente rinfreschiamoci la memoria con gli ultimi dati disponibili, quelli del 2013: ci serviranno quando, prima dell’estate, disporremo dei dati aggiornati. Nella consapevolezza che in questi tre anni molte cose sono cambiate, e non sempre in meglio.CC 2016.05.28 Agrilombardia 000È noto come la regione italiana a più elevata vocazione agricola sia la Lombardia, nella quale sono censite 54.333 aziende attive. Rappresentano il 3,3% del totale nazionale mentre la SAU, Superficie Agricola Utilizzata, rappresenta il 7,7 % di quella nazionale con 986.853 ettari.
La dimensione media aziendale è cresciuta nell’ultimo decennio del 24%, passando da 14,8 ettari di SAU a 18,2, valore più che doppio rispetto alla media nazionale.
A fronte del calo complessivo del numero di aziende (-23,5 % rispetto al censimento del 2000), si osservano variazioni positive per superfici e aziende rientranti nelle classi di SAU > 50  ettari.  La  SAU  della classe 50 ha e oltre copre il 55,6% del totale.
Ciò significa che chi dispone di capitali o ha accesso al credito – spesso investitori stranieri – ha acquistato superfici, non infrequentemente tramite le esecuzioni giudiziarie di aziende fallite. Ricordo che nel solo 2013 (dati non censiti in questa analisi) ha chiuso i battenti il 22% degli agriturismi, formalmente classificati come aziende agricole. Vedasi il nostro articolo dell’8 ottobre 2014: Agriturismi, anche no.CC 2016.05.29 Agrilombardia 001La struttura giuridica prevalente è l’azienda individuale (53,5%) ma le forme societarie – a partire da quella classica nel mondo agricolo, la Società Semplice – hanno un peso relativo (39,4%) maggiore di quello nazionale (15,4%).
Aumenta il ricorso a  terreni in affitto (49,5%) in crescita di 8 punti percentuali diventando la forma di possesso più diffusa e per la quale la quota di SAU sul totale, oltre ad essere più elevata rispetto a quella osservata nel 2000, lo è anche rispetto al valore nazionale (29,9%).
La proprietà cala invece di 10 punti percentuali rispetto al 55,3% del 2000, mentre sono in leggero aumento i terreni concessi ad uso gratuito (dal 3,3% nel 2000 al 5% nel 2010).
Nel triennio 2013-2016, i dati lo confermeranno, vi è stata un’impennata dei terreni concessi in uso gratuito a privati, associazioni, Onlus, anche in ambito urbano per impiantarvi attività con prevalente finalità sociale o didattica. E questa è una delle poche cose buone..
Il dato nazionale sui terreni di proprietà è 61,9%, anche qui in calo rispetto al 76,8% del 2000.CC 2016.05.29 Agrilombardia 003In Lombardia le aziende sono più informatizzate rispetto alla media nazionale (15% contro 4%) con utilizzo delle tecnologie informatiche rivolto prevalentemente alla gestione dei servizi amministrativi  ed al marketing.
Rispetto al resto del Paese in Lombardia risulta superiore alla media anche il ricorso alla vendita diretta dei prodotti ad altre aziende agricole (33,5%) ad imprese industriali (41,0%) a GAS, Gruppi di Acquisto Solidale, e privati (29,7%).
In netto calo le aziende con allevamento (-21,8% in Lombardia, -41,3% in Italia rispetto al 2000) ma contemporaneo incremento della loro dimensione e dell’importanza relativa al settore nel contesto nazionale.CC 2016.05.29 Agrilombardia 002Qui il dato non deve trarre in inganno: le aziende allevatrici non calano per una sia pur riscontrabile diminuzione del consumo di carne – in Lombardia prevalentemente bovina e suina e solo in determinate circostanze (Pasqua) ovina – ma perché la carne, in forma di capi vivi o già macellata, viene importata dall’estero, specialmente dai Paesi dell’Est europeo dove molte aziende hanno acquistato, negli anni scorsi, estesi appezzamenti, agevolati in questo dalla concessione di finanziamenti speciali e da norme fiscali favorevoli. Per dire di un prodotto: la bresaola IGP della Valtellina è prevalentemente preparata con carne proveniente dalla Romania.
Ciò significa che numerose aziende di allevamento si sono progressivamente trasformate in aziende di trasformazione agroalimentare.
A tale proposito non bisogna dimenticare che la Lombardia, con Emilia Romagna e Veneto una delle tre regioni italiane a forte vocazione zootecnica, contribuisce comunque in misura significativa al valore della produzione animale nazionale e comunitaria.
