Borghi abbandonati: time expired, non ci sono più scuse.

Il caso più eclatante è costituito da Civita di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, il borgo eretto sulla precaria altura situata su una platea tufacea nel quale vivono dodici abitanti che, a quanto risulta, sta crollando perché i banchi argillosi che la sorreggono sono soggetti a continua erosione.Old town of BagnoregioIl compendio dei borghi abbandonati ecochic comprende i soliti Fabbrica di Careggine, Craco, Bussana Vecchia, per citarne solo alcuni altrimenti non la finiamo più.
Ma, nel novero degli oltre ottomila censiti da un serio e attendibile lavoro del Censis, ve ne sono altri sicuramente meno celebrati ma non meno affascinanti, a partire da Galeria, nell’Agro Romano e, vagando di bosco in bosco e di sentiero in sentiero, lungo l’Appennino Piacentino e quello Parmense, in Valtellina piuttosto che nella valle del Sile o in Umbria.
Tenendo conto del fatto che i Comuni italiani sono 8.045, più o meno quante sono le Stazioni dei Carabinieri, è come se ogni comune avesse un borgo abbandonato che attende di essere riportato a nuova vita.
Il Medioevo prossimo venturo (ne ho scritto l’ultima volta il 20 marzo 2015: Medioevo prossimo venturo? È già arrivato, leggibile qui) del quale da anni vagheggio, o pavento secondo quelli che mi danno della Cassandra, è indiscutibilmente non più prossimo ma già fra noi: lo dimostra una nuova schiatta di camminanti (ne ho scritto il 13 maggio 2015: Montagna: giovani imprenditori, attenti ai nuovi camminanti! leggibile qui) prevalentemente transfughi dai centri sociali urbani che, appropriatisi di ruderi boschivi, ne hanno fatto la loro residenza e girano per le campagne raccogliendo ciò che trovano per garantirsi un minimo di sopravvivenza. Certo, i tiggì non ne parlano, non fa incazzare, non suscita odio e quindi non fa notizia.
Per quanto mi riguaeda, e per quanto quelli dei centri sociali mi stiano cordialmente sulle palle, devo convenire che costoro sono i nuovi tutori, guardiani, sorveglianti del territorio. Non fosse altro che per il fatto che, se la croda sta per crollare sulle loro nuove case, mettono in atto le necessarie misure per non essere sepolti, loro, i loro bambini e i loro animali più o meno domestici.
Certo, se vi dovessero invitare a cena potete fare a meno di indossare la dinner jacket ma, sinceramente, chissenefrega.CC 2016.04.13 Abbandonati 002Dunque, per farla corta la situazione è questa: abbiamo borghi abbandonati che attendono solo qualcuno che li riporti a nuova vita, in linea di massima non occorre acquistarli ma solo okkuparli per occuparsene.
Non ci sono solo case, ma anche terreni che possono essere ripristinati: la cura del bosco, la coltivazione, l’allevamento.
Una volta occupato il fondo, a condizione che sia realmente abbandonato e non reclamato da nessuno, costituito un comitato (è sufficiente attestarlo, almeno inizialmente non occorre nemmeno andare da un notaio) e notificata la propria presenza in comune con un programma di attività, sviluppo eccetera eccetera, è anche possibile che – trasformato il comitato in associazione senza fine di lucro – si possa chiedere qualche sovvenzione: per la ristrutturazione, per l’impianto di energie rinnovabili, per la tutela di specie vegetali o animali a rischio di scomparsa.
E intanto si inizia a lavorare, si mandano i bambini all’asilo o alla scuola del paese, ci si inserisce nella comunità. Addirittura si può diventare un punto di riferimento.
Insomma, ci si dà da fare. È forse per questa ragione che, dagli incessanti blablabla, dai vorrei, non vorrei, ma se vuoi, dai mi piacerebbe tanto, quando si fanno proposte concrete che presuppongono il rimboccarsi le maniche nessuno le accoglie?

Alberto C. Steiner

Siegi am Stilfserjoch

Vi sono persone che ad un certo punto trovano il coraggio di ascoltarsi, e scelgono.CC 2016.03.07 Siegi 003Una di queste è Siegi: ha lavorato in banca per un quarto di secolo, giù in valle, e quando è morto suo padre ha sentito il bisogno di ritrovare il contatto con la natura tornando al paese, dove vivono prevalentemente gli anziani perché i ragazzi se ne vanno per studiare e spesso non tornano più. 500 anime a 1.300 metri di altitudine dominati dal massiccio dell’Ortles con i suoi 3.905 metri e le sue nevi perenni.
A sud l’Adamello e la Valcamonica, a ore sette la Valtellina, a ore nove i Grigioni e il Bernina, a est la Vinschgau che, all’orizzonte, si apre sulla piana di Merano.CC 2016.03.07 Siegi 002Stilfs, in italiano Stelvio: un luogo molto diverso dai presepi altoatesini. Qui c’è una sola strada, quella che passa sotto il Dreisprachenspitze – in italiano banalmente Cima Garibaldi, che forse millantò di aver dormito anche qui – con le sue rampe ed i suoi quarantotto tornanti ancora considerata palestra dell’ardimento da trogloditi che per dimostrare quanto sono cazzuti la percorrono in moto e in auto, strappando urla strazianti ai motori tirati allo spasimo o imballati da inutili scalate. E ogni tanto qualcuno frena troppo tardi.
Per il resto si va a piedi fra boschi, costoni e prati quasi verticali, ed è qui che Siegi si dedica totalmente alle erbe, che coltiva e raccoglie nei campi a duemila metri, di proprietà della famiglia da generazioni e mai concimati con sostanze chimiche o sintetiche, per cucinare e per farne tisane, medicamenti o cosmetici. Ha ottenuto il permesso di raccogliere alchemilla, biancospino, borsa del pastore, crespino, eufrasia, olivello spinoso, prugnolo, rosa canina e, in più, d’estate sfalcia i prati per raccogliere il fieno, che è riuscito a far certificare come “Fieno d’alta montagna Sudtirolese”. Durante l’essiccazione l’inebriante profumo delle 40 diverse qualità si confonde con quello del legno stagionato.CC 2016.03.07 Siegi 001Siegi è noto anche per allestire, ogni estate, una specie di palcoscenico sul tetto del suo maso, destinato ad ospitare concerti. Questa iniziativa ha un nome: Stilfs Vertikal, Stelvio Verticale.
Nel maso, e nella Stube, accoglie anche gli ospiti ai quali fa assaggiare le sue proverbiali tisane e qualche bicchiere di Blauburgunder, di Traminer o di grappa con erbe capace di resuscitare i morti.
Molti vengono ad aiutarlo nel periodo della raccolta, in cambio Siegi offre vitto e alloggio. Vengono da Austria, Germania, Svizzera e persino da Finlandia e Olanda. Dall’Italia se ne vedono ben pochi.

