Expo: la Carta (triplo velo) di Milano

Per chi dovesse domandarsi come mai Coca Cola è l’offical soft drink partner dell’Expo, abbiamo la risposta.
Proviene dal disclaimer che ne motiva la cooptazione: “In virtù del suo impegno sul fronte dell’innovazione e della crescita sostenibile capace di generare ricchezza per la comunità, tutelando le risorse utilizzate e incoraggiando consumi e stili di vita equilibrati…”.
Quindi, vediamo per una volta di non essere maligni, visto che caffeina e bollicine nutrono il pianeta e, tra un ruttazzo e l’altro, contribuiscono a risvegliare le fervide menti che hanno partorino nientepopò… come niente popò? No, non quel popò, lasciateci finire… nientepopodimenoche laCesec CondiVivere 2015.05.17 Carta di Milano 001Il documento elenca gli impegni che dovrebbero costituire l’eredità di Expo 2015 sulla lotta alla fame. Bene, e allora? si chiederanno i lettori… E allora non ci siamo. Non vi si parla di land grabbing e nemmeno di speculazione finanziaria sulle materie agricole. Insomma, l’ennesima dimostrazione che il problema dell’economia globale è la sudditanza del potere politico e delle istituzioni alle lobby finanziarie. Ricordate il nostro articolo Land Grabbing e vergini dai candidi manti pubblicato qui nel non sospetto 29 novembre 2013?Cesec CondiVivere 2015.05.17 Carta di Milano 002Torniamo al testo che, presentato a Milano alla vigilia dell’inizio dell’esposizione universale, contiene tutte affermazioni di buon senso, che chiunque salvo  forse Monsieur de la Palisse che ne rivendicherebbe lo spirito promotore, sottoscriverebbe (cliccare qui per il testo completo).
A leggerla bene, però, c’è un aspetto che in questa Carta di Milano lascia profondamente perplessi: è scomparso ogni riferimento al tema della finanza, che pure c’era nel Protocollo di Milano sull’alimentazione e la nutrizione, quell’iniziativa promossa dal Barilla Center for Food and Nutrition con la collaborazione di tante personalità e sigle della società civile, al quale la Carta di Milano si è ispirata e che cita espressamente fra le sue fonti. Come se l’uso del denaro non avesse nulla a che fare con l’alimentazione…
Più in generale è tutto il tema della crisi globale iniziata ormai nel 2008, e che ha pesato sui prezzi alimentari e quindi sull’accesso al cibo e la fame, a rimanere fuori dal documento, come se non c’entrasse nulla con la sfida Nutrire il pianeta energia per la vita.
Condividiamo l’opinione espressa da Leonardo Becchetti, professore di economia politica a Tor Vergata e promotore della Campagna 005: “È l’ennesima dimostrazione che il problema numero uno dell’economia globale è la sudditanza del potere politico e delle istituzioni a lobby finanziarie più grandi degli stati. Ci vorrà tempo prima di riavere un vero equilibrio dei poteri ma ci dobbiamo riuscire. E il tutto avverrà quanto più i cittadini impareranno a votare con il loro portafoglio per la finanza veramente al sostegno dell’economia reale. Intanto assistiamo allo scandalo di una parte del mondo finanziario arrogante ed autoreferenziale, che non si rende minimamente conto di come meglio potrebbero essere usate le immense risorse a disposizione per salvare vite umane e promuovere sviluppo sostenibile“.Cesec CondiVivere 2015.05.17 Carta di Milano 003Il tema del rapporto tra cibo e finanza è un grande nodo del mondo di oggi: la corsa ad acquistare terreni agricoli nel Sud del mondo e la volatilità dei prezzi nei mercati delle materie prime agricole, sono fattori che generano fame. E hanno a che fare con un certo modo di fare finanza, molto più vicino al nostro portafoglio di quanto crediamo.
È scritto nel Protocollo di Milano, varato il 3 aprile scorso: “Le parti si impegnano a identificare e proporre leggi per disciplinare la speculazione finanziaria internazionale sulle materie prime e la speculazione sulla terra, oltre che a proteggere le comunità vulnerabili dall’accaparramento della terra (land grabbing) da parte di entità pubbliche e private, rafforzando al contempo il diritto all’accesso alla terra delle comunità locali e delle popolazioni autoctone“.
Quell’impegno preciso non compare più tra quanto la Carta di Milano richiede con forza (!) a governi, istituzioni e organizzazioni internazionali, ma si parla solo genericamente di rafforzare le leggi in favore della tutela del suolo agricolo, per regolamentare gli investimenti sulle risorse naturali, tutelando le popolazioni locali. Non è esattamente la medesima cosa…
Anche nella sezione Impegni, esclusa una rapidissima evocazione della questione dell’accesso al credito, non compare nulla che abbia a che fare con la parola finanza. Quasi che questo mondo fosse un’entità a sé stante, le cui scelte non hanno ricadute concrete sull’agricoltura e sul mercato dei prodotti alimentari.
Vedremo che accadrà nel corso dell’appuntamento organizzato per il 22 prossimo a Milano dalla Campagna Sulla Fame Non Si Specula: noi speriamo solo che una manifestazione pacifica non finisca come un certo G8 di tristissima memoria.

