Acqua pubblica: alla piccola Marta hanno tolto il diritto di sognare

“Toglieranno l’acqua da sotto la pancia delle anatre? Metteranno il cartellino con il prezzo a ogni goccia di pioggia? E quanto costerà la rugiada?” Queste ed altre domande se le poneva Marta, la bimba protagonista di Marta e l’acqua scomparsa, la favola bella, intelligente ed ecologica scritta da Emanuela Bussolati, della quale scrissi in uno degli articoli che considero più belli e toccanti: Quanto costerà guardare l’arcobaleno? pubblicato nel giugno 2013 sulla home page di Kryptos Life&Water e richiamato in queste pagine il 6 ottobre 2014.CC - 2015.12.23 Acqua pubblica 001Anche se da tempo non ne parlo, non ho mai abbandonato studi e progetti tendenti a favorire un uso consapevole dell’Oro Blu.
Torno oggi sull’argomento per il desiderio di fare una sorta di punto della situazione, per verificare dove siamo, come ci siamo arrivati, cosa accadrà nell’immediato futuro e quali saranno le ricadute economiche e sociali nel lungo termine. Nell’ultimo biennio il governo ha varato numerosi provvedimenti tendenti a perseguire l’evidente finalità di rilanciare la cessione al mercato dei servizi pubblici locali e dei beni comuni: decreto Sblocca Italia, legge di stabilità, riforma della pubblica amministrazione, spinta impressa a livello internazionale a favore dei trattati T-tip e Tisa.
Il decreto Sblocca Italia evidenzia un piano complessivo di aggressione ai beni comuni tramite il rilancio di grandi opere, misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico, nuove regolamentazioni concernenti l’incenerimento dei rifiuti, ammissione delle perforazioni per la ricerca di idrocarburi, costruzione di gasdotti, semplificazione e deregolamentazione della procedura delle bonifiche.
Nell’ambito edilizio, quello che mi interessa più da vicino, lo stesso programma che verrà discusso a gennaio in materia di consumo del suolo è già superato nei fatti da numerose norme regionali – Lombardia e Piemonte costituiscono in questo senso un chiaro esempio – che ammettono nei fatti il disboscamento selvaggio, ampliando le superfici fruibili riducono le distanze e statuendo un’autocertificazione farsa.
Limitando l’analisi all’acqua, si impone una precisazione: cresce lo stress idrico e oltre due miliardi di persone non hanno acqua, poiché questo bene primario che dovrebbe essere considerato pubblico e agevolmente disponibile, lo è invece sempre più in funzione delle capacità economiche e tecnologiche. Mi astengo da commenti e giudizi politici o di merito, mi limito a segnalare che alla Borsa di Chicago sono quotate società finanziarie che speculano, letteralmente, sulla sete. E non sono io a dirlo: girovagate nel Web e troverete innumerevoli riferimenti, oltre a proposte di investimento nei paesi del Sud del mondo.Cesec-CondiVivere 2014.09.30 Marta e l'acqua scomparsa 003Bene, anzi male. Ciò premesso tutte le norme e le direttive presenti e future sono destinate a creare un meccanismo per cui, attraverso processi di aggregazione e fusione, i quattro colossi multiutilities attuali collocati in Borsa: la milanese A2A, le emiliane Iren e Hera, la romana Acea potranno inglobare tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici, divenendo i campioni nazionali in grado di competere sul mercato globale. In pratica regrediremmo ai primi del Novecento, quando a gestire acqua, elettricità e servizi pubblici erano pochi monopoli privati.Cesec-Condivivere 2014.10.20 Squali della finanza sostenibileIntendiamoci: rimango un sostenitore del modello più impresa e meno stato, e non certamente dei carrozzoni pubblici o, peggio, pseudo cooperativistici marcatamente ispirati al modello paternalistico tanto caro a preti ed ex-comunisti. Ma il mio è un concetto di impresa etica, un concetto che prevede la responsabilità morale dell’imprenditore.
Lasciamo stare le utopie, e torniamo a considerare come sia evidente che il governo intenda indicare la direzione della privatizzazione dei servizi pubblici, attraverso esplicite dismissioni di quote detenute dalle amministrazioni locali comuni e favorendo economicamente soggetti privati e processi di aggregazione. Detto in altri termini: costruendo il palinsesto di un ricatto nei confronti degli enti locali che, una volta strangolati dai tagli, verrebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario e relegati ad un esclusivo ruolo di controllo: esterno, formale, inutile.
Se qualcuno pensa che io esageri, basta guardare i numeri per avere la certezza del colpo mortale inferto all’esito referendario del giugno 2011, nel totale disprezzo per la volontà dei cittadini e – va detto – nella totale indifferenza dei cittadini zombies. Della serie: ciascuno raccoglie quel che semina.
Sto parlando dell’aprile scorso, quando passò sotto silenzio la mirabile sintonia fra Hera, Acea, governo  e orientamenti della grande maggioranza delle amministrazioni locali incentrate sul Pd, in primis quelle emiliane del triangolo rosso, nell’intento di procedere entro la fine di quel mese, con il piè veloce che sembra essere la cifra di questa stagione controriformatrice, a far scendere la quota di proprietà pubblica dal 57 per cento al 38, arrivando così per la prima volta sotto la maggioranza assoluta, da sempre propagandata come elemento di garanzia per il controllo pubblico delle aziende.
Queste manovre creano un muro destinato a dividere la società: da una parte le grandi aziende, i mercati finanziari e gli istituti bancari, dall’altra i cittadini non più degni di tale appellativo ma tornati ad essere servi della gleba. E non trascuriamo di osservare come, all’interno di questa divisione, sia evidente come le istituzioni nazionali ed europee si prodighino diligentemente nell’applicare politiche di austerità che si traducono in tagli al welfare e ai diritti, ed in cessione di porzioni di sovranità al mercato.
In questi anni i vari movimenti per l’acqua hanno combattuto quotidianamente per affermare il diritto all’acqua pubblica, ponendo la massima attenzione al ciclo integrato di questo bene e costruendo il referendum attraverso il quale la cittadinanza si è espressa contro la privatizzazione e per una gestione pubblica dell’acqua e dei servizi pubblici locali. Da noi non se ne parla, presi dall’interesse per qualche bifolco miliardario in mutande che tira calci ad un pallone o dal perché Belen e Stefano si siano lasciati, ma anche negli altri paesi europei vi sono persone che continuano ostinatamente ad affermare quei principi, costruendo nuovi legami e relazioni sui territori, costruendo una conoscenza diffusa, studiando e progettando modelli alternativi, ponendo le basi per un modello sociale che superi la dicotomia tra pubblico e privato.
Sulla base di queste considerazioni è stato organizzato l’evento nel quale il 7 e 8 novembre scorsi si è argomentato, non per slogan ma scientificamente e come momento di confronto e riflessione di “Diritto all’acqua, diritto al futuro – Agorà dell’acqua e dei beni comuni”. Ne avete sentito parlare? No, vero? Ne ero sicuro.CC - 2015.12.23 Acqua pubblica 002Ma è ovvio: alla stampa serva non serviva riferire che qualche suonato ha affermato a livello europeo la necessità della fuoriuscita dalla finanziarizzazione dell’economia e della società, ad intendere un sistema naturale in maniera olistica, che va tutelato specialmente di fronte ad una crisi ambientale senza precedenti come quella attuale. E a che serve la serva se non serve? recita una famosissima battuta di Totò.
Insomma, tanto per cambiare concludo con una delle affermazioni che mi sono tanto care: il medioevo prossimo venturo è già iniziato. Però questa volta parlo del medioevo delle coscienze.
Pipipì-pì-pì-pò-sgnòff-tirititì-ping-ping-ping-sbrang …. no scusate è un’interferenza: è il fanciullo che è in me, ha sette anni e sta pistolando in metrò sull’i-phone sotto lo sguardo amorevole di mammà, tronfia di guardare fingendo di nulla se qualcuno osserva invidioso il fiammante ritrovato tecnologico in mano al creaturo. Così è, se vi pare.

