Land Grabbing e vergini dai candidi manti

Oltre il non profit, c’è un settore che punta a coniugare reddito, etica e sostenibilità. L’articolo, pubblicato dal settimanale Il Mondo del 22 novembre con un sottotitolo dal sapore vagamente inquietante di slogan: Siamo utili, e facciamo utili ci fornisce lo spunto per parlare di un argomento che da gran tempo, in particolare da quando a Milano ed in altre città italiane si è tenuto il Forum della finanza sostenibile, è nelle nostre corde. Vale a dire, quando la finanza dai denti a sciabola indossa l’abito di scena etico e solidale. Che lor signori, come scriveva l’indimenticato Fortebraccio, facciano utili è pleonastico. Se siano utili è altrettanto induscutibile: in questo scritto cercheremo di portare il nostro contributo per stabilire a chi siano utili.
L’articolo celebra la finanza buona, affermando che in America è ormai una realtà mentre in Europa sta muovendo i primi passi. Vero: titoli tossici, dark pool, speculazione non smettono di essere sotto i riflettori. ma finalmente l’attenzione di istituzioni internazionali e banche d’affari sembra rivolgersi al cosiddetto impact investing, vale a dire gli investimenti che pur generando profitti hanno effetti positivi sulla società e sull’ambiente.
Apparentemente un ottimo segnale, generato dalla maturata consapevolezza dei rischi ecosociali che corre il nostro pianeta: se ne discute, se ne scrive sui giornali, se ne traggono dibattiti e trasmissioni televisive. Insomma, l’argomento è cool e, come tutte le cose trendy non poteva non attirare l’attenzione della finanza. La gente sembra sempre più orientata ad investire i propri risparmi in banche etiche, cohousing ecosostenibili, gruppi di acquisto solidale. Addirittura in autocostruzione edilizia coresidenziale o in attività di microcredito che si svolgono fra privati scavalcando le istituzioni creditizie: la legge lo consente, ma la finanza tradizionale o fa buon viso a cattivo gioco e lascia perdere o si veste da ecosostenibile nonché solidale per non lasciarsi sfuggire il pallino. E il boccone.
Naturalmente non può intervenire subito a succhiare da questo nuovo capezzolo, per una ragione d’immagine. Checché se ne dica anche la peggiore finanza abbisogna di consenso per non sembrare onnivora, bulimica, senza ritegno, accentratrice. Però la finanza, quella vera, è come la chiesa: sa e può aspettare. E allora prende il giro largo: inizia a fare le cose in grande, coinvolgendo investitori istituzionali, governi, creando movimenti di opinione attraverso i media. Non dimentichiamo a chi appartengono, prevalentemente, i mezzi di informazione.
Non stiamo farneticando: ciò che scriviamo lo insegnano in tutti i corsi universitari di sociologia, psicologia delle masse, e naturalmente economia.
Fermo restando che, come affermiamo spesso, l’ultima conversione di cui abbiamo avuto notizia è quella dell’Innominato, ecco che dall’ultimo G8 è scaturita l’istituzione di una task force (duro a morire il vizio di adottare termini di sapore militare, guerriero, combattivo…) riunitasi in ottobre per fornire indicazioni operative e di policy sulla regolamentazione dei Social Impact Investment, mentre dal canto suo l’Ocse sta inventariando tutte le esperienze mondiali per un report che sarà diffuso nel 2014. Non da meno è il Consiglio Europeo, che con un apposito regolamento ha introdotto un passaporto per i fondi che investono almeno il 70% in imprese sociali affinché i gestori che scelgono di aderire al regime EUSEF, European Social Entrepreneurship Funds, fondi per l’imprenditorialità sociale, possano commercializzarli liberamente in tutta l’Unione. Piatto ricco mi ci ficco, suol dirsi… E infatti alla nuova corsa all’oro con il vestitino eticosolidale non poteva naturalmente mancare la BEI, Banca Europea per gli Investimenti, scesa in campo lanciando attraverso il Fondo Europeo per gli Investimenti il SIA, Social Impact Accelerator, fondo di fondi in inedita partnership con Crédit Coopératif e Deutsche Bank.

Primo cameo, ovvero di come giovi rammentare che il lupo, anzi der Wolf, das Haar verliert
… La banca tedesca è stata condannata nel settembre 2012 dal giudice milanese Oscar Magi alla confisca di beni per 88 milioni di Euro, in concorso con Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank per la truffa sui derivati stipulati dal Comune di Milano nel 2005.
A volte ritornano… ed ecco che proprio l’elvetica Ubs ha istituito in ottobre il suo primo fondo impact dedicato a investimenti in piccole e medie imprese nei mercati emergenti, che avrebbe già raccolto oltre 50 milioni di franchi e considera settori target sanità, istruzione, accesso al credito, infrastrutture di base, sviluppo agricolo.
Quanto a Jp Morgan, le sue proiezioni affermano che nel 2023 il giro d’affari dell’impact investing assommerà a 400 milioni di dollari, solo negli Usa.

Secondo cameo, ovvero della finanza buona…
… quella che in America è ormai una realtà, e di come gli squali si mangiarono una bella idea in difficoltà: c’era una volta in Gran Bretagna… la Co-operative Bank, il più grande gruppo mutualistico britannico fondato nel 1844 dall’associazione di mutuo soccorso Rochdale Pioneers e forte di quasi 5 milioni di clienti, ma con un buco in bilancio da 1,5 miliardi di sterline. L’anno scorso due hedge fund americani hanno costretto la banca britannica a cedere il 75% del pacchetto azionario firmando un accordo che ha di fatto detto addio all’etica e spianato la via al licenziamento di migliaia dei 10mila dipendenti. Nell’occasione Dominic Hooki, segretario generale del sindacato Unite the Union, ha dichiarato: E’ un giorno tragico per il paese ed il quotidiano The Guardian ha commentato: Da oggi i cittadini hanno  minori possibilità di scelta e il paese si ritrova con un’altra banca che perseguirà gli interessi degli azionisti invece di provare a migliorare il settore del credito, ed anche il governo ne esce sconfitto: era stato proprio Cameron a scommettere sulle banche cooperative come possibile alternativa sostenibile al sistema bancario tradizionale, spesso accusato di fare affari alle spalle dei cittadini in difficoltà.

Considerato che the Venture must go on
… torniamo a parlare del nuovo che avanza. Anche da noi molto si muove, ed ecco l’assist dello sdoganamento attuato dal tempio delle scienze economiche mainstream: poteva mai mancare l’ennesimo osservatorio? A colmare la lacuna ci ha pensato la Sda Bocconi inaugurando l’Osservatorio Impact Investing, nella cui executive room siedono antesignani del venture capital sociale, docenti di studi giuridici ed esperti di impact finance.
Non facciamo pubblicità e non tiriamo la volata a nessuno perciò non riferiamo né nomi né marchi, chi vuole può leggere l’articolo citato in premessa o servirsi di Google. Uno di questi fondi etici viene citato ripetutamente poiché, dopo sette anni di attività e 13 investimenti in portafoglio per complessivi 7 milioni, ha appena ceduto una società di housing sociale al socio operativo, una cooperativa, e intanto si sta preparando l’uscita da due cooperative sociali. Un’operazione finanziaria in piena regola che si avvale indirettamente del meccanismo cooperativistico, e siamo certi che le cooperative utilizzatrici finali sapranno fare uso adeguato dell’esperienza, del patrimonio e dell’autonomia conseguiti.
Intanto la Fondazione Giordano dell’Amore e BNL-Bnp Paribas hanno deciso di partecipare con Crt e Fondo europeo per gli investimenti ad un’iniziativa da 18 milioni di euro per lanciare il primo Microcredit Bond d’Europa, diffuso per ora solo tra fondazioni, family office e privati con grandi patrimoni e, quando inizieranno ad emergere i primi casi di successo, anche tra i gestori di fondi, nella speranza che nel frattempo giunga anche in italia una parte delle risorse del Social impact Accelerator lanciato dalla Bei.