Alberto C. Steiner

Parco Sud Milano: e se le case di riposo diventassero fattorie?

Il Parco agricolo Sud Milano, area estesa per 46.300 ettari che interessa il territorio di 61 comuni,  comprende le tre antiche abbazie cistercensi di Chiaravalle, Mirasole e Viboldone, alcuni castelli, storici complessi agricoli fortificati e ben 1.400 aziende agricole.CC 2016.02.26 Parco Sud 001Il Parco Sud ha visto molte idee, tanti progetti, convegni a non finire ed i suoi prati sono stati idealmente calpestati da innumerevoli passerelle elettorali. Ma ancora oggi stenta a decollare una seria attività di coordinamento che muova da un’univocità di intenti, tanto è vero che ogni tanto qualcuno si pone delle domande. Per esempio il Comune di Cesano Boscone, che il 29 gennaio scorso ha organizzato la serata di informazione  “Il Parco Agricolo Sud Milano ha un futuro?”, momento di confronto pubblico pensato per conciliare l’ambito agricolo e quello cittadino, ricercando provvedimenti strutturali per diminuire le emissioni e per far conoscere le ricchezze di un territorio che può consentire l’avvio di nuove economie, basate sulla valorizzazione del made in Italy e del capitale umano. Insieme con agricoltori (pochi) ed istituzioni (scarse) vi hanno preso parte Giovanni Gottardi del WWF, Renato Aquilani dell’Associazione per il Parco Sud Milano, Domenico Finiguerra di Salviamo il paesaggio e Michela Palestra, Presidente del Parco.
Insomma: Nihil sub sole Novi Ligure, direbbero in provincia di Alessandria…
Fortunatamente il territorio del Parco comprende anche realtà dove non si convegna e non si chiacchiera ma si lavora concretamente e senza bisogno dei riflettori. Per esempio la Comunità Nocetum: questo luogo di spiritualità, accoglienza e condivisione situato nella Cascina Corte S. Giacomo, all’estrema propaggine meridionale di un quartiere da sempre considerato difficile, il Corvetto, promuove la connessione tra città e ambito rurale accogliendo al proprio interno un alloggio per donne in situazione di disagio e fragilità sociale e per i loro bambini ed organizzando percorsi didattici per scuole e gruppi, attività di volontariato ed iniziative per favorire l’integrazione, la coesione sociale e la valorizzazione del territorio.CC 2016.02.26 Parco Sud 002Ma anche altri nel Parco, per esempio mentre a Milano si inaugurava la monumentale esposizione sul cibo di plastica, continuavano a lavorare silenziosi, su piccola scala, attenti alla qualità e alle relazioni umane: agricoltori, gruppi, associazioni e reti che credono in un modo diverso di produrre, distribuire e consumare cibo. Sarà l’energia dell’ora et labora che ancora, a distanza di secoli, emana da quella terra? Chissà, può essere…
Alcuni progetti interessanti potrebbero riguardare la possibilità di far incontrare anziani e giovani per dialogo e scambio di conoscenze ed insegnamenti in un’ottica di aiuto reciproco, anche economico. Oggi sono considerati mondi lontani l’uno dall’altro, per via dell’età e degli spazi e dei momenti passati insieme, ma una volta accadeva spontaneamente: dove andava a vivere il giovane universitario fuori sede? A casa della vecchia zia che stava proprio nella stessa città sede della Facoltà. Oggi che l’assottigliamento delle vecchie zie ha assunto connotati preoccupanti, si potrebbe riscoprire ex-lege quello che il buon senso intergenerazionale aveva sempre dato per scontato. Ed ecco, per esempio, un centro di alloggio per anziani dove gli studenti potrebbero soggiornare gratis in cambio di un monte ore da dedicare a compagnia e supporto degli ospiti. E i ragazzi risparmierebbero almeno 500 Euro al mese di affitto insegnando, che ne so, l’uso di internet ed e-mail od organizzando il tempo ai nonni putativi i quali (non si sono assottigliate solo le zie, ma anche i nipoti, complice il drastico crollo delle nascite) sarebbero felici di chiacchierare con i ragazzi.
E se in questo mélange generazionale – lasciando stare l’ipotesi di trovare una zia ricca e sola, senza eredi e che veda nel giovane virgulto un perfetto erede da adottare – ci si inventasse una home farm e la casa di riposo diventasse una fattoria urbana? Dov’è scritto che la terza età debba essere considerata una specie di parcheggio in attesa della morte?CC 2016.02.26 Parco Sud 003Trasformare una casa di riposo in fattoria urbana non sarebbe difficile: gli anziani avrebbero un ruolo attivo coltivando frutta e verdura per autoconsumo e per la vendita. A costo quasi zero sarebbe terapeutico anche sotto il profilo della forma fisica, visto che è noto come essere attivi, avere dei progetti e vederne i risultati mantenga giovani, giovi all’umore e al fisico. Sembra un’ovvietà? Certo, lo è. Proprio per questo basta poco per trasformarla in realtà, oltretutto contribuendo alla tutela del territorio ed al recupero di edifici altrimenti destinati ad un progressivo degrado.