Alberto C. Steiner

Guardate queste foto: potrebbero essere le ultime

Le cascate valtellinesi dell´Acquafraggia potrebbero scomparire: la finanza dai denti a sciabola, travisata con la mascherina dell’ecosostenibilità, le ha puntate funzionalmente alla realizzazione dell’ennesimo bacino imbrifero valtellinese destinato alla produzione di energia idroelettrica.CC 2015.12.17 Acquafraggia 001La comunità potrà tornare a beneficiare delle acque reflue, opportunamente depurate, però dietro pagamento di un canone in barba al referendum del 2011 attraverso il quale gli italiani hanno scelto che l’acqua, considerata bene primario irrinunciabile, non possa essere oggetto di acquisizioni e speculazioni.
Sono state naturalmente fornite ampie rassicurazioni che il canone sarà calmierato, che il suo ammontare coprirà solo i costi dell’ordinaria gestione e che nessuno guadagnerà o, peggio, speculerà sull’acqua. Come no.
Non dimentichiamo che la Valtellina gode di una legge speciale di salvaguardia, pensata proprio per le sue acque funzionalmente all’utilizzo per finalità produttive. Verrà puntualmente disattesa, ne siamo certi.CC 2015.12.17 Acquafraggia 002Le cascate si trovano a Borgonuovo, e le parti visibili dalla strada sono solamente le più suggestive, ma certamente non le uniche.
Il bacino dell´Acqua Fraggia costituisce un patrimonio ambientale, energetico e scenografico senza eguali: è situato all´imbocco ovest della Val Bregaglia, solcata dal torrente omonimo che nasce dal Pizzo di Lago a quota 3.050 in un punto di spartiacque alpino fondamentale per l’ecosistema europeo poiché vi sgorgano e discendono fiumi che sfociano nel mare del Nord, nel mar Nero e nel Mediterraneo. Nel suo percorso verso il fondovalle il fiume percorre due valli sospese di origine glaciale, la prima situata a quota duemila e l´altra sui mille metri di altitudine. Ed ecco l´Acqua Fraggia, che forma una serie di cascate, di cui quelle più in basso con il loro doppio salto sono solo le più suggestive. Deriva da qui il toponimo di Acqua Fraggia, da acqua fracta, vale a dire torrente continuamente interrotto da cascate.CC 2015.12.17 Acquafraggia 003Le cascate, con il loro maestoso spettacolo, impressionarono pure Leonardo da Vinci che trovandosi a passare per Valle di “Ciavenna” ne ammirò la bellezza selvaggia e così le menzionò nel suo Codice Atlantico: “Su per detto fiume si truova chadute di acqua di 400 braccia le quale fanno belvedere…”
Dalla sommità delle cascate si può percorrere un sentiero attrezzato tra castagni, ginestre e rocce, dal quale è possibile ammirare da vicino questo stupendo spettacolo naturale, unico nel suo genere per bellezza e imponenza. Una breve deviazione sulla destra porta ad un ampio terrazzo, a pochi metri dal fragoroso turbinio delle acque.
Ma questo alle varie Edison, A2A, Électricité de France, Intesa San Paolo, Unicredit, Crédit Immobilier de France, Cariparma Crédit Agricole non interessa un accidente.

Alberto C. Steiner

L’Expo che verrà: ci sarà da mangiare…

Però riguardo alla luce tutto l’anno nulla sappiamo… Inaugurazione dell’Expo di Milano prevista per il primo maggio prossimo: 130 paesi partecipanti e centinaia di aziende si daranno appuntamento per riflettere e pianificare il futuro dell’alimentazione, con l’obiettivo di nutrire il pianeta, focalizzandosi sull’asse principale del diritto ad un’alimentazione sana, sicura e sufficiente per tutti gli abitanti della Terra.Cesec-CondiVivere 2015.03.26 Expo 002Così dicono gli slogan, ma sarà la verità? Sui media leggeremo resoconti, ma difficilmente affidabili visto che molti di questi saranno profumantamente pagati dagli stessi organizzatori di Expo. Il nostro parere, per usare un garbato eufemismo, è che i presagi non sono buoni.
Anzitutto sarà l’Expo delle multinazionali. E non potrebbe essere diversamente. Basta scorrere l’elenco dei partecipanti per capire come dietro allo slogan nutrire il pianeta si celi lo stesso clan che da decenni il pianeta lo affama o lo (mal)nutre di cibo di dubbia qualità e di sicura insostenibilità ambientale. Pensiamo solo al fatto che anche McDonald’s sarà presente a Expo come espositore e come sponsor, ed alle altre grandi firme già in prima fila: Barilla, tramite la propria fondazione Barilla Center for Food & Nutrition, si occuperà addirittura di coordinare i lavori per la stesura del protocollo mondiale sul cibo, insieme di linee guida per la produzione sostenibile di cibo per il pianeta. Come chiedere all’oste se il vino è buono…
Ma Expo ha siglato anche una partnership con Nestlè che, attraverso la controllata San Pellegrino, diffonderà 150 milioni di bottiglie di acqua con la sigla Expo in tutto il mondo; l’impronta ecologica di ogni litro di acqua in bottiglia è da 200 a 300 volte più impattante di quella del rubinetto, non ci pare quindi una grande idea sponsorizzare un’ulteriore crescita dei consumi di plastica.
Nestlè inoltre, per chi non lo sapesse, promuove da qualche anno l’istituzione di una Borsa per l’acqua, strutturata esattamente come quella del petrolio. In pratica, come andiamo da tempo sostenendo, la borsa della sete, suscettibile addirittura di innescare conflitti armati per l’appropriazione di questo bene irrinunciabile. In parte già avviene a Chicago.Cesec-CondiVivere 2015.03.26 Expo 001E veniamo agli sponsor. Poiché Expo significa visibilità numerose multinazionali hanno donato grandi quantità di denaro all’organizzazione. Tra queste Ferrero con 3,8 milioni di euro, Coca-Cola con 6 mlioni e un contributo del 12% per ogni lattina venduta nel suo padiglione, Nestlè-San Pellegrino 5 milioni di euro, Illy 4,7 milioni e persino Martini con 1,2 milioni, in quanto è noto che gli aperitivi costituiscono un ottimo metodo per smorzare i morsi della fame, soprattutto nel terzo mondo. Non poteva mancare l’ineffabile Coop, che ha speso più di tutti: 12,4 milioni di euro per aggiudicarsi la qualifica di Official Food Distribution Premium Partner. Mica pizza e fichi, la qualifica consente di allestire all’interno dell’ambito fieristico uno spazio espositivo denominato Il supermercato del futuro.
Quanto alla comunicazione si sa, giornali e televisioni puttane sono, puttane restano e da puttane si comporteranno. Ce n’è per tutti: 5 milioni di euro per mamma Rai, 2 a Feltrinelli, 850mila euro a Mondadori, mezzo milione a Corriere della Sera e Repubblica, poco meno per Ansa, e poi a scendere Mediaset, Tm News, Il Sole 24 Ore, Il Foglio, Il Giorno. Seguono altri in ordine sparso, e non siamo al Giro d’itaGlia, senza dimenticare che 55 milioni sono già stati asssegnati a vari media nazionali in una operazione che puzza palesemente di investimento mirato a comprare un miglioramento nell’immagine di Expo dopo i tanti scandali. Giusto per dovere di cronaca: non è stata indetta nessuna gara d’appalto.
E con questo il rigore giornalistico nel denunciare eventuali nuovi scandali nell’organizzazione è garantito. Possiamo stare sereni.Cesec-CondiVivere 2015.03.26 Expo 003La grancassa mediatica ha sempre parlato, addirittura, di 100mila posti di lavoro. Si, come il milione di quelli berluscoidali… addirittura 102mila secondo una ricerca dell’Università Bocconi. A quanto pare gli unici ad aver trovato da lavorare durante l’Expo sono coloro che hanno accettato di farlo gratis: un esercito di oltre 16mila volontari, rimborsati con un buono pasto al giorno. E qui, ci dispiace dirlo, ma chi vuol esser schiavo sia…
Gli assunti regolari da parte dell’organizzazione sono solamente 793, con contratti a termine per la durata della fiera e con salari tra i 400 e i 500 euro mensili.
Però qualche vantaggio l’Expo lo ha comunque portato, alle imprese che hanno cementificato selvaggiamente, infierendo l’ennesimo colpo al già devastato territorio lombardo: 1.700.000 metri quadri di superficie per gli stand, 2.100.000 per strutture di servizio e supporto sull’area ex Alfa Romeo di Arese, opere ricettive per un fabbisogno stimato di 124.000 posti letto al giorno, realizzazione della terza pista a Malpensa e collegamento diretto Malpensa-Fiera, parcheggi presso il sito Expo e in corrispondenza di nuovi centri di interscambio, nuove tangenziali per Milano, Pedemontana e BreBeMi per complessivi 11 miliardi di investimenti per progetti già completati o in corso di realizzazione. Un’immane opera di smantellamento del patrimonio agricolo lombardo, destinata a segnare per secoli quella che un tempo era una delle pianure più verdi d’Italia.
Però ci saranno il laghetto circondato da prati e un nuovo naviglio che farà assomigliare tutto alla Venezia di Las Vegas. Non è vero: a tutt’oggi pare che il lago non vedrà mai la luce, mentre per quanto riguarda i nuovi navigli si stanno ancora cercando i soldi.
Se, inoltre, a un soggetto come Vittorio Sgarbi sono stati versati quasi due milioni per imprecisati progetti culturali, alla bolognese Best Union, strettamente collegata a Comunione e Liberazione è stata attribuita la vendita in esclusiva dei biglietti on-line. Ovvio, senza gara… ma che domande fate?
Per quanto riguarda il magistrato Raffaele Cantone, nominato come commissario straordinario anticorruzione quando i buoi erano già scappati, ha certificato anche grazie alla collaborazione della DNA, l’antimafia, come ben 46 aziende collegate alla malavita, 32 delle quali affiliate alla vera padrona di Milano, la ‘ndrangheta, siano riuscite ad aggiudicarsi appalti per oltre 100 milioni di euro.Cesec-CondiVivere 2015.03.26 Expo 004E se è vero che i posti di lavoro direttamente creati dall’Expo saranno solo una manciata e mal retribuiti pare però che migliaia ne arriveranno dall’indotto, tra bar, hotel, cooperative di costruzione, eccetera e sino alle immancabili slot. Sarà… fatto sta che per ora l’unico settore che incrementerà i propri guadagni sarà quello della prostituzione. Secondo un’inchiesta del Corsera saranno addirittura 15mila le professioniste del sesso a pagamento che sbarcheranno a Milano per allietare le pause dei milioni di turisti previsti per l’evento. E anche in questo caso, ovviam,ente, ci sarà lo zampino della malavita.
Bene, questo è quanto. Sono alcuni anni che ne parliamo, per la precisione da quando Milano presentò la propria candidatura. Siamo stati trattati da cinici e retrogradi profeti di sventura, esattamente come il mondo della politica e degli affari ha trattato i vari comitati territoriali che si sono opposti all’Expo.
E parliamoci chiaro: associazioni, comitati di quartiere, centri sociali, intellettuali (quelli non mancano mai) non servono più a niente. Dovevano svegliarsi prima, rischiando e battendosi come hanno fatto i Valsusini contro la TAV, non secondo la protesta alla milanese: a chiacchiere e spritz da Radetzky o al Rosmarino.