Una menzione particolare merita invece la Fondazione Acra
… nota per promuovere lo sviluppo nei Paesi poveri attraverso la diffusione di cognizioni tecniche e competenze progettuali, particolarmente nel settore agrario. L’anno scorso ha dato vita con Altromercato, Fondazione Fem e Microventures, alla Fondazione Opes che ha lanciato Opes Impact Fund, primo veicolo italiano che, individuando come target le imprese sociali attive nei Paesi in via di sviluppo, ha già raccolto 2,6 milioni di euro e fatto i primi investimenti in due imprese sociali in Kenya, contando di attuarne altrettanti entro fine anno per partire nel 2014 con una massiccia campagna di fund raising.
L’attività di Opes è degna di nota in quanto raccoglie mezzi a titolo di dono e non puntando a rendimenti di mercato ma esclusivamente a recuperare quanto investito per utilizzarlo in altre iniziative, facendo il possibile perché non accada quanto di cui stiamo per parlare nel nostro

Terzo cameo, ovvero di come in Africa il colonialismo non sia morto…
… e la corsa alla terra continui dietro il paravento della solidarietà: gli investitori cercano di convincere le popolazioni locali – e l’opinione pubblica mondiale – che i progetti favoriscono il benessere e riducono la povertà. E invece, almeno secondo quanto afferma Oxfam, rete di organizzazioni non governative: il 60 per cento dei soggetti privati che comprano porzioni di terra ha come obiettivo esportare tutto quello che produce. Secondo un’indagine effettuata dal francese Cirad, Centre Internationaux de Recherche Agriculture et Développement, la metà delle coltivazioni avviate non produce cibo bensì prevalentemente biocarburanti. Considerando infine che le terre sono cedute a prezzi ridicoli, vale a dire tra i 70 centesimi di dollaro ed i 100 dollari annui per ettaro con contratti di durata cinquantennale o centennale, spesso versati direttamente nei conti delle élite governative, non rimane molto per sfamare le popolazioni locali.Terra Africa 001Le terre acquisite dagli investitori stranieri sono talvolta marginali e disabitate anche se potenzialmente produttive, ma in altri casi sono fertili ed abitate da comunità rurali che, quando viene accordata la concessione, devono cedere il posto all’investitore dando luogo al fenomeno descritto con il termine vagamente burocratico di displacement, trasferimento. Detto in altri termini, vengono deportate.
Stime sul numero di displacements, ovviamente, nessuna. Ma storie drammatiche tante, specialmente a carico delle comunità di quelle aree ambite dalle multinazionali del carbone o di altre risorse minerarie che ottengono diritti di estrazione su milioni di ettari, causando il trasferimento di migliaia di famiglie in zone non infrequentemente prive di accesso al cibo e all’acqua.
In tutto il mondo si parla di oltre 900 contratti transnazionali firmati tra governi e investitori, che spesso millantano promesse di sviluppo e solidarietà sociale, per la cessione di terre, per un totale di oltre 40 milioni di ettari, fenomeno che il mondo accademico definisce con l’espressione gesuitica di acquisizione di terre su larga scala, mentre gli investitori preferiscono locuzioni come opportunità di sviluppo o prospettiva win-win. Quei tipi stravaganti che noi definiamo Società Civile lo chiamano invece con il nome che gli spetta: land grabbing, accaparramento delle terre.

E qui cominciamo a fare un po’ di conti
… se paghiamo il terreno 100 dollari per ettaro anziché 1.000 abbiamo già maturato una plusvalenza di 900 dollari senza nessuno sforzo, e l’area nel computo dei costi gestionali incide per il 2 anziché per il 20%. Ai risparmiatori possiamo anche accordare un bel 3% annuo di interesse sui capitali investiti, affermando: visto che anche la finanza etica può garantire ottimi rendimenti? I numeri sono inventati, ma il principio è chiarissimo. E passiamo al

Quarto cameo: il Mozambico non esiste.
L’affermazione, pronunciata con intento provocatorio il 4 giugno di quest’anno al festival dell’economia di Trento dal sociologo mozambicano e docente all’Università di Basilea Elisio Macamo, è la fotografia dell’Africa. Le sorti di Paesi come il Mozambico, dipendenti dagli aiuti esterni per almeno due terzi del bilancio nazionale, sono legate al rapporto di sudditanza della società rispetto agli agenti dello sviluppo: cooperative, ong, onlus e via enumerando. Chi organizza gli interventi umanitari detta legge ed i parlamenti non discutono quello che viene deciso dai gestori dei fondi per lo sviluppo.
In sostanza, oggi in buona parte dell’Africa subsahariana un’idea o un’iniziativa assumono lo status di verità solo se legate agli aiuti allo sviluppo.
Intanto i contadini di un villaggio che ai tempi dei colonizzatori portoghesi si chiamava João Belo affermano: Stavamo meglio prima che arrivassero i cinesi. In questa zona sulla rive del fiume Limpopo 20mila ettari di risaie hanno preso il posto delle machambas, i campi coltivati con metodi tradizionali: i cinesi sono arrivati, hanno rimosso i campi, drenato i canali d’acqua e occupato le terre.

Il crescente interesse per l’acquisto di porzioni di terra
… è dettato da problemi estremamente attuali: aumento della popolazione mondiale e crisi dei prezzi degli alimenti, fenomeni che hanno condotto alcuni paesi – soprattutto quelli arabi che non dispongono di aree coltivabili – ad acquisire terre per rafforzare la loro sicurezza alimentare. Noi non siamo da meno: il timore legato al riscaldamento globale ha motivato le politiche sulle energie rinnovabili di Stati Uniti e Unione Europea, facendo conseguentemente crescere la domanda di terre da destinare alla produzione di biocarburanti. Se, infine, stati come il Brasile rovinano l’ambiente di casa propria per sostenere lo sviluppo, altri paesi emergenti come l’India e la Cina soddisfano la crescente fame di materie prime acquisendo vaste superfici di terra da destinare all’esplorazione e all’estrazione mineraria.
Al Forum sulla finanza solidale abbiamo sentito un intervento esilarante: si parlava di quanto la Cina fosse avanti sotto il profilo della tutela ambientale del territorio. Del proprio.
Parliamoci chiaro: quando si citano le fonti rinnovabili si intende dire che la quantità totale di quella fonte non cambia significativamente durante il suo uso. Per esempio, se abbiamo un pollaio le cose vanno bene finché mangiamo al massimo tante uova quante le nostre galline sono capaci di produrre. Se ogni giorno mangiamo 10 uova e le nostre galline ne fanno 8, i conti non possono tornare.
Se usiamo legna per scaldarci la casa, la risorsa è rinnovabile solo se quella che usiamo viene rigenerata nel tempo durante il quale la bruciamo.
Lo stesso discorso vale per carbone e petrolio che hanno impiegato milioni di anni per formarsi, ma il ritmo con cui vengono utilizzati è enormemente più veloce della loro formazione. L’uranio invece non è rinnovabile: la sua presenza sul pianeta è modesta rispetto alle esigenze, e non si rigenera in nessun modo.
Le fonti rinnovabili, quelle vere, sono quelle che seguono i cicli della natura: acqua, vento, maree. Oppure sono talmente abbondanti che nessun consumo può spaventare. Il sole continuerà ad inviare la sua luce e le sue onde elettromagnetiche anche dopo che la Terra si sarà volatilizzata. Cosa che succederà, se nel frattempo non combiniamo disastri, tra non meno di  4 o 5 miliardi di anni.
Nel mondo l’80% dell’energia viene prodotta per il 35% con petrolio, per il 25% con carbone, per il 21% con gas, per il 10% con biomasse e per il 6,5% con energia nucleare, mentre l’idroelettrico e le nuove rinnovabili rappresentano appena rispettivamente il 2 e l’1%, pur essendo tuttavia in crescita costante nell’ultimo triennio.
Energia e cibo, i bisogni primari sui quali si basa l’attuale società che non cessa di pensare in termini di sviluppo. E questo sviluppo non può che essere supportato da risorse finanziarie.Cesec - Congo bambino soldatoFinito il tempo delle colonie, gli stati indipendenti sorti a partire dal 1948 quando non rimangono legati a doppio filo agli ex-coloni sono oggetto delle attenzioni di altri corteggiatori, che magari millantano ragioni umanitarie, di libertà dall’oppressione di tiranniche dittature, di investimenti per l’energia, la sanità, la cultura. Giusto di passaggio, non dimentichiamo la miriade di microconflitti, micro ma non per questo meno sanguinosi e feroci, che da oltre un cinquantennio affliggono l’Africa con il vero fine dell’accaparramento di legname e frutta pregiati, petrolio, uranio, coltan, oro, cadmio, diamanti… dobbiamo continuare l’elenco?