Alberto C. Steiner

E il Maestro disse: in Real Estate we trust

Fu un’operazione immobiliare condotta magistralmente. La leggenda dice che grazie ad uno dei soci fondatori, di famiglia benestante, che monetizzò un prezioso dipinto presso Sotheby’s, fu possibile acquistare alla fine degli anni ’90 un vasto appezzamento di terreno sulle colline dell’entroterra romagnolo recuperando gli edifci e creando un centro di meditazione che aveva tutte le caratteristiche del resort di lusso: ristorante, pizzerie, lounge bar, discoteca, piscine. Oltre agli spazi dedicati alla meditazione beninteso.
Il lavoro svolto da volontari che, in cambio della propria opera godevano di vitto, alloggio, argent de poche ed accesso alle meditazioni contribuì a contenere i costi, i programmi interessanti e l’apertura del centro anche ad esterni mantennero alto il fatturato.CC 2016.02.17 in Real Estate we trust 001Oggi il complesso chiude: necessità strutturali alle quali non è possibile far fronte, insostenibilità dei costi, difficoltà di reperire woofers faranno sì che a primavera, in luogo della riapertura, verrà celebrata una festa di addio e il sito verrà definitivamente trasformato in un luogo di ricettività alberghiera con una quota di superficie pensata per una residenza in cohousing e per attività collaterali di stampo editoriale, formativo ed artigianale.
Mi dispiace. Perché era un posto bellissimo e perché uno dei fondatori mi piaceva molto: era un vero e proprio zanza, un furbacchione come si dice a Milano, ma sincero. Con i suoi baffetti da sparviero ed il suo sguardo da tombeur de femmes ti diceva che ti stava fregando, e te lo diceva con chiarezza. Stava a te decidere se credere o meno a ciò che lui si divertiva a proporre, compresi i costosissimi corsi della light impulsive university of love che si era inventato, riconosciuta da se stessa e, si vabbè, dal solito Sicool e da Conacreis….
Tra la fine del 2015 e l’inizio di questo 2016 circostanze legate alla mia professione mi hanno condotto ad interessarmi di immobili circostanti i più affermati centri di meditazione della Penisola: sino a non molti anni fa c’era la corsa all’accaparramento di case vicine allo spirito ed all’energia del Maestro, chiunque egli fosse.
Non infrequentemente il maestro in questione, previdente e – oh poppacco, illuminato! – aveva fatto incetta di edifici e terreni, normalmente rurali, vicini al centro. Spesso veri e propri ruderi ma i cui prezzi subivano un’impennata grazie alle richieste ed agli scambi tra adepti. Ristrutturazione e arredamento erano spesso pilotati attraverso imprese di altri confratelli, sodali, correligionari o come li vogliamo chiamare. E il bisnèss era assicurato, portando non infrequentemente benefici anche all’indotto degli immobili e delle attività sul territorio, quelle gestite da coloro che i meditazionisti militanti definiscono i normali.
Oggi, come cantava Battisti, tutto questo non c’è più: gli scambi immobiliari languono, nessuno riesce a vendere immobili spesso infognati in boschi privi di servizi e comode vie d’accesso. E quindi ciao.CC 2016.02.17 in Real Estate we trust 002Mi limito ad enumerare i casi della cittadella di Cisternino, l’ashram aperto negli anni Settanta da Lisetta Carmi in valle d’Itria, nel nome del maestro Babaji che in India l’aveva fulminata: “Ci occorrono mano d’opera, risorse economiche. Benvenuto chiunque voglia aiutare per le ristrutturazioni e con donazioni in denaro” dichiarava nel febbraio 2015 alla Gazzetta del Mezzogiorno.
O quello della comunità di Damanhur, a Baldissero Canavese: deceduto il fondatore e dominus sta facendo la fine della Jugoslavia del dopo Tito.
O il villaggio Hare Krishna di Medolago, nella Bassa Bergamasca, per non parlare di Ananda, il centro vicino Assisi creato dai seguaci di Paramahansa Yogananda.
O il centro di Osho a Miasto, o l’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia, per finire con l’Albagnano Healing Meditation fondato nel 1999 dal Lama tibetano Gangchen Rinpoche, affacciato sul Lago Maggiore in provincia di Verbania.CC 2016.02.17 in Real Estate we trust 003Anche in ambito urbano si assisteva, sino a non molti anni fa, al fenomeno di chi acquistava casa in prossimità del centro di meditazione: a Milano presso due centri di Osho, a Firenze gravitando attorno ad una delegazione della comunità di Damanhur, a Roma nei pressi di numerose congreghe.
Intendiamoci: il fenomeno era presente anche a San Giovanni Rotondo o alla Verna, per citare solo due fra i maggiori luoghi di aggregazione della fede cattolica.
Le motivazioni sono diverse, ciascuna connotata da un’impronta personale, e non sta a me fare sociologia d’accatto. Io mi limito ad evidenziare un fenomeno immobiliare e, lo ammetto, non senza un lieve sorrisino sardonico.
Ma le mie considerazioni personali sono fatti miei. Per quanto mi consta, in questo ambito ho progettato con successo, alcuni anni fa, la ristrutturazione finanziaria ed immobiliare di un complesso mistico sciamanico in provincia di Verona che stava andando alla malora in ragione delle manie di grandezza delle titolari; ho sudato le proverbiali sette camicie per ottenere mille euro di fondo spese in luogo delle diecimila che a chiunque altro avrei fatturato per il progetto di recupero di un centro milanese: ma i suoi promotori erano convinti che cemento, infissi, scossaline ed oneri di urbanizzazione potessero essere pagati attraverso l’infusione dello spirito del Maestro ed ovviamente non si è combinato nulla; ho proposto il recupero di un appezzamento nell’Alessandrino e fui guardato con malcelato disprezzo quando spiegai che intendevo solo svolgere il mio ruolo di progfessionista ma non partecipare: è stato bello, teniamoci in contatto, chiamo io. Queste tre esperienze mi sono state sufficienti.
Un caso a parte, assolutamente controcorrente proprio perché non promana dall’energia mistica od estatica di qualche guru bensì dall’unione di risorse laiche in un ambito olistico marcato da profonda professionalità, si trova in provincia di Piacenza: ecovillaggio, cohousing, centro di formazione senza la pretesa di fornire lauree od attestati di dubbia efficacia, complesso agrituristico di notevole qualità, vasto appezzamento coltivato all’insegna della concretezza e della cultura del lavoro. E questo è quanto. Peace&love.