Alberto C. Steiner

Acqua, fonte non inesauribile

Lunedì 16 marzo 2015 alle ore 20.30 presso l’aula magna dell’Università della Montagna, a Edolo, si terrà il seminario Energia idroelettrica e montagna: quale futuro ci aspetta?, parte del un ciclo di incontri Conoscere il Bidecalogo CAI organizzati  in collaborazione con la Commissione TAM delle Sezioni CAI Valcamonica e Sebino. Primo relatore Alessio Cislaghi dell’Università degli Studi di Milano.Cesec-CondiVivere 2015.03.12 AcquaL’acqua, risorsa preziosa e insostituibile, è da sempre la fonte rinnovabile di energia per eccellenza per l’economia montana: dai grandi impianti e sino alle mini installazioni, l’energia idroelettrica ha saputo rinnovarsi completamente nel corso del tempo dovendo far fronte sia all’aumento dei consumi che alla prepotente ascesa di altre fonti rinnovabili come solare, eolico e termico.
Tuttavia, diversi sono gli impatti ambientali sul territorio. Per questa ragione il seminario presenterà brevemente il passato, il presente e il futuro di questa tipologia di energia rinnovabile discutendo di economia energetica e sostenibilità ambientale.
In margine all’incontro l’ing. Alberto C. Steiner di Cesec-CondiVivere presenterà ed illustrerà una breve memoria dedicata all’utilizzo dell’acqua piovana e di caduta come fonte gratuita di raffrescamento domestico in ambiti territoriali dove le condizioni igrometriche lo consentono e, una volta esaurito il ciclo, per l’irrigazione di orti e giardini.
L’incontro è aperto a tutti. La partecipazione è libera e gratuita.

ACS

Non siamo Cassandre, siamo per la Finanza CreAttiva

Un uomo entra in banca e chiede in prestito 200 dollari per sei mesi. Il funzionario gli chiede quali garanzie può dare. L’uomo risponde: “Ho una Rolls Royce, ecco le chiavi. Tenetela finché non restituirò il prestito.”
Sei mesi dopo l’uomo torna in banca, rifonde i 200 dollari avuti in prestito più 10 dollari d’interesse e si riprende la sua Rolls. Il funzionario, incuriosito, gli domanda: “Signore, posso chiederle come mai una persona che possiede una Rolls Royce ha bisogno di chiedere in prestito 200 dollari?”
L’uomo risponde: “Dovevo andare sei mesi in Europa. Secondo lei, dove la parcheggiavo una Rolls per 10 dollari?” – da: Platone e l’ornitorinco di Thomas Cathcart e Daniel Klein, Rizzoli 2007
Finanza CreAttiva per sopravvivere al futuro
Abbiamo preso le mosse da questa storiella surreale
per parlare di povertà, flussi migratori, fame, sete e possibili iniziative finalizzate a salvarci dal futuro che ci aspetta. Il 10 ottobre presso il Teatro Dal Verme di Milano, in occasione della rassegna Meet The Media Guru, il sociologo e filosofo novantunenne Zygmunt Bauman ha affermato: “Lampedusa? Niente fermerà i migranti, persone superflue che cercano di rifarsi una vita. Qualsiasi cosa tenti di fare l’Europa, gli arrivi dall’Africa non finiranno, niente riuscirà a fermare chi è in cerca di pane e acqua potabile: né governi né tragedie del mare perché le migrazioni sono inseparabili dalla modernità. Infatti una caratteristica della modernità è la produzione di persone superflue: individui tagliati fuori dal processo produttivo che perdono la propria fonte di sussistenza. Il progresso economico consiste nel produrre la stessa quantità di cose che producevamo ieri con una minore quantità di lavoro ed a un costo più basso. Chi rimane tagliato fuori diventa una persona superflua. E non gli resta che andarsene, cercando un altrove dove ricostruirsi una vita.
Il sociologo ha aggiunto: “la popolazione dell’Unione Europea diminuirà da 400 milioni di persone a 240 nei prossimi cinquant’anni: un numero troppo basso per mantenere i nostri standard di vita, il nostro benessere. In base ad alcuni calcoli nei prossimi 20 o 30 anni sarà necessario accogliere in Europa circa 30 milioni di migranti.
Un fenomeno, sempre secondo Bauman, che gli stati nazionali, inadeguati di fronte alle sfide della contemporaneità, hanno pochi strumenti per arginare o regolare. Oltretutto i popoli non credono più che partiti e parlamenti nazionali siano ancora in grado di assolvere le funzioni per cui sono nati, non solo perché in alcuni casi i politici sono corrotti o incapaci, ma perché per queste istituzioni sarebbe strutturalmente impossibile realizzare quello che promettono agli elettori.
Per spiegarsi meglio Bauman cita Antonio Gramsci: “Viviamo in un interregno, un’epoca in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere: le regole e le leggi del passato sono scomparse, ma le nuove leggi non sono ancora state inventate. La sovranità degli stati nazionali è ormai in buona misura una finzione. Il potere è la capacità di fare, la politica è decidere che cosa fare. La globalizzazione ha fatto evaporare il potere degli stati nazionali verso poteri sovranazionali liberi dal controllo della politica. Se un governo provasse a realizzare ciò che davvero vogliono i suoi elettori, invece di ciò che esige la finanza, i mercati lo punirebbero con durezza“.
Sempre secondo Bauman “le economie europee hanno bisogno d’immigrati, perché senza di loro non potrebbero vivere. Se nel Regno Unito gli irregolari venissero identificati e deportati, la maggior parte degli ospedali e degli alberghi collasserebbe; credo si possa dire lo stesso per l’economia italiana.
Non è nostro intento confutare qui tali affermazioni, né lanciarci ad analizzare danni e benefici che l’immigrazione, controllata o meno, produce al tessuto sociale, all’economia, alle radici culturali.
Ci interessa semplicemente considerare un aspetto globale: le risorse alimentari e idriche non bastano per tutti, già oggi quasi un miliardo di persone muore, letteralmente, di fame mentre gli sprechi potrebbero saziare tre miliardi di persone. E almeno due miliardi di esseri umani soffrono la sete o hanno difficoltà a disporre delle risorse idriche.
Relativamente al cibo …