E’ innegabile che gli investimenti portano lavoro
… attraverso l’assunzione di manodopera locale ma, comunque si decida di chiamarla, la corsa alla terra comporta conseguenze che si ripercuotono sulla vita quotidiana delle comunità, influenzano gli equilibri geopolitici dei paesi e persino l’ecosistema.
Gli investimenti potrebbero essere un fatto positivo per le comunità rurali ma, come afferma Gisela Zunguze di Justiça ambiental, organizzazione non governativa mozambicana per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità locali: L’articolo 109 della costituzione mozambicana sancisce che l’uso della terra spetta al popolo e prevede che si svolgano tre consultazioni popolari per decidere le modalità di trasferimento della terra a un investitore privato. Ma le consultazioni non sempre avvengono come dovrebbero, perché non coinvolgono le comunità nel processo decisionale.

Pochi ma virtuosi
… per esempio il caso di Michele Sammartini, imprenditore italiano titolare di una grande azienda agricola in Mozambico, che accosta l’agricoltura industriale all’immagine di un’astronave che atterra in villaggi abituati ai ritmi lenti del modello di sussistenza, affermando come i progetti irrompano nelle tradizioni locali sconvolgendo la vita delle persone ma fornendo l’opportunità, in una visione illuminata, di portare qualcosa dando alle persone gli strumenti tecnici affinché un giorno possano farcela da soli. Un approccio non semplice e dagli effetti non immediati, che ha però permesso alla sua azienda di non venire mai contestata dalle popolazioni locali.

Ma gli anelli deboli nella catena degli investimenti…
… sono spesso i governi locali, che dovrebbero mediare tra le organizzazioni investitrici e la popolazione, limitando gli effetti negativi ed imponendo misure di controllo a tutela delle comunità locali. Ma ciò avviene raramente, e non è un caso se gran parte delle acquisizioni di terre è concentrato in Paesi che registrano indici di corruzione preoccupanti. E questo rischia di compromettere il valore dei progetti di investimento solidale. A meno che l’investimento non riponga parte della propria forza proprio in quell’atout.
Resta il fatto che, come sostiene la Banca Mondiale, nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di persone in più da sfamare, e per riuscire a soddisfare i loro bisogni sarà necessario aumentare del 70 per cento la produzione agricola globale. Un ragionamento che si sostanzia nello slogan feed the world, ripreso da colossi del settore alimentare come Monsanto e Cargill. Ma se la Fao rileva una crescita della domanda globale di alimenti dovuta all’aumento demografico, Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione spiega: è vero anche che oggi si produce una quantità di cibo sufficiente a sfamare 12 miliardi di persone, a fronte di una popolazione mondiale di 7 miliardi.
A mancare quindi non è il cibo ma una distribuzione efficiente e il reddito per accedere alle risorse. A parte gli sprechi denunciati da Vandana Shiva e dei quali anche noi abbiamo già parlato a suo tempo.
Intanto, in attesa di regole internazionali il land grabbing da parte delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo continua a devastare la terra africana mentre i prezzi dei prodotti alimentari salgono e la domanda di biocarburanti cresce.
E la finanza, anche quella che si autopromuove etica  non fa altro che investire in queste risorse. Ma noi crediamo che non possa farlo in modo etico finché il contesto è tutt’altro che etico. Come la mettiamo quindi? Quali sono pertanto le risorse sulle quali va ad investire? Ed in quale modo? Stiamo per assistere ad una nuova ondata di Pilgrim Financial Fathers che, armati di sola incrollabile fede ecosolidale andranno incontro ai Kalashnikov dei mercenari o, come si dice farisaicamente, contractors assoldati per difendere i privilegi delle multinazionali? Delle stesse multinazionali che loro stessi hanno sinora finanziato e delle quali possiedono pacchetti azionari rilevanti?

In attesa di un’eventuale risposta, che presumibilmente non giungerà mai, cambiamo argomento.
Non ci appare chiaro il progetto illustrato nelle scorse settimane dalla Uman Foundation di Giovanna Melandri, nota per avere affermato in un’intervista a Panorama: Lo prenderò da settembre-ottobre in riferimento allo stipendio in qualità di presidente del Maxxi, per mettere fine alle polemiche su una nomina considerata politica e senza la necessaria esperienza per gestire un museo, e specificando: Nell’ottobre 2012, quando ho accettato l’incarico, sapevo che il Maxxi era una fondazione e che in base alla legge Tremonti avrei prestato la mia opera gratuitamente. Legge sbagliatissima, me lo si lasci dire, perché la cultura ha bisogno di grandi manager, e questi vanno pagati (accatitipì://www.huffingtonpost.it/2013/07/27/giovanna-melandri-stipendio_n_3662698.html – Giovanna Melandri non lavorerà più gratis per il Maxxi. Arriva lo stipendio).”
L’ex ministro Pd ai beni culturali ha messo sul tavolo la proposta di un SIB, Social Impact Bond, per il reinserimento dei detenuti sul modello di quello lanciato dal governo britannico nel 2010, che consiste nel raccogliere capitali privati con i quali finanziare un percorso di avviamento al lavoro dopo l’uscita dal carcere. Viene dichiarato che il ritorno finanziario è proporzionale alla riduzione del tasso di recidività ma, escludendo interventi come quello della fatina dei dentini, pur con tutta la nostra buona volontà non siamo riusciti a capire come funzioni. Forse un giorno qualcuno ci illuminerà.
E per concludere in bellezza non ci resta che collocare in pista tra le new entry, ma più che altro old-entry rifatte, della finanza sostenibile anche l’ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, appellata il 13 maggio 2011 da Vittorio Malagutti su Il Fatto Quotidiano la manager con il buco intorno, in ragione della sua Securfin Holding che perse 11 milioni nel 2006, 112 milioni l’anno successivo, 45 nel 2008 ed altri 20 nel 2009, nonché famosa per essere scesa in corteo insieme ai milanesi per protestare contro la criminalità e gridando slogan contro il sindaco; essendosi accorta che era lei il sindaco prese ad inveire contro se stessa (accatitipì://www.nonciclopedia.wikia.com/wiki/Letizia_Moratti). Ovviamente la citiamo funzionalmente al rilancio della Fondazione San Patrignano, che com’è ben noto della solidarietà sociale ha fatto il proprio vessillo ben prima che il barone Karl von Drais inventasse quanto lo consegnò alla Storia, ed è praticamente in odore di santità: opererà ancora più all’insegna di un profilo etico e solidale.
E, dopo il caffè, torniamo al Forum per la finanza sostenibile, dove due esponenti di MainStreet Partners, boutique londinese indipendente di consulenza, hanno spiegato a Ceo di fondazioni non profit ed a private banker come strutturare un portafoglio ad alto impatto sociale e come coinvolgere anche la massa dei piccoli investitori – quelli che un tempo erano chiamati parco buoi – coniugando la ricerca di stabilità del portafoglio e di ottimizzazione del rapporto rischio/rendimento con considerazioni e obiettivi di carattere etico, sociale e ambientale. Giusto! ma dopo il caffè arriva il conto: saranno come sempre i piccoli investitori a pagarlo?
Ok, chiaro il concetto del land grabbing ma… e le vergini dai candidi manti di cui al titolo? Boh, fate voi.
Potremmo considerare concluso qui il nostro scritto ma, per dovere di completezza, parliamo brevissimamente di microcredito: almeno questa è un’esperienza positiva che ci consente di ritrovare il sorriso. Su questo fronte annoveriamo le attività di Fondazione Cariplo, il cui fondo di fondi Microfinanza 1 ha raccolto nel 2012 ben 84 milioni, e del consorzio Etimos, promotore di Etimos Global Microfinance Debt, fondo chiuso di debito che eroga mutui commerciali a istituzioni di microfinanza e cooperative di produzione.