Alberto C. Steiner

Torino: coabitare nel bosco a pochi passi dalla città

Sotto la basilica di Superga un lungo sentiero percorre i boschi della collina torinese: è l’Anello Verde, che collega la valle di Reaglie con quella del Cartman. Un percorso amato dagli escursionisti ed un sistema del verde che unisce fiumi e collina valorizzando il bellissimo ambiente naturale.CC 2016.02.14 Reaglie 001
Reaglie è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici dalle stazioni di Porta Nuova e Porta Susa, e in questa località – amministrativamente compresa nel territorio comunale torinese – un’associazione ha individuato un’antica casa di campagna risalente al XVIII Secolo nella quale realizzare un’esperienza di coabitazione.
Accade raramente di incontrare persone che desiderano vivere il più possibile immerse nella natura pur mantenendo la normalità della vicinanza e dei legami con la città, preservando l’indipendenza degli spazi abitativi privati al fine di tutelare l’intimità.
L’immobile, inserito nel Parco della Collina di Superga – con la sua superficie di 88.000 m2 di terreno collinare e boschivo uno dei più grandi di Torino – dista meno di cinque chilometri dal centro cittadino e l’agevole accessibilità dalla città permetterà la creazione di sinergie con associazioni e privati torinesi nello sviluppo di progetti.
Il parco, che offre un pozzo ed una valletta pianeggiante nelle immediate vicinanze dell’edificio, è visto come una risorsa agricola, energetica, per iniziative socio-culturali e tra queste attività per bambini nel bosco e forse anche un cinema all’aperto. È in progetto l’impianto di orti, piante da frutto, vitigni, arnie.
L’immobile, in corpo unico della superficie abitativa di circa 600 m2 calpestabili, è attualmente frazionato in cinque appartamenti in buone condizioni. Dispone inoltre di circa 250 m2 di locali accessori: androne coperto, box, magazzino, tettoia, legnaia, di una cantina di 70 m2 e di una soffitta che si sviluppa per metà della pianta.
Il progetto prevede di rimodulare l’edificio in sei o sette unità abitative, migliorandone l’efficienza energetica ma evitando ristrutturazioni troppo onerose, ed un ampio spiazzo esterno verrà adibito a parcheggio capace di accogliere venti auto.
Relativamente agli spazi comuni coperti, l’idea attuale prevede una cucina per cene in comune e feste, un’area bimbi, uno spazio aperto ad esterni da adibire a B&B o per accogliere l’attività di associazioni, workshop, laboratori, coworking, il recupero della legnaia in cui è presente un forno ed uno spazio polivalente di circa 100 m2 per uso interno.
Per chi volesse approfondire l’argomento questo è il link al sito dell’Associazione Coabitare, promotrice dell’iniziativa.

Alberto C. Steiner

Ulivi salentini: il resto è silenzio

Ce lo aveva chiesto l’Europa, ovvio, e scrivendone il 27 marzo 2015 nell’articolo Gli ulivi? Li abbiamo finiti… leggibile qui esprimevo la mia opinione: “Secondo me si dovrebbe procedere ad un nuovo ratto di Europa, tenendola segregata in qualche buco in Aspromonte o in Sardegna, ma questo è un altro discorso, della serie chi vuol esser servo sia….”
Inquadro questo scritto, oltre che nell’ambito dell’ecosostenibilità, nel mio concetto di quanto sia prossimo il Medioevo prossimo venturo e di quanto sempre più farsesco appaia – e senza bisogno di scomodare Platone – il concetto di democrazia rappresentativa.CC 2016.01.27 Salento 001E vengo al dunque. Ho lasciato trascorrere oltre un mese dal 19 dicembre scorso, quando venne emanato il provvedimento giudiziario che bloccava l’eradicazione degli ulivi salentini malati. L’ho fatto per poter, letteralmente, contare gli articoli e gli spazi video dedicati dai media a diffusione nazionale a questo accadimento di portata indiscutibilmente epocale. A parte alcune notizie della prima ora, le solite critiche ai violenti manifestanti (che di violento non avevano proprio nulla, tanto è vero che venivano inquadrate tranquille casalinghe scese in strada imbracciando rami di ulivo) ed alcuni trafiletti sparsi il conto è presto fatto: zero.
Mi limito alla stampa cartacea: ne hanno parlato il francese Le Monde e lo statunitense Washington Post (con un bellissimo articolo), il tedesco Der Spiegel e il britannico The Guardian, lo svizzero Neue Zürcher Zeitung e persino The Australian Financial Review, senza dimenticare i canadesi Vancouver Sun e Le Soleil de Quebec.
Da noi gli scritti su portali, siti, blog e social a tema ecosostenibile si sono sprecati, è naturale. Ma, per quanto vasto possa apparire, si tratta di un fenomeno di nicchia.
Resto convinto che i media a grande diffusione abbiano ignorato l’avvenimento perché l’indagine che ha bloccato le eradicazioni degli ulivi non sarebbe mai partita senza la nascita del Popolo degli Ulivi: un movimento territoriale eterogeneo, trasversale, senza leader, senza bandiere, senza padrini e senza padroni, creativo e per questa ragione da tanti ignorato e aggredito. Quelli non erano clientes di nessuno, schifavano anzi sia la Nomenklatura sia i Masaniello in cachemire, perché occuparsene?
Resta il fatto che la Procura di Lecce ha indagato dieci persone, tra queste il commissario straordinario Giuseppe Silletti, ipotizzando svariati reati e tra questi violazione dolosa delle disposizioni in materia ambientale e falso, ed è illuminante un passaggio dell’ordinanza redatta dagli inquirenti: “… la sintomatologia del grave disseccamento degli alberi di ulivo non è necessariamente associata alla presenza del batterio, così come d’altronde non è ancora dimostrato che sia il batterio, e solo il batterio, la causa del disseccamento …”CC 2016.01.27 Salento 002Eppure dall’alto del Palazzo e persino dei Palazzotti abitati dai vari Don Rodrigo numerose sono state le aggressioni, le denigrazioni, le denunce, gli ostacoli con cui si è tentato di ignorare le ragioni di questa gente (non ho scritto questo movimento, ho scritto questa gente) perché, pur tra inevitabili limiti e contraddizioni, quello salentino è uno dei più interessanti fenomeni territoriali apparsi negli ultimi anni.
Lo è perché ha coinvolto persone comuni di età, percorsi culturali, sociali e politici differenti, che non hanno cercato padrini o padroni politici ai quali delegare la soluzione del problema e neppure capipopolo dai quali farsi guidare. Le persone si sono autoorganizzate, scegliendo di intervenire, in molti modi e direttamente.
Non si sono appecoronate al mantra ce lo chiede l’Europa, ed hanno utilizzato non solo strumenti tradizionali: assemblee, incontri, manifestazioni, presidi, azioni di pressione a livello europeo, ricorsi al Tar, ma anche social network, feste e pic-nic nei paesi e nelle campagne, creando e rendendo visibile la possibilità di un mondo nuovo, connotato da relazioni sociali effettive e concrete.
E poi ci sono state le azioni di disobbedienza creativa, come quando sono stati piantati a sorpresa centinaia di ulivi. E non dimentichiamo fiaccolate e momenti di informazione e formazione dedicati ai sistemi naturali di cura delle piante ed all’agroecologia. Si, ci sono stati anche blocchi stradali e ferroviari. Normale, quando si protesta.
Ma queste persone hanno contemporaneamente, e forse senza saperlo, fatto una cosa veramente importante: hanno evidenziato e proposto un’idea diversa di agricoltura e un rapporto diverso tra comunità e ambiente naturale, contribuendo non solo a rompere la gabbia di silenzio e bugie costruita intorno agli ulivi malati, ma anche costringendo a ridurre il numero di alberi da abbattere e dando un senso al termine Comunità.
Non importa quindi se i grandi media hanno cercato di rendere il tutto innocuo, invisibile e persino ridicolo: quelle persone hanno dimostrato che, senza gli eccessi e la strumentalizzazione dei NoTav piemontesi, è possibile lottare, che è il tempo del fare e che si sta tornando al concetto di Comunità locale dove ciascuno è responsabile del proprio operato di fronte a se stesso ed ai concittadini.
E mi fermo qui perché di questo mi interessava parlare. Altrimenti dovrei addentrarmi in un ginepraio di domande a sfondo economico finanziario circa la sorte dell’ulivicoltura salentina una volta eradicati gli ulivi, da dove sarebbero arrivate le olive per la spremitura, quali sarebbero state le compagini societarie delle imprese interessate, quali banche le avrebbero finanziate e come, quali finanziamenti pubblici sarebbero stati emanati e da dove avrebbero preso i soldi, e chi li avrebbe gestiti… altro che il virus creato in vitro dalla demoniaca Monsanto! no grazie, preferisco parlare di bellezza piuttosto che di spazzatura.