… pensiamo solo a frutti e ortaggi che, non rispettando le misure standard, vengono buttati via poiché agricoltura meccanizzata e vendita di massa richiedono uniformità.
Secondo Slow Food solo in Italia, dalla filiera e non dalla mancata vendita, vengono sprecate 4.400 tonnellate giornaliere di cibo, con le quali si potrebbero sfamare tre milioni di persone.
cesec,condivivere,vandanashiva,cohousing,ogm,biodiversità,ecosostenibilità,orobluVandana Shiva, vicepresidente di Slow Food e presidente del movimento ambientalista Navdanya ha recentemente dichiarato: “Il 50 per cento del cibo prodotto negli Stati Uniti viene gettato o non utilizzato” aggiungendo “Invece di un grande business legato alle monoculture, abbiamo bisogno di fattorie che preservino la biodiversità. Monoculture come la soia non risolvono i problemi legati al cibo, ma li creano. Si tratta di un circolo vizioso” ha concluso “perché il circuito della produzione industriale ha bisogno dello spreco per creare surplus“.
Le multinazionali delle sementi, oltre a guardarsi bene dal favorire la biodiversità e la tutela di un’agricoltura locale non invasiva, rispettosa delle specie e del territorio, sono quelle che già oggi ed ancor più nel prossimo futuro avranno letteralmente in mano le chiavi della dispensa: il massiccio ricorso agli OGM, organismi geneticamente modificati, che rendono definitivamente sterili molte specie ed improduttivo il suolo, crea un’ineluttabile dipendenza negli approvigionamenti consentendo a queste aziende di decidere chi mangerà e chi no. Ci sembra doveroso rammentare quanto allarme abbia suscitato la proposta di una legge europea, denominata Plant reproductive material law, il cui scopo è quello di creare un mercato regolamentato degli ortaggi e delle verdure a livello comunitario, ufficialmente per garantire la qualità dei prodotti e la salute dei consumatori. Partendo dalla premessa che ogni vegetale, frutto, albero debba essere testato e registrato prima di essere riprodotto e distribuito a fini commerciali si stava delineando uno scenario orwelliano che faceva addirittura paventare la proibizione di coltivare un orto per uso personale. Non potendo provare che il fine della norma fosse quello di svendere ogni zolla coltivabile alle multinazionali dell’agricoltura ci asteniamo dal commentare, non senza però registrare lo stato di notevole allarme suscitato nei mesi scorsi.
Fortunatamente, non sappiamo se e quanto in seguito all’imponente movimento di opinione creatosi, il testo della legge specifica chiaramente che il provvedimento non è applicabile a chi produce ortaggi o verdure per uso personale, nonché ad organizzazioni di volontariato, piccoli produttori con meno di 10 addetti, banche del seme ed istituti scientifici, organizzazioni rivolte alla conservazione delle risorse genetiche nonché al materiale riproduttivo scambiato tra persone che non siano operatori professionali. Si starebbe anche  lavorando a deroghe per  produttori di sementi destinati a coltivazioni biologiche, prodotti con valenza specifica locale e produzioni di nicchia. Una rondine non fa primavera, si dice, ma in questo caso il proverbio ci sembra debba essere letto al contrario. Chi vivrà – nel senso che non sarà morto di fame nel frattempo – vedrà…
In ogni caso giova ricordare che le varietà da conservazione sono entrate nel panorama legislativo sementiero già nel 1998 con la direttiva 98/95/CE. Successivamente sono state emanate altre tre direttive: la 2008/62/CE relativa a piante agricole e patate, la 2009/145/CE  sulle specie ortive e la 2010/60/CE dedicata alle miscele di sementi di piante foraggere destinate a essere utilizzate per la preservazione dell’ambiente naturale.
Due di queste direttive sono state recepite in Italia con i decreti legislativi 149 del 29 ottobre 2009 (piante agricole e patate) 267 del 30 dicembre 2010 (specie ortive). Entrambi i decreti sono tuttora vigenti.

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E veniamo alle risorse idriche …
… Il 17 giugno scorso rilanciammo un trafiletto pubblicato sabato 15 giugno su IO Donna, supplemento settimanale de il Corriere della Sera, che sintetizzava significativamente attraverso i numeri una considerazione di fondo: l’acqua, bene primario che dovrebbe essere considerata pubblica e agevolmente disponibile, lo è invece sempre più in funzione delle capacità economiche e tecnologiche. Di seguito il testo:

La terra trema – NUOVA MAPPA: UN TERZO DEL MONDO E’ ASSETATO
Migliora la situazione in Cina e in India. Ma si degrada nell’Africa subsahariana e in Ucraina. Il rapporto 2013 dell’Oms aggiorna la mappa dello “stress idrico”. Ed eleva la cifra ufficiale di chi nel mondo non ha accesso all’acqua potabile a 2,4 miliardi. Aumenta il numero di impianti che veicolano acqua buona nelle case, ma anche la popolazione cresce. E paradossalmente, ci sono meno rubinetti oggi che nel XX Secolo. Tra le aree critiche: il Nilo (l’Egitto la fa da padrone, rispetto a Sudan, Eritrea, Etiopia e Kenya), il Mekong (il Vietnam preleva per abitante più di Thailandia, Birmania, Laos) e Israele, gestore unico delle risorse idriche anche nei territori occupati. (P.P.)

Esiste una terra di nessuno …
cesec,condivivere,oroblu,sete,ecosostenibilità,cohousing,finanza… chiamata finanza creativa della quale i mezzi di informazione parlano poco, e solo superficialmente o in toni scandalistici quando accade qualche disastro: terra dei derivati e dell’utilizzo spregiudicato e pericolosissimo che se ne fa nei chiaroscuri dell’alta finanza. Un modo per fare soldi a palate scommettendo sulle nostre paure più ancestrali. Nulla è più catastrofico che scommettere sulle riserve mondiali di cibo ed acqua. Infatti l’Acqua è da tempo nel mirino della speculazione: banche d’affari, fondi di investimento, multinazionali ed altri attori economici mondiali, compresi FMI e Banca Mondiale, sono già pronti a mettere la mani su questa fonte primaria per la vita umana.
Friedrick Kaufman, professore presso la City University di New York, in un articolo apparso sulla testata britannica Nature e ripreso il 21 dicembre 2012 da Internazionale sostiene che la prossima grande risorsa mondiale non sarà costituita da oro, grano o petrolio bensì da acqua. L’acqua potabile, poiché entro un ventennio almeno tre miliardi di persone avranno problemi a reperire quella necessaria per vivere.
Questo scenario, scandito dall’ossessione per la penuria idrica mentre estati interminabili e caldissime si ripetono con cadenza allarmante rappresenta il massimo che uno speculatore possa desiderare. Gli investitori adorano le situazioni apocalittiche: violenza e caos nascondono sempre possibilità di guadagno e creare denaro speculando sulla mancanza d’acqua in un’area geografica o in un settore, non è una previsione fantascientifica bensì una realtà molto vicina.
E per la finanza creativa, che produce molto di più del Pil mondiale ed è passata dai 500 miliardi di dollari del 1980 agli oltre 60 trilioni di dollari di oggi – cifra che molti hanno sentito pronunciare solo da Zio Paperone – la paura è sempre un ottimo affare. Oggi i grandi profitti, generati da strumenti finanziari totalmente separati dalla realtà, non nascono più dalla compravendita di case, grano, materie prime, auto ma dalla manipolazione di concetti eterei come rischio e collateralizzazione del debito. Ed a quanto pare investire in un indice del mercato dell’acqua sta diventando un’idea sempre più appetibile.

Torniamo per un istante a Zygmund Bauman …
… poiché riteniamo interessante riportare quanto da egli scritto in Modus Vivendi (Laterza, 2008) a proposito delle nostre prospettive di vita:
Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile, come sono instabili i nostri posti di lavoro e le società che li offrono, i nostri partner e le nostre reti di amicizie, la posizione di cui godiamo nella società in generale e l’autostima e la fiducia in noi stessi che ne conseguono. Il progresso, un tempo la manifestazione più estrema dell’ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all’altra estremità dell’asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso progresso sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua. Il progresso è diventato una sorta di gioco delle sedie senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il progresso evoca un’insonnia piena di incubi di essere lasciati indietro, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta.
Per parte nostra aggiungiamo che se si producono risorse impiegando un sempre minore numero di addetti che, di fatto estromessi dal processo produttivo e dalle attività collaterali, non dispongono più delle risorse per acquistare non solo i beni voluttuari, ma anche quelli necessari alla sopravvivenza, si crea una popolazione di affamati.
Ma se la gente non ha soldi per mangiare chi compra i beni prodotti? La risposta c’è: come da più parti si afferma è in atto un mercato della sostituzione: i vecchi acquirenti nordamericani ed europei lasciano il posto a cinesi, indiani, brasiliani, centroafricani di quei paesi dove il trend di sviluppo è attualmente in corsa.
I migranti, i disperati, provengono da paesi con conflitti in atto e da paesi con una miseria endemica. In non pochi casi, però, questi paesi sono ricchi di risorse naturali, i cui proventi rimangono strettamente saldi nelle mani di oligarchi, di veri e propri satrapi e non vengono affatto utilizzati per il benessere di quelle popolazioni. Gli stessi satrapi sono altresì i gestori delle derrate umanitarie che, non infrequentemente, costituiscono la principale risorsa alimentare di quelle genti. Nei paesi dei quali stiamo parlando, giova rammentarlo, si estraggono spesso petrolio e minerali preziosi, si esportano varietà alimentari, spezie e legni di pregio.
Queste orde di esseri umani, peraltro, non sono mai state educate a vivere di lavoro bensì di sussistenza e, come primitivi nomadi predatori, si spingono ovunque vi possa essere una fonte di sostentamento. Ma esportando il loro modello, quello dell’assistenzialismo passivo.