Alberto C. Steiner

A Portico di Romagna l’assemblea nazionale degli Alberghi Diffusi

Portico di Romagna, è un incantevole borgo situato alle pendici dell’ Appennino Tosco-Romagnolo nel comprensorio delle Foreste Casentinesi che conosciamo bene. Ieri, nell’ottocentesca cantina dell’albergo diffuso Al Vecchio Convento trasformata in sala conferenze, si è svolta la tredicesima assemblea nazionale dell’Associazione Alberghi Diffusi, che raggruppa oggi 81 realtà sparse sul territorio nazionale.
Lasciamo alle parole del presidente Giancarlo Dall’Ara la migliore e più realistica istantanea di una realtà dinamica ed in crescita nel rispetto del territorio e delle sue specificità: ”Difficile sintetizzare in poche righe i risultati della nostra Assemblea Nazionale.
Dovrei dire che anche questa assemblea si è svolta in uno spirito di collaborazione che non sempre vedo altrove. Che gli alberghi diffusi crescono sia numericamente che qualitativamente. Che c’è molta voglia di fare rete, di imparare gli uni dagli altri. Che sono molte le realtà gestite da giovani, o interamente al femminile. Che c’è molta passione nei discorsi e nei progetti.
Che sono molti i progetti innovativi in cantiere, e i casi di eccellenza. E anche che è alto l’interesse che abbiamo registrato verso di noi da parte del Trade.
Abbiamo cercato tutti assieme di rafforzare il nostro movimento, i legami con altre realtà che credono nello sviluppo turistico dei borghi, che credono nella sostenibilità e nella centralità della persona nel mondo dell’ospitalità.
Personalmente sono contento del livello di eccellenza registrato sul web in termini di reputazione collegata al nostro modello. Sono contento dei risultati sinora raggiunti anche in termini di visibilità.
Diciannove Regioni hanno una norma, ripresa più o meno bene dal nostro modello.
Gli alberghi presenti venivano dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla Calabria, dalla Campania e dal Molise….e, da nord, da Piemonte, Lombardia e Liguria. Insomma abbiamo fatto parecchia strada, e immagino che presto saremo un centinaio.”
Nell’occasione è stato presentato, e degustato, un vino speciale, dedicato agli Alberghi Diffusi. Si chiama Memoriae.

Alberto Cazzoli Steiner

Sardegna: prove d’orchestra?

Il dramma della Sardegna e’ quello di tutta l’Italia, territorio ad alto rischio idrogeologico abbandonato a se stessa dall’incuria, dall’ignoranza e dalla disonestà.
Il sottotitolo del libro di cui all’immagine a corredo recita: “Solo un incubo o la profezia di un futuro alle porte?”
Chi ci conosce sa bene quanto siano lontane da noi le paranoie catastrofiste e complottiste, ma non è di questo che ci interessa parlare, specialmente mentre l’Italia trema per il nuovo ciclone mediterraneo di questo global warming, che qualcuno nega ed altri minimizzano, ed intere province annegano nel fango di territori abbandonati alla malaedilizia e la Sardegna paga caro il conto di una politica di rapina, assassinata dalla corrente cementizia.
Di fronte alla tragedia che ha colpito la Sardegna non possiamo tuttavia, oltre che esprimere la nostra partecipazione, ribadire la nostra posizione: poiché tutti noi che ci scriviamo e ci leggiamo su queste pagine non saremo certamente fra coloro che hanno il posto riservato in fantomatici tunnel sotterranei o su improbabili astronavi interstellari, se salvezza potrà esservi sarà conseguenza del duro lavoro che avremo portato a termine grazie alle nostre forze. In piccole realtà autosufficienti collocate a partire dai 600 metri di altitudine.
Noi ci siamo, per chiunque voglia saperne di più e condividere il nostro Progetto.
Alberto Cazzoli Steiner