Alberto C. Steiner

NemicoPubblico. Pecorelle, lupi e sciacalli.

Non sempre le ciambelle riescono col buco. In questo caso nella montagna, per realizzare un’opera inutile, costosissima e suscettibile di creare notevoli danni ambientali e alla salute pubblica.
Ma sbattere il mostro in prima pagina funzionava all’epoca della carta stampata e funziona ancora meglio grazie a televisione, internet, social. Funziona grazie all’incapacità di discernimento, con sempre maggiore successo indotta da chi le notizie non le riferisce ma le monta per creare flussi di opinioni e, spesso, distogliere l’attenzione dalle questioni reali generando falsi obiettivi, clima di paura, nemici inventati di sana pianta.

La copertina del libro NemicoPubblico. Pecorelle, lupi e sciacalli

               La copertina del libro NemicoPubblico. Pecorelle, lupi e sciacalli

E’ il caso del bel libro NemicoPubblico. Pecorelle, lupi e sciacalli pubblicato da Spinta dal Bass, il movimento NoTav che da anni lotta in Valle Susa per contrastare la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino – Lione.
In 107 pagine scritte a più mani l’analisi di un attacco mediatico in piena regola che è riuscito a creare ad arte il “mostro” per distogliere l’attenzione dalla lotta alla TAV che, nel 2012, stava riscuotendo simpatie e solidarietà in tutta Italia. Una manovra subdola e perfettamente riuscita che seppe smuovere gli istinti più bassi e beceri degli itaGliani, annebbiando le loro già scarse e residue capacità di analisi e critica sui movimenti sociali e sui meccanismi di manipolazione dell’opinione pubblica.
Una spirale di “informazione” che sacrificò intenzionalmente l’obiettività alla soggettività, mostrando la parte decontestualizzata anziché il tutto. Un vortice gelatinoso che fagocitò tutti tanto da riuscire ad imporre senza coercizione quello che alla fine si configurò come un pericoloso pensiero unico. Nel vortice caddero tristemente anche la maggioranza degli operatori dell’informazione, compresi quelli della cosiddetta sinistra progressista, che con differente livello di intenzionalità e consapevolezza scelsero di amplificare l’eco di una non-notizia, a scapito della verità.
NemicoPubblico, il libro notav che ha fatto infuriare politici e magistrati, è liberamente scaricabile in formato Pdf dal sito spintadalbass, gratuitamente ma con un’avvertenza: “Tenete presente che pur essendo scaricabile e da far girare liberamente “una mano sul cuore e una sul portafoglio” per le spese legali sono ben accette“.

Alberto C. Steiner

L’Africa morirà. Questo come la fa sentire? Non colpevole.