E veniamo al medioevo prossimo venturo …
… Non casualmente era il titolo di un libro che Roberto Vacca scrisse addirittura nel 1970 ipotizzando un’improvvisa regressione della civiltà umana, dovuta ad un blocco tecnologico e all’esplosione demografica, tali da costringere l’umanità a ritornare a forme di vita e di lotta simili a quelle medioevali.
Poco tempo fa l’Autore, in occasione di una riedizione del libro, ebbe a dichiarare che – essendo ingegnere – aveva basato su modelli matematici molte delle sue previsioni, non avveratesi soprattutto perché non si è (ancora) verificato il blocco tecnologico ipotizzato come base della crisi mondiale; per contro si è rivelato esatto il calcolo dell’incremento della popolazione della Terra, stimata in oltre sei miliardi di individui all’inizio del terzo millennio.
Curiosamente, nel 1989 uscì un libro analogo e dal titolo identico: l’Autore, uno statunitense del quale si sono perse le tracce, ipotizzò che a causa del depauperamento dissennato delle risorse non rinnovabili in tempi compatibili con l’esistenza umana – in ragione dell’utilizzo massiccio che le tecnologie ne avrebbero richiesto – nonché della deforestazione e dell’inquinamento atmosferico, idrico e del suolo, la terra non avrebbe più potuto sfamare i suoi abitanti nonostante anzi proprio in conseguenza del massiccio ricorso agli OGM, organismi geneticamente modificati, che avrebbero definitivamente reso sterili molte specie ed improduttivo il suolo.
Le risorse alimentari si sarebbero pertanto vieppiù ridotte diventando privilegio di pochi, le città si sarebbero trasformate in bolge infernali sempre più pericolose e sempre meno vivibili, e le campagne sarebbero state percorse da bande di predoni decisi a tutto pur di assalire chiunque possedesse cibo, qualunque esso fosse. Anche carne umana? non sappiamo, e speriamo di non saperlo mai.
L’umanità avrebbe dovuto fare i conti con una delle più ataviche fra le paure: la fame.
L’ignoto autore del libro scritto nel 1989 ipotizzava altresì due fenomeni che si stanno puntualmente verificando: lo scioglimento progressivo dei ghiacciai e l’innalzamento del livello degli oceani, rendendo inabitabili non solo città costiere, ma anche insediamenti lontani dal mare sino ad altitudini non trascurabili: per quanto riguarda l’Italia, secondo tale previsione non solamente città come Genova, Napoli, Palermo e Venezia cesserebbero di esistere, ma anche Firenze, Milano, Pavia, Rovigo. La sicurezza potrà essere conseguita a partire dai 600 metri di altitudine.
Gli esseri umani avranno un’unica possibilità di sopravvivenza: riunirsi in piccoli insediamenti autosufficienti sotto il profilo energetico ed alimentare, sfruttando le risorse del territorio ed acquisendo la capacità di difendersi da eventuali attacchi.
Decrescita, condivisione, co-housing, rispetto per il territorio, chilometro zero, utilizzo selettivo e responsabile delle risorse: in pratica ci stiamo arrivando mentre le difficoltà economiche ci costringono a rivedere la scala dei bisogni reali o presunti. Che la decrescita alla quale volenti o nolenti saremo costretti possa contribuire a riqualificare il nostro rapporto con la Natura e con i nostri simili?

Se fossimo tutti consapevoli …
… della limitata disponibilità delle risorse, e se tutti ci sforzassimo di portare ciascuno il proprio contributo produttivo, senza sprechi e nel rispetto dell’ambiente – e questa potrebbe essere la logica del villaggio globale in un mondo perfetto – forse potremmo anche salvarci da ciò che ci aspetta. Invece non sarà così.
Per cominciare il concetto di villaggio globale è stato a suo tempo creato partendo dall’idea di uniformare i popoli nella direzione di una monocultura appiattente e massificatrice. L’unico esito tangibile di questo è che in ogni angolo del mondo troviamo un McDonald’s ed almeno una via dello shopping con negozi tutti uguali a quelli di qualsiasi altra città. Ma nulla è stato fatto per una reale integrazione, anzi si sono vieppiù fomentati nazionalismi o divisioni in nome di fedi religiose. Mistificazioni, notizie inventate, credenze che grazie ai mezzi di comunicazione si espandono in modo virale non giovano al concetto di pace, convivenza e reciproca tolleranza.
L’oligarchia, sia essa occulta o meno non ha importanza, che detiene il potere mondiale ha inoltre interesse a focalizzare l’attenzione delle masse verso falsi obiettivi e verso una conflittualità crescente, per distoglierla da ciò che dovrebbe invece essere sotto gli occhi di tutti: la manipolazione delle coscienze finalizzata ad occultare giochi di potere economici e finanziari su scala mondiale.
Poiché la Storia, nonché la nostra modesta esperienza di Vita, ci hanno insegnato a non fidarci della capacità umana di ricompattarsi sotto un’unica bandiera di amorevolezza, collaborazione e valori condivisi, saremo pessimisti ma sicuramente realisti ritenendo che il futuro che ci aspetta, stanti queste premesse, sia semplicemente spaventoso.
Considerato che le politiche comunitarie, nazionali, locali e persino le ventate autonomiste ed indipendentiste hanno sin qui dimostrato di non perseguire l’interesse di chi dichiarano di rappresentare bensì le ambizioni di chi le guida ed interessi finanziari ed economici di parte, anche qui più o meno occulti, non resta a nostro avviso che ipotizzare due soluzioni, non disgiunte l’una dall’altra bensì fra loro indissolubilmente complementari.
Recuperare spazi di condivisione abitativa per piccoli nuclei autonomi il più possibile autosufficienti;
Acquisire il possesso delle fonti d’acqua affinché l’acqua stessa sia salvata dalla speculazione e resa disponibile a costi accettabili per la comunità locale che ne farà uso;
Questo presuppone di non assaltare i santuari della finanza in stile ecologisti arrabbiati di lusso (e ciascuno metta il nome che preferisce) ma combatterli con le loro stesse armi, in una logica di tante public-companies strutturate per l’autoconsumo ed eventualmente federate tra loro per garantire un’economia di scala, una forza contrattuale di base ed un’uniformità normativa.
Questo presuppone di non sottrarre più neppure un metro quadro di suolo a Madre Terra, bensì di recuperare borghi e villaggi dismessi (e solo in Italia sono oltre un migliaio) per farne unità condivise di vita e di lavoro.
Questo consente che, come vedremo più avanti, sia tutelata e salvaguardata l’unicità locale non solo in termini di cultura, origini e tradizioni ma anche di specie autoctone, saperi e sapori; un po’ come avvenne nel medioevo grazie alle abbazie, per intenderci.
Questo significa non farsi illusioni sul Peace&Love cui ci ha abituati una cultura promanata sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, sostanziata sia dalla chiesa cattolica sia dalle varie filosofie di matrice orientale che predicano un pacifismo di maniera più teorico che reale. Non farsi illusioni significa, in buona sostanza, che queste comunità dovranno essere in grado di difendersi da inevitabili attacchi e scorrerie di predoni.
Significa che dal concetto di villaggio globale, dal concetto di unione di stati, dal concetto di nazione passeremo a quello di Borgo in un neofeudalesimo, in una nuova età dei comuni? Non sarà proprio così, ed ora ne esplichiamo le ragioni.

Per cominciare citiamo una frase evangelica …
siate pronti, perché non conoscete né il giorno né l’ora. Quest’esortazione è più che mai attuale. Partendo dal dissesto geopolitico, sociale ed idrogeologico iniziamo citando Nietzsche per illustrare uno scenario tutt’altro che fantascientifico, collocato in un niente affatto remoto Medioevo prossimo venturo: Non vuoi oggi salire su un alto monte? L’aria è pura e puoi scorgere più mondo che mai.
Ci limitiamo ai fatti di casa nostra per affermare come sia ormai palese quanto l’Unione Europea propugni una strategia mirata a costituire una Paneuropa feudale partendo dallo sfaldamento della cultura locale di un qualunque popolo europeo o del cosiddetto sentimento nazionale anche attraverso la simbolica eurocentrica: Euro, bandiera, Erasmus, Inno alla gioia di Beethoven eletto ad inno europeo, passaporto, parlamento e Stati artificiali, Alpen-Adria, AER, CCRE in esecuzione di quel processo disintegrativo che taluni sostengono iniziato nel 1990 con lo sfaldamento dell’ex-Yugoslavia e che è tuttora visibile in Germania, Belgio, Spagna, Francia e persino Italia attraverso l’ascesa dei partiti autonomisti.