Minicasa ecologica low-cost: esiste, è in legno

Ci hanno chiesto di esprimere un parere relativamente ad un oggetto, definito microcasa ecologica ed ergonomica, progettato dal designer canadese Ian Lorne Kent. Lo esprimiamo in queste righe.
Anzitutto una, doverosa, premessa. Presentiamo il professionista canadese sopra nominato, che non è esattamente l’ultimo arrivato, riportando quanto scritto su di lui nel sito Nomad: Ian Lorne Kent is the designer and developer of Nomad Micro Home. He has also orchestrated the design and development process for a broad spectrum of multi-family housing and commercial developments over the past 35 years within the Lower Mainland region of Vancouver, British Columbia. This experience ranges from the design and construction of single-family homes to the design, development, and marketing of multi-family residential and commercial projects. Ian has also been instrumental in the Energy and Environmental Design (LEED) certification of major residential and commercial developments in Vancouver which provide a recognized standard for the construction industry to assess the environmental sustainability of building designs. The driving force behind NOMAD comes from Ian’s passion for industrial design and architecture.
Quelle che seguono sono immagini di alcune sue realizzazioni: chapeau!
Diciamo che con questa realizzazione, destinata sicuramente a conquistarsi una fetta di mercato presso un’utenza ben precisa, si è divertito…
La nostra prima risposta, quella che promana dal cuore, quando si è trattato di esprimere il parere è stata: il peggio possibile, in particolare considerando che la segnalazione proviene da un ente che si definisce ecosostenibile, aggiungendo: Una casa ad elevato gradiente di bestemmie, e così motivando: Provate a viverci in questa “casa”, vale a dire: rifare il letto, lavarvi anche solo un paio di calzini, pulire il bagno o cucinare qualcosa che non sia una tisana… e se avete bambini preparatevi all’infarto, soprattutto a causa dell’alzata, della pedata e dell’orientamento sfalsato delle cosiddette scale.
Anzitutto non di casa si tratta bensì tutt’al più di MAT, modulo abitativo temporaneo, eventualmente utilizzabile come stanza degli ospiti da sistemare in giardino, o come test per l’affinità di coppia: se dopo una settimana escono ancora sorridenti ed abbracciati è la storia del secolo… Inoltre 25.000 C$ corrispondenti a 17817,75 € (cambio 11.11.2013 listino Il Sole 24 ore) non costituiscono affatto un prezzo “piccolissimo”, oltretutto dal sito del designer progettista si evince come in realtà il costo sia di almeno 28.000 per i necessari lavori di preparazione ed allacciamento. Nel Paese di origine, cioè il Canada, trascurando quindi trasporto e dogana.
Considerando che invece viene presentata come casa, a nostro parere è l’antitesi del vivere bene proprio per tutta una serie di ragioni ecologiche, ergonomiche nonché relative alle norme di sicurezza.
Ci fornisce però l’opportunità di parlarne, presentando case veramente ergonomiche, ecocompatibili ed a prezzi oltremodo accettabili funzionalmente alle soluzioni tecniche costruttive adottate.
Nelle illustrazioni furbescamente proposte vi sono immagini e planimetrie, ma non sezioni dalle quali si evincerebbe come pedata ed alzata dei gradini oltre a essere fuori norme possono costituire un serio pericolo.
L’oggetto sembra progettato da qualcuno che non ha mai rifatto un letto in vita sua né si è mai lavato nemmeno un paio di calzini, non parliamo di stenderli; non ha bambini, perché un bambino fino a 3-4 anni oltre ad avere paura di salire e scendere ne è fisicamente impossibilitato, ma già a partire dai 5-6 anni si ammazza; non ha mai pulito un bagno e la sua esperienza di cucina consiste nel farsi una tisana o nello stappare una bottiglia o una lattina; probabilmente possiede un guardaroba da paura, ma da un’altra parte.
Se inoltre sia ecologica non sappiamo, bisognerebbe vedere la specifica dei materiali, specialmente sotto il profilo termico per sapere con quali materiali, e quanto prestazionali, sia stata progettata la coibentazione . Ergonomica assolutamente non è per la presenza di spazi eccessivamente ridotti, nicchie e spigoli. Non ci pare neppure sana per la monoesposizione, per il rapporto aeroilluminante della zona notte e per l’impossibilità di sfogare fumi e condensa dell’eventuale attività di cucina, che in breve impesterebbero tutto l’oggetto, pardon la casa, rendendola a nostro parere un rottame ben prima che sia trascorso un quinquennio.
28.000 Dollari canadesi non sono affatto un microprezzo ma un prezzo folle e l’unità non possiede neppure le caratteristiche per poter essere utilizzata come alloggio temporaneo in caso di accidenti o calamità naturali. Un giornale locale, il Province di Vancouver, così titola la notizia: Vancouver company wants to squeeze you into 100-square-foot micro-homes.
Per fare un paragone automobilistico posso anche acquistare una spider, ma non devo pretendere di trasportarci la piattaia della nonna o le cassette di pomodori.
Con l’equivalente di 25.000 C$, che al cambio di ieri (fonte: Il Sole 24 Ore) assommano a € 17.761,25 posso acquistare una casa come quelle che proponiamo nelle immagini a corredo e fornirla della necessaria impiantistica.
Chiariamo un concetto: chi pensa ad una casa ad una casa ecologica ed a risparmio energetico non dovrebbe pensare in termini di pochi €/mq. L’eliminazione dei ponti termici, l’utilizzo di materiali biologici, serramenti isolati, vetri a bassa trasmittanza, cappotti e coibentazione di adeguato spessore, montaggi accurati, impianti raffinati, soluzioni tecnico-costruttive innovative costa. Una casa ecologica in legno permette di abbattere i costi energetici e soprattutto è sorprendentemente piacevole da abitare, non solo come casa per le vacanze.
Una casa in legno, a parità di volumetria, costa meno dell’equivalente tradizionale in muratura, perchè i costi di realizzazione sono inferiori del 30-40%, è più veloce da realizzare, mediamente nell’ordine del 40-70% ed è infine garantita per durare 30 anni invece dei 10 tradizionali. I costi di manutenzione, infine, sono decisamente inferiori.
Ma, per chi guarda prevalentemente all’aspetto economico, una casa prefabbricata in legno non conviene per edifici di metrature inferiori ai 60mq in ragione dei costi fissi di realizzazione che rendono meno convenienti le abitazioni piccole.
La casetta in legno illustrata a sinistra nell’immagine sopra riportata è divisa in 3 vani ed un portico, con spessore delle pareti 58 mm, può essere utilizzata come casa per ospiti, casetta da giardino, sala giochi, sala fitness e grazie allo spessore delle pareti in legno garantisce un’ ottimo isolamento termico ed acustico. Ed al prezzo di € 7.800 esclusi ovviamente i mezzi di scarico e sollevamento, il basamento in cemento, gli impianti elettrico ed idrico-sanitario, le canne fumarie permette di avere un soggiorno/cucina di 20mq, un bagno di 2,2mq ed una stanza da letto di 17mq.
Naturalmente non è nostro intento pubblicizzare alcun costruttore: una ricerca sul Web può fornire una messe copiosa di soluzioni.