Alberto C. Steiner

Mangia di stagione: interessante iniziativa della Provincia di Roma

Vi siete mai chiesti perché la frutta estiva è ricca d’acqua e quella invernale è più asciutta? Semplice: perché se quella estiva fosse asciutta si surriscalderebbe, mentre se quella invernale fosse ricca d’acqua gelerebbe.Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 004Non manca inoltre un’importante ragione nutrizionale, come vedremo al termine di questa premessa, necessaria per inquadrare la questione: come gran parte degli Italiani della mia generazione provengo da una famiglia di antiche origini contadine. Gli ultimi furono i miei nonni paterni: tra il Polesine e il Delta del Po si occupavano di agricoltura ed allevamento di bovini e anguille sino alla devastante alluvione del 1951, quando vendettero le terre e si ritirarono. Ma le tradizioni rimasero ed io, pur essendo nato in epoca successiva, ricordo che in concomitanza delle festività natalizie una delle prelibatezze era “l’uva di Natale”, bianca e decisamente dolce a causa dell’appassimento. Da quel momento e fino a settembre di uva non se ne parlava più. In primavera arrivavano a rotazione fragole, nespole, albicocche, ciliegie, fino all’apoteosi di pesche, meloni, angurie, lamponi, more e mirtilli, questi ultimi invero presenti tutto l’anno poiché opportunamente conservati venivano usati anche in cucina. Si chiudeva con pere, fichi, noci e uva, per passare a castagne, mele, arance e cachi.
Onnipresenti datteri, banane, ananas e frutta secca ma avocado, mango, tamarindo e via tropicando chi li ha mai visti sino ai primi anni Settanta?
Di pomodori e melanzane in inverno nemmeno a parlarne; cetrioli si, ma conservati in aceto e spezie all’uso tedesco. Crauti quanti ne volevamo: freschi in stagione, bianchi e rossi, in salamoia durante il resto dell’anno insieme con conserve di verdure miste sottaceto e barattoli di salsa di pomodoro. Le insalate, infine, marcavano le stagioni con i loro colori: il tarassaco – da noi detto pissacan – nelle sue progressionii di verde da marzo a ottobre, consumabile crudo e successivamente cotto; le lattughe, la riccia, la rucola sino al rosso del radicchio di Chioggia o di Treviso, o al bianco di quello mantovano.
Menzione speciale infine per la rucola, erba povera e spontanea sdoganata come si dice ora nelle preparazioni della cucina pseudopopolare riscoperta dall’intellighenzia ecochic degli anni Settanta. Quando mia nonna leggeva di certe ricette immancabilmente commentava con un “I g’ha scoverto l’acqua in canal” che sapeva di vetriolo…CC 2015.09.13 Mangia di stagione 001Oggi andiamo al supermercato ed in ogni momento dell’anno troviamo qualunque cosa, peraltro dalle provenienze più disparate.
Paleontologi ed archeologi fissano in 10mila anni fa la fine del Paleolitico con l’introduzione di agricoltura e allevamento presso alcune società euroasiatiche.
Ma ancora oggi tali pratiche non sono universalmente condivise: Pigmei, Boscimani, Indios amazzonici, Semang malesi vivono tuttora di quanto la natura offre loro spontaneamente. Per essere più precisi resistono all’apparentemente inesorabile avanzata delle società agricole e industrializzate. Il fatto che, ancora oggi, riescano a sopravvivere di sola caccia e raccolta significa che in determinate circostanze ambientali ciò rappresenta uno stile di vita efficiente: se la natura offre spontaneamente del cibo, perché compiere sforzi per procacciarsene altro?
Alle nostre latitudini, dove la natura è stata piegata dall’Uomo per sottostare alle sue esigenze, possiamo ancora trovare numerose specie vegetali selvatiche adatte all’alimentazione. Il loro numero è però in rapida diminuzione in ragione della costante perdita di biodiversità, dovuta principalmente alle logiche di mercato dell’agricoltura intensiva e al sacrificio di interi ecosistemi a favore di aree antropizzate.
La questione sembra apparentemente slegata dalla nostra quotidianità, e invece la nostra stessa esistenza è strettamente dipendente dalla biodiversità.
E così ho anch’io pronunciato il mantra catastrofista tanto caro a chi dovrebbe avere a cuore le sorti del pianeta, nonché i mezzi per potersene occupare salvo non andare oltre il blabla dei proclami e dei convegni…KL Cesec CV 2014.03.04 Ambiente maneggiare con curaIn ogni caso e come sempre le chiacchiere stanno a zero ma i numeri parlano chiaro: dall’anno 1900 ad oggi il 75% delle varietà vegetali è andato perduto, i tre quarti delle risorse alimentari mondiali dipendono da sole 12 specie vegetali e 5 animali e delle 75.000 specie conosciute solo 7.000 vengono usate in cucina. Delle 8.000 varietà censite in Italia nel 1899 ne sono rimaste 2.000.
Dalla fine della II Guerra Mondiale ad oggi delle 400 specie di grano esistenti il 90% sono scomparse. E che dire delle mele? Oltre un migliaio di antiche varietà ha ceduto il passo nell’80% dei casi a 4 varietà: due americane, una australiana e una neozelandese. Lo stesso vale per i pomodori: delle 300 cultivar commercializzate solo 20 sono autoctone. Stessa solfa per le altre solanacee, le cucurbitacee, i legumi e via elencando.
Il nostro Paese, con 57.000 specie animali, pari a un terzo di quelle europee, e 5.600 specie floristiche (il 50% di quelle europee) il 13,5% delle quali endemiche ha un patrimonio biodiverso fra i più importanti. Bene: 138 specie, il 92% delle quali animali, sono a rischio di estinzione a causa del consumo del suolo che erode gli habitat naturali, ed in ragione dell’intensificazione dei sistemi di produzione agricola. L’Italia, capeggiata dalla Lombardia, con il 43,8% di superficie coltivata è il Paese europeo con la maggior estensione di aree agricole. Ma l’abbandono dei sistemi tradizionali e naturali in favore di quelli industriali, l’impiego di sostanze chimiche dannose per il territorio, la logica della crescita infinita stanno abbattendo drasticamente il numero delle specie esistenti e, di quelle rimanenti, le qualità nutrizionali.
La delocalizzazione produttiva, nella quale noi italiani non siamo secondi a nessuno avendo da gran tempo acquisito direttamente o attraverso holding multinazionali immense estensioni di aree nel Sud del mondo, contribuisce inoltre a dare il colpo di grazia alla biodiversità.KL-Cesec - Supermercato - OrtofruttaLe nostre abitudini alimentari, rapportate a quelle dei nostri genitori e dei nostri nonni, sono state rivoluzionate nell’ultimo quarantennio attraverso il mutamento dello stile di vita, le aumentate disponibilità di cibo ed i trattamenti di raffinazione industriale: siamo le prime generazioni della storia ad avere il problema dell’obesità e del diabete sin dalla più tenera età.Cesec-CondiVivere 2014.12.03 Zingari 003Lo sviluppo delle produzioni intensive, delle monocolture e l’evoluzione delle capacità di trasporto hanno comportato che le disponibilità agroalimentari ci consentano di avere in ogni periodo dell’anno qualsiasi prodotto o perché coltivato in serra o perché proveniente da Paesi a stagioni rovesciate rispetto alle nostre.
I prodotti vengono però raccolti con largo anticipo rispetto alla loro disponibilità al banco, e la loro maturazione e conservazione avvengono spesso durante lo stoccaggio ed il trasferimento, non di rado grazie all’impiego di prodotti potenzialmente tossici.
Tutto questo si tramuta in un maggior costo:

  • economico, in quanto il prodotto deve ripagare dei maggiori investimenti compiuti per realizzarlo fuori stagione, per conservarlo o per farlo giungere da lontano fino al nostro Paese;
  • ambientale, in quanto si ha un dispendio di energia e un maggiore sfruttamento di risorse naturali (ad esempio il gasolio usato per riscaldare le serre);
  • nutrizionale, perché ogni tipo di frutta o verdura nasce, indipendentemente dalla volontà umana, per rinfrescare d’estate e riscaldare d’inverno. Pomodori e cetrioli, per esempio, sono tipicamente estivi per tale ragione, mentre carciofi e verze sono tipicamente invernali per la ragione opposta.

Per rieducare ad un consumo alimentare responsabile, salutare ed ecosostenibile l’Assessorato alle Politiche dell’Agricoltura della Provincia di Roma ha promosso una lodevole iniziativa diffondendo un simpatico volumetto di 34 pagine, dal titolo La stagionalità dei prodotti agricoli nella provincia di Roma.CC 2015.09.13 Mangia di stagione 002Di agevole consultazione e gradevolmente illustrato descrive mese per mese i prodotti stagionali, concludendosi con un interessante capitolo sulle conserve e con uno di utili indicazioni che aiutano a consumare prodotti quanto più possibile sani e ricchi dei loro nutrienti naturali. Il volume è scaricabile in formato pdf a questo indirizzo.
Pur esulando dall’argomento della stagionalità, accenno in chiusura alla questione della filiera corta: le sue caratteristiche consentono rispetto della stagionalità, migliore qualità e freschezza del prodotto; l’assenza di intermediari permette inoltre un più adeguato compenso degli addetti, spesso schiacciati dalle politiche della grande distribuzione.