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L’unica forma di difesa possibile …
… da tutto questo non potrà, a nostro avviso e secondo una ben precisa chiave di lettura, che portare in una direzione: quel piccoli insediamenti autosufficienti di cui abbiamo scritto sopra, autosufficienti e – piaccia o meno – in grado di difendersi. Il feudalesimo probabilmente non avrà più i caratteri che abbiamo studiato sui libri di storia, magari sarà un Federalesimo o un Consorzianesimo, insomma un’alleanza fra borghi, villaggi, territori, comprensori.
Che, grazie alla profonda consapevolezza ed alla capacità di sentire con il cuore di quelli che immaginiamo saranno gli abitanti dei borghi risorti dal recupero di insediamenti abbandonati, avrà in alta considerazione la cultura dell’accoglienza del Viandante che viene in pace. Ma riprenderà nel contempo finalmente ad onorare la figura del Guerriero.
Per parte nostra ci permettiamo di raccomandare, citando Cromwell: abbiate fiducia in Dio e nel prossimo, ma tenete asciutte le polveri. Anche se, passateci la battuta, alle polveri preferiamo di gran lunga l’arco: silenzioso, fulmineo, letale, ecologico.
La formula vincente per ottenere tutto questo si chiama cohousing, che non è solo un modo di abitare ma di cambiare abito mentale: dal lavoro come produzione, che vede solo crescite esponenziali senza ragione, al lavoro come servizio dove la produzione non ha in vista solo beni e merci, di cui non sapremmo neppure cosa fare se non fosse per bisogni e desideri indotti, ma anche erogazione di tempo, cura, relazione. In una parola: Condivisione.
Il cohousing è un nuovo modo di abitare con spazi e servizi condivisi tra persone amiche che si sono scelte e che insieme hanno progettato la propria comunità residenziale. Chi vive in cohousing – e sono già più di mille gli insediamenti di questo tipo nel mondo – vive una vita più semplice, meno costosa e meno faticosa decidendo innanzitutto cosa condividere: un micronido per i bambini, un orto o una serra, un living condominiale, un servizio di car sharing o una portineria intelligente che paga le bollette e ritira la spesa. Solo per fare qualche esempio.
Naturalmente, sulla scorta delle nostre competenze professionali, stiamo organizzando l’ampio ventaglio di risorse necessarie a realizzare i progetti di cohousing: ricerca delle aree idonee, progettazione sostenibile degli interventi, formazione dei gruppi promotori e loro evoluzione in comunità organizzate, design di spazi e servizi comuni.
Il cohousing non è più da vedere come una comune più o meno hippy, rifugio di strafatti e sbandati, anche se sopravvivono iniziative di questo tipo: di solito vere e proprie topaie che lasciano molto a desiderare anche sotto i profili organizzativo, delle relazioni fra gli abitanti e persino igienico-sanitario. Siamo certi che scompariranno entro breve tempo.
Le comunità di cohousing combinano l’autonomia dell’abitazione privata con i vantaggi di servizi, risorse e spazi condivisi (micronidi, laboratori per il fai da te, auto in comune, palestre, stanze per gli ospiti, orti e giardini…) con benefici dal punto di vista sia sociale che ambientale.
Tipicamente consistono in un insediamento di 20-40 unità abitative, per famiglie e single, che si sono scelti tra loro e hanno deciso di vivere come una comunità di vicinato per poi dar vita – attraverso un processo di progettazione partecipata – alla realizzazione di un villaggio dove coesistono spazi privati (la propria abitazione) e spazi comuni (i servizi condivisi).
La progettazione partecipata riguarda sia il progetto edilizio vero e proprio – dove il design stesso facilita i contatti e le relazioni sociali – sia il progetto di comunità: cosa e come condividere, come gestire i servizi e gli spazi comuni, mentre le motivazioni che portano alla coresidenza sono l’aspirazione a ritrovare dimensioni perdute di socialità, di aiuto reciproco e di buon vicinato e contemporaneamente il desiderio di ridurre la complessità della vita, dello stress e dei costi di gestione delle attività quotidiane.

Questo scritto nasce anche come premessa …
… all’illustrazione di progetti, raccolta di idee, condivisioni e adesioni in una logica che intende essere sin dall’inizio partecipativa e con una particolarità che è un po’ il nostro Manifesto: nessun metro quadro in più sottratto alla Natura con nuove costruzioni, bensì il recupero di luoghi esistenti e dismessi. In Italia se ne contano oltre mille: borghi abbandonati che possono tornare a nuova vita, in una logica di decrescita e rispetto dell’ambiente.
Ma chi, già oggi,  desidera vivere in cohousing? Un identikit del cohouser parte dalla storia di un’utopia diventata realtà ed ha a che fare con il vivere insieme condividendo spazi e servizi con i vicini di casa: lavanderia e stireria, ludoteca, biblioteca, orto, giardino, palestra, mezzi di trasporto e chi più ne ha più ne metta pur mantenendo la privacy nel proprio appartamento.
L’idea non è così nuova per chi ha vissuto la ventata degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, ma le neotribù attuali non sono certamente formate né da nipoti dei Figli dei Fiori né da idealisti New Age, piuttosto da un panorama eterogeneo di singles giovani e meno giovani, coppie senza figli e famiglie più o meno numerose, anziani in cerca di socialità.
E l’attuale cohouser non è tipo da comune o casa collettiva ma è per l’abitare insieme in modo organizzato, vivendo in edifici pensati o recuperati per più nuclei, scegliendosi i vicini di casa. Si abbattono i costi fissi di alcune aree perché uso e proprietà sono ripartiti su più persone, la convivenza intergenerazionale è facilitata, e sono favoriti gli scambi di vicinato.
Altro valore forte, il basso impatto: gli edifici sono pensati per consumare poco o addirittura pochissimo attraverso tecniche costruttive o ricostruttive che vanno sotto la denominazione di casa clima, casa passiva, bioarchitettura.
Abitare in cohousing vuol dire molte cose, una in particolare: ritrovarsi tra persone interessate a un modo comune di concepire la vita a partire dalla dimensione quotidiana; ogni gruppo fa storia a sè e il percorso intrapreso è sempre su misura.

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Vivere in un ecovillaggio …
… non è quindi una protesta verso il sistema, non è un sogno romantico o un’utopia, ma una scelta razionale e motivata di dare priorità nella propria vita ad aspetti quali il senso di comunità e l’ecologia.
Storicamente vivere in un villaggio in armonia con la natura non era una scelta consapevole ma l’unica possibilità; ora invece gli ecovillaggi diventano comunità intenzionali di persone pienamente consapevoli di vivere in modo che rema in direzione contraria alla spinta della società circostante. Il sentimento di appartenenza ad una comunità viene da lontano, è innato nella natura umana. La tecnologia, l’organizzazione sociale, la nascita delle metropoli, la corsa verso il successo individuale han dato l’illusione che il nuovo essere umano non avesse più bisogno dell’appoggio di una comunità, creando la tendenza verso una vita sempre più individualista e solitaria. Evoluzione ben rappresentata dall’anonimo palazzone cittadino, dove un numero svariato di vite sono rinchiuse tra queste mura, cercando una nicchia di intimità dietro spesse porte blindate di appartamenti tutti uguali, ignorando completamente l’esistenza di vicini sovente visti solo come una molestia. La vita di comunità è l’opposto, è il compromesso di vivere in un gruppo, di solito non troppo numeroso in modo che tutti i membri si conoscano personalmente. Pur praticando una parziale comunione dei beni, la vera essenza di comunità è esaltata nell’appoggio reciproco.
Un gruppo su cui contare vuol dire miglioramento della qualità di vita, con esempi pratici quali la cura condivisa dei bambini, la possibilità di facilitare e rendere più attraenti lavori comunitari, la creazioni di posti di lavoro all’interno della comunità stessa. Inoltre la vita comunitaria è un costante stimolo alla crescita personale, in quanto persone a stretto contatto quotidiano sono obbligate a confrontarsi su scelte in comune, a discutere, a parlare apertamente dei problemi che invariabilmente sorgono e questo migliora la comunicazione con gli altri e con se stessi ed aiuta a vedere con più chiarezza il nostro misterioso mondo interiore. L’armonia della vita comunitaria si ripercuote conseguentemente nella cura dell’ambiente circostante. La concezione di tutela ambientale è variabile, ma principalmente si attua nel tentativo di produrre la maggior parte del cibo che si consuma, coltivando orti vicino alle case, di affidarsi a energie rinnovabili, di ridurre i consumi e di limitare l’utilizzo delle automobili. I bambini di un ecovillaggio possono trascorrere le giornate scorazzando per strade prive di auto, giocando nei giardini comunitari, nei campi e nei boschi senza necessità della miriade di giochi che popolano la vita dei bambini cresciuti negli appartamenti. Infine la spiritualità, che racchiude aspetti controversi perché storicamente è stata ingabbiata dalla religione. La spiritualità si accompagna in modo naturale al rallentamento dei ritmi, al contatto con la natura, poiché il materialismo non è sufficiente a saziare l’innata curiosità dell’essere umano. La spiritualità significa arte, musica, contemplazione, meditazione, riflessioni. Il tutto si associa spesso ad altri movimenti quali la permacultura, la decrescita, termini che evocano ancora in tanta gente uno scenario di ristrettezze, un ritorno all’età della pietra e una rinuncia. Ma non è questo il punto, tutt’altro, l’obiettivo è lo stesso di tutte le attività umane, la felicità e il benessere, che vengono ricercate, però in una forma che predilige l’armonia con la natura e l’ambiente.