Alberto Cazzoli Steiner

L’acqua verde di St. Marcel

Grazie a James Watt i primi sbuffi di vapore annunciavano la rivoluzione industriale mentre le prime colonie ammericane dichiararono l’Indipendenza. Allora fu tutto chiaro: sul Secolo dei Lumi stava per abbattersi la rivoluzione francese. In quegli anni un certo Saint Martin de La Motte, nobile membro dell’Académie Royale des Sciences, compì una ricognizione naturalistica in Valle d’Aosta, e gli accadde così di studiare nel vallone di Saint Marcelun fenomeno naturale detto de l’l’Éve-verta , in patois l’acqua verde, chiamata fontaine verte a causa del colore del suo deposito composto in gran parte da rame mineralizzato all’aria.
Riferì, lo studioso, che rimase estasiato dal colpo d’occhio offerto da vallone: “non credo che una natura così feconda e varia possa offrire uno spettacolo più gradevole, l’entrata del vallone è molto stretta e montagne si innalzano su ogni lato, cascate d’acqua riempiono di terrore al rumore che fanno, ma tra tutto questo spicca questa sorgente che pare di smeraldo, soprattutto quando il sole la illumina con i suoi raggi.
Essa sgorga tra due montagne molto elevate, che formano un vallone laterale alla valle centrale: queste montagne sono in parte calcaree e in parte scistose; quella che si trova sulla destra della fontana è in gran parte composta da mica riempita di granati; vi ho trovato anche delle tracce di schorl con granati. In cima alla montagna si trova una miniera di rame attualmente sfruttata e che viene chiamata filon de Molère; questa miniera, così come il resto della montagna, è ricco in granati; sarebbe auspicabile che lo fosse altrettanto in rame.
La fonte sgorga da una grande roccia calcarea che sembra essersi staccata dall’alto della montagna ed ha coperto una parte del letto della fonte stessa; l’acqua uscendo crea un volume del diametro di poco più di 30 cm (le unità di misura sono riferite al Système international d’unités codificato a partire dal 1889, NdA). Essa si estende per 2 – 2,5 metri nei punti più larghi e dopo aver percorso circa 300 metri tra le rocce e attraversato pendii scoscesi, si perde nel torrente del vallone di Saint – Marcel, da cui prende il nome.
Il legno, le pietre, il muschio, tutto ciò che viene bagnato da quest’acqua è coperto da uno strato di terra verde, dove più e dove meno, a seconda che l’acqua scorra più o meno rapidamente; si nota la colorazione verde persino nei punti in cui l’acqua fa mulinello e si crea la schiuma, ma di colore meno intenso.”
Interpellati in proposito, gli abitanti del posto dichiararono che nel periodo del disgelo l’acqua era più sporca del solito, ma la portata era sempre costante. Relativamente alla qualità dell’acqua, la gente credeva che fosse nociva per gli animali poiché non cercavano mai di berne, ma forse la ragione era dovuta alla temperatura: lo studioso stimò che in acqua fosse 4,5°C contro una esterna di 12°C.
Egli rilevò altresì come l’acqua non fosse né acida né alcalina, non contenesse alcuna sostanza metallica bensì acido vitriolico, terra calcarea, terra magnesiaca ed argilla. Analizzando il deposito lasciato sulle rocce questo risultò composto da una parte estrattiva vegetale, accidentale in quanto dipendente dalle piante che l’acqua incontrava al suo passaggio, circa 1/3 di rame, 1/5 di argilla, 1/10 di terra silicea ed una modesta quantità di terra calcarea.
La relazione del conte Saint Martin de La Motte offre altri spunti. Partendo dall’esistenza di una miniera di rame nella parte alta della montagna, al tempo in fase di sfruttamento unitamente a quelle di ferro prevalentemente per approvvigionare gli arsenali sabaudi, dalla quale sgorgava la sorgente dell’acqua verde. Questa miniera, sfruttata già ai tempi dei Romani, non è un semplice filone che segue la stratificazione della montagna, com’erano le miniere di La Thuile, Cogne o altre, ma una vera montagna di rame e pirite rameica coperta da roccia di diverso genere.
Se la sorgente origina dall’interno della montagna il flusso idrico potrebbe attraversare banchi di minerale decomposto trascinando materiali per forza meccanica. Lo studioso annotò come inizialmente ritenne che il deposito fosse dovuto ad efflorescenza delle pietre erose dall’acqua, ma presto comprese come le particelle di rame, più pesanti, precipitassero in funzione della forza trascinante impressa dall’acqua. Osservò altresì come fosse possibile che le particelle venissero trasportate solamente in determinati periodi dell’anno, per esempio durante lo scioglimento delle nevi.
Salendo lungo il vallone, in località Laveyc o Éve-verta (in patois valdostano Acqua verde) a circa 1290 metri di altitudine, si incontra una sorgente di acque turchesi, la cui colorazione dà il nome al luogo: la particolarità dell’ Éve-verta, ricca di sali di rame, è proprio quella di colorare pietre, terra e muschi su cui scorre depositandovi una patina di quel minerale oggi noto come woodwardite poiché prende il nome Samuel Pickworth Woodward, il naturalista e geologo inglese che la studiò in Cornovaglia determinandone la formula chimica Cu1-xAlx(OH)2[SO4]x/2·NH2O. La woordwardite è diffusa in Tasmania, Tirolo, Nuova Scozia, Boemia, Alsazia, Baden-Württemberg e Westfalia e, in Italia, oltre che in Valle d’Aosta, in Sardegna, Trentino, Toscana e Veneto.
Resterebbe da stabilire, cosa che ancora oggi nessuno ha fatto, quali possano essere le eventuali proprietà curative di quest’acqua che, in ogni caso, è una meraviglia da vedere: il ruscello, il suo fondo, le rocce, le pietre, il legno, il terreno coperti da una sostanza che presenta tutte le sfumature tra il verde ed il blu. Tutto ciò che è sommerso appare di un bel blu cielo, ciò che è parzialmente bagnato è verde, mentre ciò che è asciutto è d’un blu cielo pallido. Lo stesso ruscello scorre su di un fondo colorato.
Ma la sorgente di acqua verde non esaurisce le attrattive di Saint Marcel che, percorrendo l’autostrada e vedendolo di sfuggita, lassù in alto sulla destra orografica della Dora Baltea, nessuno si immaginerebbe che meriti più di un’occhiata distratta…
In realtà il paese, abitato fin dalla preistoria e che in alcune frazioni conserva numerose incisioni rupestri, oltre ad essere molto gradevole, offre prosciutti crudi da urlo, aromatizzati con erbe di montagna ed anticamente preparati con carne d’orso. Il clima asciutto e ventilato ne permette una stagionatura ottimale e se la loro storia si perde lontano nel tempo, l’esistenza ufficiale è comprovata da affreschi risalenti al XV e XVI secolo che li ritraggono.
Naturalmente, a Saint Marcel non poteva mancare un un castello. Uno dei tanti, bellissimi, che costellano la Valle d’Aosta. Questo, detto a monoblocco a definire l’ultima fase evolutiva del castello medievale quando i manieri da semplici fortezze iniziano a trasformarsi in residenze, presenta una costruzione quadrata ed una successiva rettangolare scandite dall’immancabile torre.
Eretto nel villaggio di Surpian ad opera di Giacomo di Challant verso il 1500 ampliando una preesistente casa forte, il castello è inquadrabile tra le installazioni che permettevano di controllare il fondovalle. E, come in ogni castello che si rispetti, non possono mancarvi i fantasmi.
Ma non è finita. Tra le attrattive di Saint Marcel vi sono, situati nella parte alta del vallone, i giacimenti manganesiferi di Praborna, a 1900 metri di altitudine e quelli ferrosi-cupriferi di Servette e Chuc, che fanno parte di un complesso minerario noto e sfruttato intensamente nei secoli passati ed oggi abbandonato. Le tracce delle attività estrattive industriali sono ancora visibili lungo i sentieri, nei boschi e nelle antiche gallerie parzialmente crollate e coperte di vegetazione, costituendo oggi un patrimonio di archeologia industriale meta di numerosi turisti.
Saint Marcel, il cui vallone ospita rare varietà floristiche, fa infine parte della Riserva Naturale Les Îles, una zona umida vicino alla Dora istituita nel 1995 e che comprende anche i territori di Brissogne, Nus e Quart.

Alberto Cazzoli Steiner

Per fare finanza solidale servono onestà e concretezza

Abbiamo immaginato di voler acquistare in gruppo un’azienda agricola e di renderla produttiva grazie a metodi biologici e naturali che ci permettano di ottenere prodotti qualitativamente migliori e soprattutto nel pieno rispetto dell’ambiente.
Abbiamo anche immaginato di non voler avere nulla a che fare con situazioni tipo Parmalat, Cirio, Argentina, Banca 121 e tante altre che hanno segnato la memoria, e le tasche, di tanti risparmiatori.
Dall’immaginazione all’idea: investiamo il nostro capitale nel bene rifugio per eccellenza, la terra, e dedichiamoci a un’attività economica pulita sul piano ecologico ed etico.
Terra significa campi, orti, prati, boschi. Ma anche edifici, abitazioni, condivsione di spazi. Ed ecco inventato il cohousing. Ma può significare anche condivisione di interessi ed attività, ed ecco, per fare un esempio, il gruppo di acquisto solidale, quel pool di persone che decidono di acquistare insieme alimentari e beni di uso comune, solitamente di produzione biologica, eco-compatibile e solidale.
Può infine significare turismo responsabile e rispettoso del territorio, ed ecco inventato l’albergo diffuso. E se non ci dimentichiamo degli spazi e delle iniziative legate al benessere fisico e spirituale ecco, chiamiamola così per praticità, la componente olistica, magari legata alla presenza di acqua dotata di caratteristiche particolari.
La differenza tra questa iniziativa e l’investimento tradizionale, sta nel fatto che per aderire non si affidano i propri capitali ad un consulente o promotore finanziario, ad una sim o ad una banca, ma si uniscono le proprie risorse a quelle degli altri entrando a far parte di una società gestita da un normale consiglio di amministrazione formato dai soci.
Tale strategia permette ad un certo numero di risparmiatori di acquistare insieme un fondo, un terreno agricolo di una certa consistenza a un prezzo per ettaro in linea con il mercato. Oppure a costi inferiori se chi promuove l’iniziativa è in grado di reperire terreni ed immobili a prezzi inferiori a quelli di mercato, per esempio perché sottoposti a procedure esecutive. Però… però, però… si, effettivamente essere in gruppo è bello, ma un piccolo gruppo è pur sempre qualcosa di minuscolo: può incontrare difficoltà operative o finanziarie, vincoli commerciali.
E allora pensiamo in grande, ed ipotizziamo adirittura la costituzione di un Fondo, che è proprietario di una parte di tutti i terreni, i borghi recuperati e le aziende agricole, e del quale i risparmiatori investitori sono a loro volta comproprietari. La misura del Fondo permette una gestione altrimenti impossibile con un piccolo appezzamento, e in più la forma societaria delle singole srl agricole consente di superare problematiche di ordine fiscale garantendo l’investimento del risparmiatore.
Attualmente la legge italiana consente iniziative di questo genere, pur se in modo invero macchinoso e con tempi biblici per poter presentare i progetti, superando pareri, opinioni, e talvolta vere e proprie ubbìe, di comitati di comprensorio, territorio, quartiere, vicolo, pianerottolo. Il nostro è ormai diventato il paese dove si parla, dove si aprono i tavoli, tutti si aspettano che sia qualcun altro ad apparecchiarli, e alla fine nessuno li sparecchia o li richiude…
E’ possibile semplificare le cose, anche sotto il profilo fiscale, costituendo il Fondo in un Paese europeo: no, non stiamo parlando di paradisi fiscali o di altre amenità, stiamo parlando di un Paese, sicuramente extracomunitario, sicuramente a nord delle Alpi, sicuramente ad ovest del Danubio, attento alle istanze ecologiche più di quanto i mezzi di informazione nostrani facciano credere, dove la finanza costituisce il pane quotidiano, dove l’imprenditoria è supportata anziché essere svantaggiata da norme incomprensibili, balzelli medioevali, ruberie di vario genere. Dove il gravame fiscale è chiaro, certo e non provoca emorragie.
Tra i propositi del Fondo, naturalmente, vi sarà anche quello di rispettare le tipicità territoriali differenziando le destinazioni produttive a seconda di dove avvengono gli acquisti dei terreni. Quindi frumento duro e tenero nella pianura padana piuttosto che raccolta di funghi, frutti spontanei ed erbe officinali in area boschiva, pascoli, uliveti e vigne dove fanno parte della storia del territorio.
La struttura del Fondo prevede un investimento complessivo ripartito in quote, ed ogni partecipante potrà acquistarne, per singola operazione, sino ad un massimo che non conferisca nessun tipo di prevalenza rispetto agli altri soci, questo per evitare eventuali tirannie di pochi assicurando uguaglianza a tutti gli aderenti. Ovviamente si tratta di un modello base, adattabile alle singole situazioni.
Per finire, il ricorso al credito ordinario sarà attuato nella misura minima possibile e, se possibile, evitato. Per quanto riguarda il credito agevolato sarà possibile fruirne a condizione di non dover sposare nessuno sponsor politico.
La nostra iniziativa sta riscuotendo interesse da molte regioni e da molti gruppi intenzionati ad acquistare un terreno, un’azienda agricola, o a recuperare edifici rurali dismessi: lo provano le numerose richieste informative che ci pervengono.
L’intenzione è quella di diffondere l’iniziativa non escludendo la collaborazione, in parte già in atto, con alcune amministrazioni locali, enti ed organismi preposti alla tutela ed allo sviluppo del territorio, come per esempio sta avvenendo in Valtellina e sulla sponda gardesana orientale.
La nostra iniziativa, sicuramente variegata poiché comporta imprese basate sulla coltivazione naturale, la rivalutazione ambientale, la creazione di centri di educazione ambientale e agriturismo naturale, strutture che permettano di vendere i prodotti senza intermediari in modo da ottimizzare i margini, prevede per sua stessa natura un impegno finanziario etico e solidale.