L’allevamento bovino è il più diffuso tra gli allevamenti lombardi e le 14.718 aziende attive rappresentano il 12% circa del totale nazionale gestendo il 26% del patrimonio bovino nazionale (1.484.991 capi). Il settore presenta dimensioni medie elevate, più che doppie rispetto a quelle nazionali (45 capi/azienda) con una notevole meccanizzazione ed un’organizzazione di stampo industriale. I capi per azienda risultano in crescita nell’ultimo decennio (da 82 a 101 capi, pari appunto a circa il 26%). Tale dinamica riflette una contrazione del numero di allevamenti bovini, pari al 25,2%, superiore a quella della consistenza del patrimonio bovino (-7,6%).
Il più intenso processo di contrazione riguarda gli allevamenti da latte (-31,1%) ma la consistenza del patrimonio di vacche da latte ha registrato un calo inferiore (-2,4% rispetto al -7,6% del totale bovini). Ciò ha determinato un aumento delle dimensioni medie da 46 a 65 vacche per azienda (+42% circa).
Gli allevamenti da latte sono 8.463, pari al 16,8% di quelli italiani, con un numero di capi corrispondenti a più di un terzo di quelli allevati in Italia (34,7%).
Per quanto riguarda le specie ovine e caprine si registra un aumento del numero di capi rispetto al 2000 del 17,0%, con un ampliamento delle dimensioni medie da 35 a 64 capi per azienda per gli ovini e da 16 a 26 capi per i caprini. Le variazioni sono intervenute parallelamente alla riduzione del numero degli allevamenti, rispettivamente pari a -35,3% e a -28,6%.
In ogni caso tali allevamenti rappresentano, come sempre, un’attività di nicchia rispetto al totale nazionale con il 3,2% degli allevamenti ovini (1,6% dei capi) e del 9,7% di quelli caprini  (6,7% dei capi) e sono prevalentemente concentrati nelle montagne di Bresciano e Lecchese.
Quanto ai suini il dato censuario mette in luce un sensibile incremento della consistenza regionale di capi (+24,0%), che ammontano a 4.758.963, a fronte di una riduzione del 59,2% del numero di allevamenti. La suinicoltura lombarda, interessata diffusamente da forme diverse di contratti di soccida, è al primo posto nel quadro produttivo nazionale ed interessa 2.642 aziende (10,1% del totale nazionale) che controllano il 51% della consistenza suinicola nazionale, con prevalente localizzazione nel triangolo della Bassa Lombardia (Brescia, Mantova e Cremona). Le dimensioni medie degli allevamenti, pari a 1.800 capi per azienda con punte che rasentano le 2.900 unità, risultano le più elevate in Italia e notevolissima è la loro ricaduta in termini ambientali.
Niente affatto da dimenticare, e il dato è comune alle specie bovine, che un elevato numero di capi parametrato ai pochi addetti, significa che i capi vivono permanentemente immobili in spazi angusti e collegati a macchine che si occupano della loro accudienza e della mungitura, della sola mungitura nel caso degli ovini.
La stessa riproduzione avviene con metodi non naturali, procedendo di fatto alla masturbazione dei maschi ed inoculando il seme nelle femmine mediante apposite attrezzature. Del resto, con migliaia di capi e tempi da catena di montaggio non è pensabile fare diversamente.
Relativamente all’utilizzo della superficie agricola la Lombardia presenta una più elevata quota di superficie agricola investita a seminativi rispetto al resto d’Italia (58,2% contro 41,0%), ma con dimensioni medie aziendali più che doppie; inoltre, la superficie destinata ad arboricoltura da legno, seppur con una quota contenuta, pari al 1,5% della SAT regionale, raggiunge un’incidenza elevata nel contesto nazionale (18,5%), con dimensioni medie anche in questo caso più che doppie.
La superficie investita a prati permanenti e pascoli rappresenta il 6,8% della relativa superficie nazionale, pari al 19,1% della SAT, Superficie Agricola Totale, regionale, percentuale in linea con la media nazionale.
Presentano, invece, una quota SAT inferiore alla media nazionale le coltivazioni legnose agrarie (3,0% contro il 13,9%) e la superficie annessa ad azienda agricola destinata a boschi (11,5% conto 17,0%) ma con analoghe dimensioni medie per entrambi gli utilizzi.