Alberto C. Steiner

Ecososteniblità dell’anima: servono ingegneri per progettare sogni

Ha scritto Franco Arminio, nel suo Geografia commossa dell’Italia interna: “Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.
Attenzione a chi cade, attenzione al sole che nasce e che muore, attenzione ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.”CC 2014.04.30 Rinascere 001Questa frase mi ha indotto a rileggere l’articolo Solo attraverso profondi cambiamenti individuali il nostro Paese potrà rinascere, che pubblicai il 30 aprile 2014 su queste pagine (visionabile qui) poiché riconsiderandolo alla luce di mutamenti che non avvengono, di iniziative delle quali tanto si parla ma che sono costantemente al palo e di quella truffaldina bruttura dell’Expo 2015 mi è parso più che mai di viva attualità.
L’articolo nacque sulla scia di interessanti scritti pubblicati in quel periodo dal sito partner Consulenza Finanziaria argomentando di competitività estera e di malcostume delle aziende nostrane, oltre che di gestione del credito bancario.
Oggi più che mai il mondo, visto dal nostro Paese, appare immenso e pauroso perché i suoi equilibri stanno mutando ad una velocità inaudita, e nello scenario sono entrati di prepotenza nuovi protagonisti ben più grandi di noi, alterando antichi equilibri e stravolgendo gerarchie di potere che si credevano consolidate.
Questioni mai incontrate prima chiedono una soluzione, ma le opportunità di cambiamento vengono percepite come pericoli.
È già accaduto: per provincialismo, miopia e furbizia, quando non malafede, degli attori politici ed imprenditoriali nostrani l’Italia è arrivata impreparata alle grandi svolte, perdendo tempo prezioso. Ed anche oggi, se non saremo pronti ad intuire gli scenari del futuro, se non sapremo valutare la direzione del cambiamento nelle tendenze di lungo periodo, rischieremo di prendere una volta di più le decisioni sbagliate. Pagandole a caro prezzo.
Basti pensare che invasione è il termine più usato dagli attuali predicatori dell’Apocalisse: invasione di immigrati clandestini, di prodotti cinesi, di capitali stranieri che ci colonizzano. E non ci accorgiamo che tutto ciò che temiamo è in realtà già accaduto.
Intendiamoci: di fronte ad ogni cambiamento la paura è legittima perché le grandi novità spaventano, possono nascondere delle incognite ed il riflesso automatico ingenera un meccanismo di difesa. Oppure nega il cambiamento.
Per comprendere qualsiasi accadimento attribuendogli l’esatta misura è indispensabile non solo mutare prospettiva, ma anche osservare con distacco come l’oggetto delle nostre attenzioni risuoni dentro di noi comprendendo quali nodi da sciogliere e persino quali antiche ferite faccia vibrare. Solo così è possibile identificare la natura dei presunti pericoli che ci minacciano, stabilire se il modo per difenderci sia l’attacco – che non sempre è la miglior difesa – oppure il lasciarci morbidamente andare, per vincere la sfida senza accontentarci semplicemente di limitare i danni. Vale a dire per vivere piuttosto che accontentarci di sopravvivere.
Esistono anche da noi imprenditori illuminati: sono quelli che spesso non fanno notizia e che insieme con i più attenti osservatori possono tentare di rispondere con sano pragmatismo alle domande offrendo punti di vista nuovi e proprio per questo rivoluzionari.
Ma le scelte da fare non riguardano solo governi, classi imprenditoriali e dirigenti bensì primariamente la vita quotidiana di tutti noi: nel segno di un’Energia nuova e pulita sono tante le riforme dal basso che ciascuno di noi può avviare da subito, e costituiscono un antidoto alla lagnanza, alla rassegnazione, al senso di impotenza che non è mai nelle cose ma dentro di noi. Sono quell’impotenza, quella rassegnazione che respiriamo oggi in Italia nell’attesa sempre delusa di grandi cambiamenti, svolte, catarsi collettive, rinascite nazionali. Che dovrebbe essere sempre qualcun altro ad attuare.
Siamo invece noi che con maturata consapevolezza, impegno civile, consumi responsabili, dobbiamo incamminarci alla ricerca del nostro destino per costruire il nostro futuro. Detto in altri termini: è solo attraverso una profonda revisione dei nostri modelli produttivi, di consumo, sociali, interiori che possiamo agire per scuotere i sistemi politico e produttivo.
Ma se continuiamo a lamentarci attribuendo a chicchessia la responsabilità dei nostri fallimenti e del nostro non andare avanti, non solo resteremo al palo, ma inevitabilmente ci attende una regressione: economica, sociale, delle coscienze, intellettiva.Cesec-CondiVivere-2014.10.07-Medioevo-prossimo-venturoNon ci sono alternative: o ci risvegliamo dal sonno aprendoci ad un nuovo approccio alla qualità della vita, che presupponga un mondo nel quale il punto di riferimento non sia più il pil bensì la decrescita più o meno felice, o siamo dei morti che vagano in paesi dei balocchi, in realtà cimiteri alla portata di chiunque abbia occhi per vedere e cuore per sentire: autobus e metropolitane, centri commerciali, installazioni pseudoculturali di plastica.
Si dice che un intento individuale e decentrato non possa nulla ma non è affatto vero: dai gesti che ciascuno di noi compie ogni giorno possono nascere gli innumerevoli stimoli destinati a mutare il gradiente energetico in grado di sospingere il nostro Paese, e le nostre anime, verso l’ormai indifferibile cambiamento.Cesec-CondiVivere 2014.10.17 Appennino modenese vista suggestivaAltrimenti ci attende quello che da anni chiamo il medioevo prossimo venturo, che non considero una calamità ma un’opportunità ed al quale mi sto felicemente preparando attraverso la progettazione ecosostenibile di luoghi destinati ad accogliere piccole comunità il più possibile autosufficienti.

Alberto C. Steiner

Ci siete mai stati Oltrelasoglia?