Il cohousing rurale montano …
… costituirà in futuro la reale e più adeguata forma di salvaguardia del territorio, oltre che di protezione dagli accidenti climatici e dalle scorribande dei predoni di cui si diceva più sopra.
Niente folclore da cartolina: prati fioriti di mille colori, alte vette che fanno da quinta, aria cristallina, mucche sparse a brucare che sembrano messe lì come in un presepe, il mandriano, i cani, le baite, il formaggio saporito, il burro giallo che si conserva nell’acqua gelida del torrente mentre la polenta brontola nel paiolo sul fuoco del camino…
L’agricoltura in montagna non è per tutti. E’ fatica, è lavoro duro, è gestione, manutenzione, valorizzazione di territorio e paesaggio frutto di un’attività economica e produttiva che per millenni ha costituito la principale fonte di sostentamento e il centro identitario e culturale del territorio e delle popolazioni.
Le tracce di questa cultura e di queste attività improntano tuttora in modo indelebile e diffuso il territorio, il paesaggio, i modi di vivere, le tradizioni, l’architettura, i cibi, i prodotti alimentari ed i manufatti artigianali lasciando, in montagna forse più che altrove, i segni di un’identità forte che agli occhi degli estranei viene percepita come luogo di tradizioni senza tempo. Costituiscono la nostra matrice culturale, le nostre radici, attraverso una storia millenaria ha costruito in Alpe il paesaggio di cui oggi godiamo come straordinario testimone che ci racconta la vita delle sue genti e ci apre alle bellezze di ambienti frutto di fatiche secolari poiché, all’interno di questo sistema che ha funzionato perfettamente fino ad alcuni decenni fa, la valorizzazione delle risorse pastorali è stata una delle chiavi di successo e di sopravvivenza delle popolazioni, armonico ed equilibrato rapporto tra risorse del fondovalle e degli alpeggi che ha permesso lo sviluppo di forme integrate di economia agricola con l’allevamento permanente di bestiame da latte.
Naturalmente senza il ricorso ad antibiotici, estrogeni ed altre schifezze od allo spreco di milioni di litri d’acqua per produrre una bistecca. Significa tornare alle origini, quando il latte veniva dato caldo con il miele per combattere le affezioni bronchiali, non come ora che è un mucogeno, non come ora che se i bambini mangiano un hot dog o un hamburger richiano la femminilizzazione.
L’attività degli agricoltori montani ha costruito nel tempo un paesaggio variegato fatto di aperture tra i boschi, prati e maggenghi, pascoli di alta quota, nuclei rurali ed architetture tipiche che costituiscono il pregio di tante località montane. Certo anche la montagna è cambiata e sta cambiando, anche se questo può non apparire agli occhi dei frequentatori occasionali, primariamente per la riduzione dell’agricoltura e con essa, pur se a più lungo termine, della biodiversità e della bellezza paesaggistica dei luoghi. Alle quote più elevate e meno accessibili i terreni vengono spesso abbandonati, e prima o poi riconquistati dal bosco. Se il ritorno del bosco può apparire positivo perché riduce l’impatto negativo dell’uomo su natura e paesaggio, costituisce in realtà un pericolo perché spesso le zone abbandonate sono proprio quelle più importanti ai fini della conservazione della biodiversità florofaunistica, oltre che per la diversità dei paesaggi. E senza trascurare l’incontrollato proliferare di animali selvatici che, non trovando di che nutrirsi, devono necessariamente essere abbattute. Innegabilmente, il ritorno del bosco migliora la stabilità delle pendici.
In questo senso il cohousing montano svolge anche una insostituibile funzione di salvaguardia del territorio.
Naturalmente
l’atteggiamento più sbagliato che una comunità coresidenziale può assumere allorché si stabilisce in un luogo, e maggiormente in un contesto orograficamente difficile quale quello montano, è quello di apparire e sentirsi enucleata dalla società locale ivi residente, attuando non un inserimento bensì una sorta di colonialismo isolazionista.
Non nascondiamo che i cohouser provenienti, come in massima parte accadrà, dal vissuto urbano potranno incontrare situazioni particolarmente difficili; chi vive da generazioni strappando con fatica alla montagna di che sostentarsi ha maturato una scorza dura. Perché duro è il loro lavoro: in montagna non servono le mastodontiche mietitrebbia che vediamo in pianura, tutt’al più i trattorini ed i trenini delle vigne, anch’esse faticosamente ricavate terrazzando a mano la montagna, dove i raccolti e le merci viaggiano per gli alpeggi nella gerla, a dorso di mulo o con la teleferica.
Gli scenari futuri mettono in luce un sistema rurale alpino senza domani, con una perdita progressiva e costante delle note caratteristiche e delle specificità che l’hanno finora contraddistinto. Solo una diversa considerazione del ruolo dell’agricoltura di montagna rispetto alla conservazione dei paesaggi colturali tipici, alle produzioni alimentari di qualità, alla tutela degli spazi, alla difesa dell’ambiente e del territorio potrà garantire nuove forme di sopravvivenza e di sviluppo. Questo significa spazio disponibile per nuove opportunità coresidenziali, complici i numerosi borghi abbandonati presenti sulle Alpi e sugli Appennini.

Riscoprire l’Acqua …
… non casualmente chiamata Oroblu perché, non semplicemente in margine alla nozione di cohousing ed agli aspetti connessi all’autosostentamento alimentare, lavorativo ed energetico delle comunità coresidenziali che si svilupperanno dai nostri progetti, dobbiamo ora affrontare un argomento relativamente al quale desideriamo portare alcune considerazioni, sintetiche ma imprescindibili.
Abbiamo visto precedentemente come sul nostro Pianeta l’acqua costituisca indiscutibilmente il bene più importante, purtroppo non dappertutto risulta essere quello più economico o disponibile.
Nel secolo scorso l’acqua era, salvo casi particolari, abbondante, economica e pulita. Ma, trascorso il primo decennio di questo XXI Secolo, ci stiamo accorgendo di quanto l’acqua stia diventando sempre più preziosa, talvolta non scarsa bensì mal utilizzata, preda di ecomafie, trasportata da viadotti o condotte fatiscenti che la rendono difficile da gestire, sempre più costosa e inevitabilmente da purificare. Nel prossimo trentennio la situazione è destinata a peggiorare, non da ultimo a causa dei sempre più intricati trend geopolitici in atto e di un boom demografico senza precedenti nella storia dell’umanità, che incrementerà la popolazione terrestre di circa tre miliardi di unità, prevalentemente concentrate in un unico continente.
Particolare attenzione riveste la questione della sicurezza:  che si tratti di troppa poca acqua per lunghi periodi di tempo, o di troppa acqua tutta in una volta rappresenta una delle sfide tecniche, ambientali, sociali, politiche ed economiche più tangibili ed a più rapida crescita che è necessario affrontare da subito.
Non trascurabile è inoltre la crisi ambientale in rapido svolgimento: in ogni settore, la domanda di acqua è destinata ad aumentare e le analisi suggeriscono che entro il 2030 il mondo dovrà affrontare un deficit globale del 40% tra previsione della domanda ed offerta disponibile. E qui non è possibile ragionare per localismi: per loro stessa natura acqua, vapore acqueo, correnti, falde sono transnazionali.
Questa prospettiva eleva il potenziale di crisi e di conflitto poiché l’acqua è centrale per tutto quanto è importante per la vita umana: cibo, servizi igienico-sanitari, energia, produzione di merci, trasporto e biosfera. Come tale l’acqua non solo garantisce la mera sopravvivenza degli esseri umani, ma anche benessere sociale e crescita economica. Inoltre, l’acqua è una risorsa rinnovabile ma non inesauribile. Sarà per l’acqua, oltre che per il cibo, che in un futuro nemmeno tanto lontano si combatteranno guerre cruente.
Per tali ragioni già nel prossimo ventennio ci attendono sfide senza precedenti, soprattutto allorché la questione non sarà più appannaggio di ristrette cerchie di esperti ma diverrà aspra parte del dibattito politico e dovranno essere decise enormi allocazioni di risorse finanziarie a livello nazionale e internazionale. Già ora stiamo assistendo a tentativi, neppure troppo sommessi per privatizzare l’acqua funzionalmente al business che se ne potrà ricavare.