La  forza  lavoro  è  prevalentemente familiare con una corrispondente quota sul totale del lavoro impiegato di poco inferiore a quella che caratterizza il contesto nazionale (71,4% contro 75,8%).CC 2016.05.29 Agrilombardia 004L’intensità di lavoro pro-capite è più elevata in Lombardia rispetto a quella nazionale: 153 giornate di lavoro contro 69 per la manodopera familiare, 107 contro 53 per quella non familiare. Quest’ultima è rappresentata dal 40% di lavoratori stranieri, in particolare originari dell’Est europeo e asiatici di India, Nepal, Pakistan, in particolare negli allevamenti del Cremonese e del Mantovano.CC 2016.05.29 Agrilombardia 005Nel dettaglio, il sistema agricolo lombardo si avvale complessivamente del lavoro di 137.447 addetti, di cui 98.157 familiari e 39.290 salariati. Le risorse umane impiegate nel settore agricolo lombardo rappresentano il 3,5% della manodopera agricola italiana nel suo complesso. Il conduttore rimane la figura centrale nell’ambito delle aziende a conduzione familiare sia in termini di numero di persone (54,1% del totale della manodopera familiare) sia in termini di impegno lavorativo (171 giornate uomo durante l’annata agraria contro una media di 153 giornate della manodopera familiare complessiva). In termini di numerosità seguono gli altri familiari del conduttore (17,8%), il coniuge (16,6%) e, infine, altri parenti (11,5%). In termini di intensità lavorativa troviamo nell’ordine gli altri familiari, i parenti e il coniuge con rispettivamente 164, 144 e 94 giornate uomo.
L’impegno lavorativo in termini di giornate per lavoratore è sensibilmente maggiore in pianura (170) rispetto alle fasce collinari (145) e montane (127).
Se per necessità tattiche le “scarpe grosse” rimangono, si accentua il “cervello fino”: oltre un terzo dei capi azienda è diplomato o laureato e il 78,2% delle aziende agricole di pianura è gestito da maschi. Le donne incidono maggiormente nelle zone montane (30,0% sul totale). I capi azienda lombardi hanno un’età media di circa 56 anni e sono, per la quasi totalità, di cittadinanza italiana.CC 2016.05.29 Agrilombardia 006Il 64,2% dei capi azienda ha un titolo di studio che non supera la licenza media, e la quota di coloro che hanno una preparazione scolastica specifica per il settore agrario è esigua (9,6%). Rimane quindi prevalente una formazione ancora molto legata all’esperienza sul campo piuttosto che a quanto appreso sui banchi di scuola. Tuttavia questa tendenza in Lombardia è meno accentuata rispetto all’intero contesto nazionale, dove le suddette percentuali sono pari a 71,5% e 4,2%
Sempre più diffuso infine il contoterzismo,  attivo  e  passivo: il  primo  è  praticato  dal 2,4%  delle  aziende  regionali (1,1%  a  livello  nazionale) ed al secondo ricorre il 48% delle aziende (33% il dato nazionale) con un più elevato numero di giornate/azienda  (9  in Lombardia a fronte di 7,4 a livello nazionale).

Alberto C. Steiner

L’espansione incontrollata del bosco: i pantaloni in velluto Visconti di Modrone non sono un’attenuante

Cosa fai se all’appuntamento fissato per parlare di espansione incontrollata del bosco e dei rimedi per contrastarla ti si presenta un esperto, ricercatore del Centro di politiche e bioeconomia del Crea nonché docente universitario, in giacca di tweed verde bosco, sciarpettina sofficiosa nei toni del bruciato e (supremo orrore) pantaloni color senape in velluto a costine palesemente Visconti di Modrone?Cesec-CondiVivere 2014.10.07 FioreO passi direttamente all’omicidio, nella consapevolezza che nessun tribunale accoglierà la tesi che il velluto a costine Visconti di Modrone possa costituire un’attenuante, o te ne vai. O lo ascolti, nella certezza che profferirà puttanate. E infatti: “Negli ultimi decenni oltre ad aumentare la superficie coperta dal bosco è aumentata soprattutto la densità forestale. Significa che c’è molto meno spazio tra un albero e l’altro e un sottobosco che sempre più spesso è ormai impenetrabile, tanto è vero che spesso è impossibile entrare nel bosco per spegnere le fiamme e l’unica alternativa è quella dei Canadair.”