Accade di parlare della devastazione di cui sono preda i paesi del Sud del mondo e, inevitabilmente, il discorso vira puntando ai sensi di colpa che attanaglia certi occidentali: colpa nostra se sono ridotti così, li abbiamo per secoli colonizzati, sfruttati, ridotti in schiavitù.Cesec-CondiVivere 2014.12.06 Africa 001Per quanto mi riguarda mi dichiaro non colpevole. Penso anzi che per certi aspetti l’epoca delle colonie fu migliore di quella attuale, almeno le cose erano chiare e non esistevano democrazie di paglia, in realtà feudo di satrapi locali fantocci rapaci e feroci nelle mani di istituzioni finanziarie internazionali. Meglio ancora se li avessero lasciati in pace, ma questo è un altro discorso.
Oggi assistiamo ad una nuova colonizzazione di quei paesi, perpetrata da paesi che furono a loro volta colonizzati: e trattasi di una colonizzazione senza né pudore né ritegno, che va sotto il nome di land grabbing.Cesec-CondiVivere 2014.12.06 Land grabbingE la finanza dai denti a sciabola, indossato il vestitino ecosostenibile nonché solidale per non lasciarsi sfuggire il pallino e il boccone, ci marcia. Lanciando social impact investment, massiccie campagne di fund raising e via enumerando. Della serie: der Wolf, das Haar verliert… Non mi dilungo, ne ho scritto esaustivamente il 29 novembre 2013 nell’articolo Land Grabbing e vergini dai candidi manti dove, chi avrà voglia di leggerlo, ҄troverà illuminanti considerazioni sul povero negretto espresse da un amico di origine centroafricana, presidente di un’associazione che tenta di dare una mano alle popolazioni dell’Africa più povera.
E vengo al punto. Serge Latouche, avversario tra i più noti dell’occidentalizzazione del pianeta e sostenitore della decrescita e del localismo, racconta nelle sue memorie che un giorno un’anziana donna del Benin gli chiese: “Ma quando tornate voi francesi?” a significare che il paradosso africano seguiterà a congiungersi tragicamente a quello occidentale fintanto che la cultura occidentale si manterrà solo grazie al desiderio del resto del mondo di entrare a farne parte.Cesec-CondiVivere 2014.12.06 Africa 002Un progetto globale di socetà autonoma e fondata sulla decrescita deve ormai interessare anche i Paesi del Sud del mondo, considerato che oggi siamo di fronte all’evidenza di quanto Albert Tévoédjrè denunciò già nel 1978 nel volume La povertà, ricchezza dei popoli: l’assurdità del mimetismo culturale e industriale, i falsi bisogni, l’assenza di misura della società della crescita, la disumanizzazione dei rapporti sociali dominati dal denaro, la distruzione dell’ambiente elogiando nel contempo la sobrietà dell’autoproduzione delle piccole comunità tradizionali, come quella africana da lui ben conosciuta.
L’auto-organizzazione degli esclusi dalla modernità costituisce un esempio di costruzione di società autonoma, ed economa, in condizioni di infinita precarietà, che non deve quasi nulla alle élite locali. Un’alternativa autentica, costretta suo malgrado a subire la persistente minaccia di una globalizzazione arrogante e bellicosa.Cesec-CondiVivere 2014.12.06 Africa 003Dopo aver corrotto l’Africa ufficiale, la colonizzazione dell’immaginario minaccia sempre più anche quell’altra: media internazionali, radio, televisione, internet, finanza assistenzialista erodono la coesione sociale al punto che – ancora oggi – i paradisi posticci del Nord del mondo appaiono ai giovani ben più appetibili rispetto al loro inferno locale.
L’invasione di beni di consumo cinesi a prezzi stracciati mette anche qui in crisi quegli artigiani del riciclo che avevano battuto la concorrenza delle esportazioni europee, mentre i processi di emulazione minano la solidarietà che cementava l’universo alternativo.
E infine: macchine scassate, telefonini fuori uso, computer riciclati, rifiuti di ogni sorta dell’Occidente. Una società dei consumi di seconda mano che come un cancro divora le esistenze, segnata da un inquinamento dilagante senza né misura né ritegno. Chi in queste condizioni non sarebbe incazzato e divorato dal desiderio di rivalsa?