Case Matte: non solo un progetto bellissimo, ma anche necessario. Specialmente in un momento come quello attuale dove si assiste costantemente alla creazione di figure di nemici e di diversi per alimentare quella sindrome della paura destinata a distogliere dalle questioni reali. E tutti possiamo essere o diventare diversi, se siamo fuori dal coro e non marciamo, come cantava Bennato, in fila per tre.Cesec-CondiVivere 2015.06.06 Case Matte 001Il progetto, presentato il 25 febbraio scorso presso la Camera del Lavoro di Milano si basa su un’idea di Teatro Periferico con il sostegno di enti e associazioni.Cesec-CondiVivere 2015.06.06 Case Matte 002Nasce nel 2012 con il sostegno di Fondazione Monza Brianza, Provincia di Monza e Brianza e Comune di Limbiate, raccogliendo le storie di chi ha vissuto all’interno dell’ex-ospedale psichiatrico Antonini di Limbiate: malati, medici, infermieri, assistenti sociali ricostruendo le condizioni di vita e di lavoro all’interno del manicomio, con il fine di non disperdere una preziosa memoria storica e di antropologia culturale.Cesec-CondiVivere 2015.06.06 Case Matte 003Il materiale raccolto ha consentito di mettere in scena lo spettacolo Mombello, voci da dentro il manicomio, realizzato in collaborazione con la Compagnia delle Ali che, dopo un biennio di repliche in luoghi a loro volta sedi di istituzioni totali come scuole, caserme, carceri, verrà portato in giro per l’Italia a partire dal prossimo autunno.Cesec-CondiVivere 2015.06.06 Case Matte 004Ma non verrà rappresentato nei teatri bensì negli ex-manicomi oggi chiusi e spesso nelle mire della finanza dai denti a sciabola, quella della speculazione edilizia: Limbiate, Genova, Reggio Emilia, L’Aquila, Aversa, Roma, Volterra, Firenze coinvolgendo associazioni impegnate nel recupero della memoria degli internati negli ex-manicomi.Cesec-CondiVivere 2015.06.06 Case Matte 005Ben lontana dal voler creare delle Disneyland della follia mediante la creazione di musei della tortura o allestire abiti e ambienti manicomiali, l’Associazione intende salvare dall’oblio la memoria dei pazienti psichiatrici che furono ricoverati nei manicomi italiani, dando in particolare voce a tutti quelli che subirono veri e propri crimini di pace, aprendo discussioni con i cittadini attraverso iniziative collaterali alle rappresentazioni teatrali: C’era una volta il manicomio, passeggiate all’aperto con narrazione delle storie del manicomio, presentazione del libro Atlante della città fragile di Gianluigi Gherzi, letture, mostre, narrazioni e incontri, diversi per ogni città, a cura dei soggetti coinvolti.Cesec-CondiVivere 2015.06.06 Case Matte 006L’Associazione ha pubblicato su Youtube il 12 maggio scorso un filmato molto ben fatto e  intenso, visionabile cliccando qui.
Non credo infine sia un caso se Case Matte non beneficia di finanziamenti pubblici ma solo del sostegno di associazioni, gruppi e cittadini. Gli incontri offriranno quindi anche l’occasione per promuovere la raccolta di fondi dal basso, per la sostenibilità economica del progetto.
Per chi volesse saperne di più ed eventualmente fornire il proprio sostegno: Teatro Periferico info @ teatroperiferico.it oppure Case Matte maddalena.peluso @ gmail.com.

Lorenzo Pozzi

La montagna dell’oblio

I paesi di montagna si spopolano e vengono abbandonati: è un problema sempre più grave ma sottovalutato e sono le mezze stagioni a svelare la solitudine della montagna, di quella vera, difficile e autentica, che non è quella delle località blasonate dello sci o delle terme.
Lo spopolamento parla la lingua di quella montagna dimenticata e sconosciuta dove la vita segue ritmi naturali e dove non ci sono alternative, quella montagna caduta nell’oblio di questa società distratta e frenetica perché lontanissima dall’ipertecnologizzazione odierna.Cesec-CondiVivere 2015.06.05 Montagna oblio 001Molte frazioni alpine ed appenniniche in vallate non turistiche sono ormai abbandonate a loro stesse, restituite alla forza della natura a causa del disinteresse dei figli e nipoti degli antichi abitanti, delle amministrazioni locali e della pretenziosità del turista che vuole ritrovare la città in montagna.
E, pur salvandosi dal totale abbandono, quei borghi che in estate si ripopolano dei vecchi abitanti dando vita a momenti di ritrovo e festa si ritrovano, per contro, deserti per il resto dell’anno e in alcuni periodi addirittura isolati a causa delle condizioni atmosferiche.
Questi pugni di case corrono, fra gli altri, anche il rischio di diventare preda di gruppi di sbandati che già oggi iniziano a lasciare le città in cerca di uno stile di vita non tanto agreste quanto incontrollabile. Non siamo catastrofisti ma non ci stancheremo mai di dirlo: saranno i nuovi predoni che contribuiranno a riportarci verso il Medioevo prossimo venturo.
D’altra parte se gli abitanti titolari sfollano e se i nuovi arrivati non vogliono crepare di fame, per un’improvvisa piena o per una slavina, dovranno pur occuparsi del territorio. Non è una novità, in questo senso la storia si sta ripetendo.
Lo spopolamento è comunque un dato oggettivo che potrebbe portare ad avere nel giro di pochi anni ulteriori villaggi fantasma in aggiunta alle migliaia che già esistono sulle nostre montagne.Cesec-CondiVivere 2015.06.05 Montagna oblio 002Soluzioni? Ce ne sarebbero, ma la cultura dominante fa ritenere che l’unica risorsa sia il turismo, che però comporta onerose infrastrutture, incapaci di garantire posti di lavoro sufficienti a coprire la domanda, oltretutto con il rischio altissimo insito nel promuovere una realtà ignota al turista. A parte che tra un po’ scomparirà anche il turista…
Rimangono la pastorizia, l’agricoltura e le relative trasformazioni agroalimentari. Si, proprio quelle che non danno di che vivere perché spodestate da allevamenti e coltivazioni intensive di pianura, dalle sementi delle multinazionali e dalla produzione nelle colonie in Argentina, in Estremo Oriente o in Africa.  Come? Non ci sono più le colonie? Ah già, che distratti: oggi c’è il land grabbing e meno male che esistono le organizzazioni assistenziali non governative…
Le piccole produzioni, se diventano di nicchia e di eccellenza come per esempio lo zafferano di montagna lombardo sviluppato da alcuni produttori in Valtellina, Valcamonica e Valtrompia con l’assistenza dell’Università della Montagna, possono dare risultati inaspettati.
La questione vera, invece, è il sostegno: il sostegno, anche solo morale per non parlare di quello finanziario, di cui hanno bisogno quei matti, quei dissennati per lo più giovani, che non hanno deciso di andare a vivere in montagna in una nuova visione hudsoniana o ecochic, perché in montagna c’è già la loro vita, la loro storia e la storia dell’azienda di famiglia.
E vogliono farcela. Con sano pragmatismo e senza implorare uno stato latitante che debba loro dare, fare, garantire. Questi sono quelli che in caso di terremoto, frana o slavina vanno giù di badile asciugandosi insieme sudore e lacrime. Pensando a ricostruire. Ai morti penseranno quando il disgelo li disvelerà dal loro sudario di ghiaccio.

Alberto C. Steiner