Entrare nel bosco? Ma tu ci sei mai entrato in un bosco in fiamme? Ma tu lo sai che gli alberi bruciano a 800 gradi eh, pirla? Scusate il pirla ma è d’obbligo.CC 206.05.01 Espabosco 001E se questi sono i nostri esperti, che rilasciano dichiarazioni e interviste pubblicate persino dal National Geographic (22 febbraio scorso, leggibile qui) chissà come sono messi quelli che non ne sanno nulla…
L’articolo, impreciso e lacunoso al di là del lodevole intento, non tiene conto del fatto che da tempo immemore, ed in particolare a partire dal 1870, di foreste vergini in Italia non ce ne sono più. Oggi nel nostro Paese le foreste coprono un terzo del territorio, ed è vero che continuano ad avanzare perché in ragione dell’abbandono del territorio – in particolare di quello montano – il bosco si è ripreso il posto a suo tempo adattato a pascoli e coltivazioni e la manutenzione è sempre più scarsa.
La superficie boscata che nel nostro Paese copre oggi quasi 11 milioni di ettari, negli anni Trenta era stimata in circa 4 milioni. Ma ciò era parzialmente dovuto all’utilizzo intensivo delle foreste e, nell’arco alpino, alle devastazioni ambientali della I Guerra Mondiale. Al terine del secondo conflitto moindiale ci si è ritrovati in una situazione ancora peggiore, poiché le devastazioni avvennero quasi sull’intero territorio nazionale, ed in particolare sulla dorsale appenninica.CC 2016.05.01 Espabosco 002“E non bisogna dimenticare che sino all’inizio degli anni Sessanta, il 50 per cento delle cucine italiane era ancora alimentato a legna. Il gas ha raggiunto la totalità delle abitazioni solo nei primi anni 70” afferma nell’intervista l’ineffabile prof sopravvissuto al nostro intento di pulizia etnica. Che il legno sia stato per millenni materia prima fondamentale per cucinare e per riscaldare ambienti nessuno lo nega, ma l’affermazione è imprecisa e fa slittare di un decennio lo stato dell’arte. Ma, non pago, l’esperto aggiunge: “Ecco perché allora era quasi impossibile trovare un ramo secco in un bosco. Perché le foreste venivano coltivate, gestite e controllate. Tanto che Victor Hugo e i grandi viaggiatori dell‘800 paragonavano i nostri boschi a dei giardini” dimentico delle leggi sul legnatico che, solo per citare la Serenissima Repubblica, prevedevano la condanna capitale per chi fosse stato sorpreso a far legna al di fuori dei periodi in cui ciò era concesso tramite appositi decreti dogali.
Fortunatamente, a parte le affermazioni sussiegose degli esperti da cattedra e il fatto che spesso la politica di rimboschimento attuata nel secondo dopoguerra non abbia tenuto conto né delle biodiversità locali né delle specie autoctone, il prelievo di legname – soprattutto in montagna – è soggetto al vincolo idrogeologico.
L’articolo ha suscitato polemiche da parte di chi sostiene che la biodiversità sia direttamente proporzionale all’entità dell’abbandono della gestione dei boschi e da parte degli ecosistemisti da tastiera, quelli che vorrebbero che i boschi venissero lasciati alla natura, anzi, nel più malinteso dei sensi a Madre Terra, perché in montagna e nei boschi non serve pontificare: serve darsi da fare. E quindi a pulire boschi, sentieri e montagne si guardano bene dall’andarci preferendo ragliare alla luna.
L’abbandono gestionale è tra le prime cause del problema, e lo sa bene chi possedendo aziende agricole in montagna ha eliminato tutto ciò che è parassitario, con la conseguenza che le piante si sono rinvigorite, la produzione è migliorata qualitativamente, vacche, capre e le pecore mangiano un’ottima erba. Ma per fare questo non servono i cerchi di condivisione serve spaccarsi la schiena.
Gli attuali boschi italiani, infine, non sono foreste vergini ma il frutto della coltivazione attuata da secoli, prova ne sia la Regola Camaldolese.
Informarsi per davvero e in modo scientifico sarebbe molto utile a tutti coloro che in nome della natura sostengono la politica della non gestione: l’uomo e le sue necessità sono parte dell’ecosistema foresta esattamente come le altre specie, ed è realistico puntare ad un punto di equilibrio tra le diverse funzioni.
Sarò banale, ma continuo a preferire chi con le mani sporche ti ascolta, se ha sentito che meriti di essere ascoltato, mentre spollona o inforcona il fieno piuttosto che quelli che discettano e pontificano dall’alto del loro trono di esperti.

Alberto C. Steiner