Alberto Cazzoli Steiner

Giù le mani dalla nostra acqua!

Nella valle dei Ratti gli abitanti di Frasnedo e degli altri borghi sono riusciti, attraverso una protesta composta e civile, a mantenere il controllo delle proprie fonti di approvvigionamento idrico.
Giù le mani dalla Valle dei Ratti! questo lo slogan che campeggiava su manifesti e striscioni affissi ovunque in Valchiavenna e Valtellina, lungo la strada dello Spluga, nei punti cruciali del Pian di Spagna ed in tutti i comuni della provincia, per esprimere il deciso diniego della gente del luogo alla possibilità di privatizzare l’acqua del torrente Ratti e degli altri della provincia dall’assalto della speculazione per finalità idroelettriche.
Tutto partì dopo che la Regione Lombardia, nel dicembre 2007, escluse dalla procedura di valutazione d’impatto ambientale gli interventi previsti da un progetto di derivazione a scopo idroelettrico del Torrente Ratti nei Comuni di Novate e Verceia, presentato dalla SEM, Società Elettrica Morbegno.
L’Unione Pesca Sportiva di Sondrio presentò per prima un ricorso, puntualissimo ed articolato, motivando come il tratto della Valle dei Ratti interessato dalla richiesta, circa 7 km della parte alta, fosse assolutamente incontaminato e di grande e selvaggia bellezza, tanto che in esso ben due ambiti di elevata naturalità formano rispettivamente un Sito di Interesse Europeo (SIC) ed una Zona di Protezione Speciale (ZPS) appartenente a rete Natura 2000. Avverso la decisione regionale, tra l’altro contrastante con gli obiettivi perseguiti dall’Accordo sottoscritto da Ministero dell’Ambiente, Autorità di Bacino del fiume Po, Regione Lombardia e Provincia di Sondrio per la sostenibilità dell’utilizzo delle risorse idriche, si unirono immediatamente la Provincia di Sondrio e la popolazione locale, corroborati da perizie e studi effettuati da geologi ed ingegneri idraulici.
L’obiettivo era non solo di far fronte comune per respingere l’ennesimo assalto alle acque locali ma anche di portare a conoscenza della comunità la vicenda affinché costituisse un monito rivolto alle istituzioni e alla  popolazione valtellinese perché non abbassasse la guardia, in una fase storica ben anteriore al referendum del 2011. Una inequivocabile dimostrazione che il coinvolgimento trasparente paga.
In margine alla vicenda, merita un accenno il fatto che l’AEM, Azienda Energetica Milanese ora A2A, chiese 200.000 euro di danni e la distruzione del libro Acque Misteriose scritto da Giuseppe Songini che, deceduto nel 2011, a buon diritto può essere considerato l’ispiratore del Movimento Spontaneo di Difesa delle Acque Valtellinesi.
La richiesta aveva suscitato una certa eco anche sulla stampa nazionale, in particolare ne scrissero La Repubblica e Il Riformista, poiché inconsueta e legata al ricordo di tempi in cui l’informazione subiva il vaglio della censura. Il Tribunale di Sondrio assolse con formula piena autore ed editore condannando invece AEM al pagamento delle spese legali.
Una sentenza emblematica, che riguarda peraltro l’intera comunità di Valtellina e Valchiavenna e costituisce un significativo precedente.
Per decenni è passata sotto silenzio una situazione anomala che ha permesso, per lunghi periodi, la sottrazione di quantitativi molto superiori di acqua dagli invasi rispetto a quanto stabilito nelle originarie convenzioni sottraendo una delle principali risorse della montagna lombarda, con elevatissimi costi ambientali e paesaggistici, oltre alla beffa di dover pagare l’energia elettrica come i cittadini di Torino, Como o Milano.
Il tema delle acque in provincia di Sondrio ruota intorno a diversi filoni fortemente interconnessi: le dighe e i grandi impianti, i prelievi in esubero rispetto alle concessioni, i canoni e sovraccanoni, il piano di bilancio idrico provinciale, i produttori di energia elettrica, il demanio idrico, il deflusso minimo vitale, il PTA Piano di Tutela delle Acque, il rinnovo delle concessioni di grandi e piccole derivazioni, ed infine l’acqua pubblica ne sono solo alcuni esempi.
Sembra che nel destino karmico della Valtellina vi sia questo essere costantemente terra di confine, perennemente a rischio ma sempre in grado di respingere attacchi; forse per questa ragione la gente è schiva ma quando si tratta di partecipare a temi concreti non si tira indietro, senza clamore o barricate ma con estrema determinazione.
Le biblioteche di Chiavenna, Morbegno, Sondrio, Tirano e Bormio si sono attrezzate per fare in modo che i cittadini desiderosi di documentarsi possano capire, formandosi un’opinione obiettiva su tematiche spesso volutamente trattate con un linguaggio tecnico esageratamente complesso, una raffinata strategia per tagliare fuori la gente dalla comprensione di cosa sta succedendo.
La storia dell’acqua in provincia di Sondrio è una storia affascinante e in molti casi ancora sconosciuta. Ed ogni volta che ci rechiamo in Valtellina abbiamo la sensazione di entrare in un ammirevole mondo di fierezza e senso di identità.
Alberto Cazzoli Steiner

La palma dell’acqua è una canzone per bambini: ha molto da insegnarci

La palma dell’acqua è una canzone dello Zecchino d’Oro 2011, molto significativa per il tema trattato:

Ma che bella storia che vi racconterò: la storia di una bimba in cerca di un torrente, sopra le montagne un giorno se ne andò a  prendere dell’acqua per tutta la sua gente.