La nostra posizione è assolutamente controcorrente …
… Anziché arroccarci in posizioni di protesta ed esecrazione, eticamente sacrosante ma strategicamente indifendibili, perché non combattere il nemico con le sue stesse armi? Perché non beneficiare in modo etico e vantaggioso di questa irripetibile congiuntura storica, compiendo azioni la cui ricaduta vada nella direzione del bene comune?
Vale a dire: vogliono privatizzare l’acqua? Ebbene, compriamola! compriamola come cittadini, come fruitori, come proprietari degli impianti, come investitori.
Siamo assolutamente concordi con chi sostiene che gli esseri umani non sono i proprietari del pianeta, ed esecriamo il fatto che la terra possa essere ed essere stata nei millenni compravenduta, recintata, delimitata, sfruttata, conquistata. Ma le posizioni rigide, di fronte ad un problema di questa portata, non sono solo inutili: sono dannose perché oggi è quanto mai opportuna una nuova visione.
Non si tratta, naturalmente, di comprare acqua: lo consideriamo semplicemente impensabile. Si tratta di diventare concessionari delle numerosissime fonti inutilizzate esistenti, oltre che comproprietari di tutto ciò che attiene al servizio, vale a dire impianti, rete distributiva e strutture accessorie.
Per farlo è indispensabile costituire delle società, i cui soci siano gli utilizzatori del servizio ed estremamente rappresentative del concetto di democrazia partecipata. Le società opereranno a livello locale e potranno essere confederate in un organismo in grado di fornire servizi a valore aggiunto: assistenza normativa, rapporti con le istituzioni, consulenza finanziaria e progettuale.
Il tutto potrà essere accorpato in un Fondo, strumento che potrà garantire la maggior tutela ammnistrativa, normativa, finanziaria
I benefici per i soci consisteranno prevalentemente nella garanzia di non dover corrispondere a terzi il costo dell’acqua in un contesto che potrebbe andare fuori controllo e, grazie ad opportune economie di scala, attuare delle politiche economiche e normative affinché il costo corrisponda agli oneri del servizio: manutenzione, depurazione, ammortamento degli impianti.
Il fenomeno, precipuamente locale,
potrebbe via via interessare luoghi, territori e bacini di utenza sempre più estesi, non solo a livello nazionale e non solo legati a realtà di cohousing, autogenerando aree su cui creare valore: in questo campo, la start up giusta al momento giusto avrà infatti risultati che non esitiamo a definire impensabili. Le questioni relative all’utilizzo dell’acqua sono e saranno per un bel pezzo – almeno fino a quando e se i mega acquadotti saranno costruiti – su base locale e ci sarà spazio per notevoli interventi.
Detto in altri termini: finanza, Si, finanza, ma con una connotazione sociale, etica. Si, ma come, e in quali nicchie, è possibile trovare il modo di generare valore?
La prima e più semplice nicchia da sviluppare sarebbe sicuramente quella dello stock picking sul settore, dato dal sicuro e gigantesco afflusso di denaro in un comparto relativamente immobile, che potrà ove incontrollato generare importanti fenomeni speculativi che potremo così contribuire ad arginare.
I trend su cui agire potrebbero essere i seguenti:
– riunificazione delle utilities di settore, da una base locale e via via in crescendo; puntare sul cavallo vincente sarà persino facile e su questo punto ci sarà anche l’opportunita’ di soddisfare gli investitori più conservativi perché queste nuove mega utility dovranno necessariamente finanziarsi con obbligazioni ad alto rendimento: per fare un esempio, come fa oggi SNAM che emette obbligazioni al 3 per cento netto, che gli investitori istituzionali si strappano di mano come fossero oro! E noi, in un’economia allargata e multifunzionale che comprende l’acqua ed il suo indotto, i cohousing e le loro produzioni, oltre a tutte le attività collaterali, potremo garantire molto di più.
– sviluppo di infrastrutture sovranazionali, altrimenti definibili Mega Water Projects. E qui siamo all’anno zero. Ma anche questo sarà un trend inevitabile. Portare l’acqua da dove c’è a dove non c’è in maniera radicale. Persino in America qualche analista del settore sta incominciando a proporre un mega acquadotto nord-sud, dalla regione dei Grandi Laghi (Erie, per capirci) a New Orleans ma le resistenze sono ovviamente immense. In Europa non osiamo neanche pensare, in Asia poi sarà da ridere visti le storiche rivalità. Ma anche qui, prima o poi chi potrà dovrà farlo. E qui ovviamente lo stock picking potrà essere incredibilmente efficiente e capace di generare grandi risultati.
Il problema dell’acqua però oggi come oggi non si manifesta su base nazionale. Gli esempi che abbiamo avuto nell’ultimo quindicennio riguardano problemi nati su base regionale o addirittura a livello di singola città, in cui le autorità, non essendo state previdenti prima, hanno incominciato a razionare l’acqua e a proporre soluzioni tampone sull’utilizzo quotidiano.
In questo momento stiamo ancora parlando di stock picking e anche in quest’area ci sono grandi opportunita’, da parte di start up che si occupano di specifici problemi: depurazione – fondamentale, specialmente dell’acqua di mare – purificazione da contaminazione esterna o da tracce di medicinali ed altre sostanze, ridotto utilizzo. Nicchie specifiche, insomma.
La componente finanziaria è sicuramente degna di nota, ma non rappresenta un motivo sufficiente per sviluppare una struttura tecnica in grado di sostenere un flusso informativo del tipo finora descritto. Occorre qualcosa di più. Cioè, che cosa?
Una parte educational di tipo classico dedicata al grande pubblico? Sicuramente interessante, ma insufficiente, vista la difficoltà di creare calore in questo ambito, fatta salva, ammesso di trovarli, la presenza di sponsor interessati a creare consapevolezza nel pubblico.
La nostra risposta è: p
artiamo da un concetto di base: sul problema acqua esistono al momento relativamente poche competenze che sono state sviluppate in un numero relativamente basso di aree a livello mondiale. Aree dove situazioni di siccità’ di lungo periodo hanno richiesto la gestione di soluzioni spesso altamente innovative.
Ma questo know-how base non è stato condiviso in maniera significativa e anzi è stato spesso confinato nei ristretti ambiti locali di attuazione. Per fare un esempio, certe soluzioni incredibilmente innovative sviluppate in numerose città australiane od israeliane, veri laboratori a cielo aperto dei problemi dell’acqua, non sono minimamente conosciute in Europa o nel resto del mondo occidentale, per esempio impianti di desalinizzazione dell’acqua marina con caratteristiche uniche.
Considerata l’importanza delle immagini, spesso prevalenti rispetto alle parole in quanto maggiormente efficaci, è nostro intento sviluppare una trasmissione video settimanale rivolta ad un pubblico professionale di settore, tecnico ed a politici (non serve che siano illuminati, è sufficente che siano onesti e non pressapochisti, e già trovane sarà un’impresa, almeno sic stantibus rebus…), che parli delle soluzioni innovative già sviluppate, descrivendole nei dettagli, e che illustri come i problemi che potrebbero presentarsi siano già stati risolti altrove.
La trasmissione potrebbe essere sviluppata in più lingue, magari attraverso un canale interattivo e con la possibilità di interazione da parte degli abbonati.

Ricapitoliamo quindi brevemente quali e quante attività potrebbero, se unite adeguatamente e coordinate sotto un’unica piattaforma di comunicazione video/interattiva, generare valore in questo settore:
Area finanziaria, stock picking, ricerca
Area servizi su start up innovative con possibilità di contatto
Area educational e di responsabilita sociale rivolta al grande pubblico
Area knowledge base e best practices  internazionali, rivolta a tutti gli operatori del settore
Questi quattro pilastri, se ben coordinati e sviluppati armonicamente, potrebbero garantire nel lungo periodo una base di servizi promozionali in grado di generare adeguato valore per i potenziali investitori.

Alberto C. Steiner