“Riempi questa brocca”, le disse suo papà “Non perdere una goccia, è il bene più prezioso”.

Dallo Zecchino d’Oro 2011 una canzone interpretata da Amelia Fenosoa Casiello ci parla di quanto l’Acqua, per noi così comune da giungere a sprecarla senza pensarci, sia in realtà preziosa, e di come ogni bene a tutti faccia bene ove amorevolmente condiviso.

Perché gli umani, ad onta di ciò che alcuni di essi ritengono, non sono affatto i proprietari di ciò che Madre Terra mette a disposizione con Amore. A condizione di trattare questi doni con Rispetto.

Le vacanze migliori? quelle più semplici

Stanno arrivando le festività natalizie e ci ritorna in mente la storiadi due famiglie che avevano provato a far le vacanze insieme. La famiglia A ci aveva provato, un paio di volte, a trascorrere le vacanze con la famiglia B. Non funzionava. Tra le molteplici differenze una era proprio insopportabile: quando si trovavano in un certo luogo i B parlavano invariabilmente di come sarebbe stato bello essere in un altro posto.
Immaginatelo: siete insieme in un bel rifugio in montagna a gustare porcini e loro, invece di assaporarli, continuano a discettare su come sarebbe bello essere al mare in quel tal posto dove fanno così bene il pesce…
E poi si fa presto a dire andiamo altrove: un vero viaggio richiede piccoli passi, con la mente aperta e svuotata, gli occhi che scrutano con la meraviglia del bambino, i cibi inediti, le chiacchiere con sconosciuti, il piacere di smarrirsi sprecando tempo, l’ascolto dei silenzi compresi quelli interiori. La famiglia B invece no, insegue il dover fare, l’accelerazione, la saturazione mentale. “La vacanza costa, facciamola rendere!” Così anche in vacanza si affanna, e torna più stanca di prima.
Ad esempio, cosa mai spingerà la famiglia B a passare ore e ore in aereo, cambiare continente e fuso orario per poi trovare, sotto un cielo diverso, le stesse esperienze che troverebbe qui? La stessa discoteca con le stesse musiche che troverebbe in Romagna, la stessa piscina al cloro di qualche comune del milanese (però qui di fianco c’è l’oceano, mica il Lambro), gli stessi vassoi con quantità esagerate di cibo industriale praticamente uguali a quelli che la pro-loco del varesotto compra al cash and carry per le sue sagre (qui però, vuoi mettere? arrivano dall’Europa in aereo, con grande spreco di soldi, carburante, intelligenza…). Oltretutto la famiglia B non mette il naso fuori dal recinto del villaggio-vacanze se non per qualche tour organizzato e, quando torna a casa, non ha la più pallida idea di come siano persone, mercati, odori, colori del paese che ha visitato.
La famiglia A preferisce cercare un vero altrove.
E’ inutile cercarlo agli antipodi del pianeta se non lo sappiamo trovare dentro noi stessi: occorre decelerare, risvegliare i sensi, reimparare a godere ciò che sta succedendo. Qui e ora.
Non occorre andare lontano. In fondo siamo in Italia, giardino d’Europa e museo del mondo, sicuramente un po’ bistrattato ma guardiamo il bello, che c’è, invece di sfinirci a sfrucugliare su ciò che non funziona; Possono bastare pochi euro di treno e due panini per essere i turisti più ricchi della Terra. E infatti c’è un altro motivo per cui la famiglia A quest’anno resta in Italia, la crisi. La questione non è solo spendere meno, è molto importante anche spendere in modo che quei soldi girino tra noi, nell’economia a km zero, senza finire negli hotel delle grandi catene e da lì in qualche altrove di tutt’altro genere.
Noi siamo dalla parte della famiglia A: guardiamo bene ogni banconota che spendiamo nelle vacanze, con quei soldi siamo convinti di contribuire a plasmare il nostro bel paesaggio migliorandolo premiando agriturismi, ristorantini, vigne, aranceti, uliveti… piuttosto che peggiorarlo finanziando gli albergoni di cemento sulle coste ed i vacanzifici del divertimento coatto.

Alberto Cazzoli Steiner

Campo di Brenzone: le nostre idee per il suo recupero

In quanto rispettosi del territorio e delle identità culturali suggeriamo un’ipotesi su cui lavorare: non albergo diffuso sic et simpliciter, bensì l’attuazione di una realtà residenziale in cohousing e, tra gli spazi di proprietà comune, quelli destinati all’attività ricettiva.
Cohousing, ovvero comunità coresidenziale, significa che ciascun nucleo familiare vive in uno spazio di proprietà esclusiva, condividendo spazi comuni pensati per lo svolgimento di un’attività collettiva: biblioteca, ludoteca, lavanderia e via enumerando. Perché non un albergo diffuso? o, addirittura, la possibilità per chi lo desidera di aprire la propria casa ad un’attività di Bed & Breakfast, con l’albergo diffuso a coprire un ventaglio di esigenze ulteriormente ampio.
In buona sostanza, alcune persone o nuclei familiari acquisterano una casa o un appartamento (dipende dalle singole esigenze e dalle possibilità che emergeranno relativamente alla suddivisione degli spazi in sede progettuale) condividendo nel contempo la proprietà degli spazi destinati all’attività alberghiera. Questa soluzione potrà altresì consentire la creazione di posti di lavoro, tutelando nel contempo l’ambito territoriale ed evitando che l’iniziativa assuma la connotazione di un presepe o di una Disneyland avulsa dal contesto come fin troppe ormai ne esistono, per esempio in Toscana.
Ci rendiamo conto che panorama, antiche case arroccate ed ulivi secolari non bastano ad attirare persone. Windsurf, vela, mountain-bike possono essere praticati non essendo necessariamente residenti a Campo. Che fare quindi per attrarre turisti, possibilmente non mordi-e-fuggi? L’idea è quella di strutturare percorsi di benessere fisico e spirituale: attività olistiche, meditative e naturopatiche, preparazione e vendita di prodotti naturali a base di olive, olio, miele, risorse del bosco (per alimentazione, erboristica, cosmetica e via enumerando) organizzazione di eventi, disponibilità di spazi per singoli e gruppi che intendano organizzarvi convegni, incontri e seminari tematici, e magari un luogo dove, favorendo l’avvicinamento all’alimentazione naturale, ritrovare i sapori della tradizione locale, beninteso senza dimenticare quel prezioso corpo fruttifero ipogeo, come viene definito nei trattati naturalistici, che gli intenditori sanno bene dove trovare sulle pendici del Monte Baldo: il tartufo.
Questa possibilità si sposa, a nostro avviso, con un’ipotesi a suo tempo ventilata: costituzione di un nucleo permanente di artisti, in una fucina di creatività a contatto con la natura e lontana quanto basta da traffico veicolare, rumori ed altre fonti di disturbo.
Se, infine, la distanza tra Campo ed i principali centri limitrofi: Rovereto e Trento, Verona, Desenzano e persino Brescia, potrà consentire ai residenti di recarsi agevolmente al lavoro, la connotazione ecosostenibile del borgo potrà permettere lo sviluppo di un mercato a km zero che promuova i prodotti locali, magari attraverso l’accorpamento ad uno dei numerosi Gruppi di Acquisto Solidale presenti sul territorio.

Alberto Cazzoli Steiner