E tutto questo senza abdicare a quanto scrissi su queste stesse pagine il 14 marzo scorso nell’articolo intitolato Africa: quando i regali sono inutili.
L’unica speranza rimane la crisi in atto: che colpisca definitivamente i paesi del Nord, in tempo per lasciare al resto del mondo un po’ di speranza.
Certo, noi Occidentali non andremo più in vacanza alle Seychelles. Del resto già oggi è sempre più difficile andarci alle condizioni che ci siamo imposti nell’età dell’oro del consumismo chilometrico, che appartiene ormai al passato.
Chi si ricorda più di quando il compassato Financial Times sottotitolò Il turismo sarà considerato sempre più il nemico pubblico numero uno dell’ambiente l’articolo Welcome to the age of less a firma di Richard Tomkins pubblicato il 10 novembre 2006? Accadde allorché Richard Branson, fondatore di Virgin, lanciò l’idea dei viaggi turistici spaziali.
Che il gusto di viaggiare e il desiderio di avventura siano parte dell’animo umano va benissimo. Costituiscono una fonte di arricchimento che non deve inaridirsi, ma la curiosità legittima e il desiderio di conoscenza si sono trasformati in consumo commerciale e distruttivo dell’ambiente, della cultura e del tessuto sociale dei paesi target dell’industria turistica. Oggi qualsiasi bifolco, purché possa permetterselo, può andare ovunque e tornare sentenziando “ho fatto” lo Yucatan, piuttosto che lo Yemen o il Chenesò senza aver visto altro che il resort nel quale era confinato e il paesaggio dal finestrino del Land Cruiser che lo porta spot da qualche parte, può ammorbare vicini, conoscenti e amici con i propri inutili selfies, senza aver compreso un accidente del luogo che non ha visitato, e non lasciare nulla di suo, tranne qualche dollaro di elemosina in mance, acquisti di paccottiglia o, nei casi peggiori, uso sessuale di minorenni.
La mania di spostarsi sempre più lontano, sempre più rapidamente, sempre più spesso, e spendendo sempre meno, questo bisogno in gran parte artificiale indotto dal nulla, esacerbato dai media, sollecitato dai tour operator e da tutto l’indotto della macchina turistica deve essere ridimensionato.
Essendo di rapina, questo turismo non è rispettoso dei paesi visitati e dei loro abitanti, e non è assolutamente vero che costituisca un aiuto: per ogni 1.000 Euro spesi per una vacanza solo poco più di 150 rimangono nel paese ospite.
In futuro, anzi già sta accadendo ora, la penuria di risorse energetiche ed economiche, i cambiamenti climatici, le tensioni politiche e sociali ci imporranno di viaggiare sempre meno lontano, meno spesso e meno rapidamente. E a prezzi sempre più alti.
In realtà la prospettiva è drammatica solo per chi deve colmare il vuoto e il disincanto indotti da chi tenta di farci vivere sempre più virtualmente, viaggiando però concretamente a spese del pianeta.Cesec-CondiVivere 2014.12.06 Africa 004Forse è arrivato il momento di riappropriarci della saggezza. Ma come sempre 90/10: ci sarà chi soccomberà e chi no.
Intendiamoci, non sono un Templare della Decrescita, però possiedo una grave limitazione: penso. Oltretutto con la mia testa, e non mi importa il classico accidente se le mie opinioni, e soprattutto il mio sentire, sono fuori dal coro. Anzi.
In ogni caso non mi piacciono i fervorini annegati nella melassa dello sviluppo sostenibile, che denunciano la frenesia delle attività umane o l’imballarsi del macchinario del progresso del quale, se sicuramente non siamo il motore, siamo però gli ingranaggi e perfino i lubrificatori e gli addetti al rifornimento.
Andremo a sbattere contro il muro, prima o poi, ed io sinceramente spero più prima che poi, in modo che questo Moloch criminale e criminogeno vada in pezzi. Così potremo, con qualche utile frammento recuperato, ricostruire un mondo veramente sostenibile. Fino alla prossima volta.
Oggi ci vengono proposti obbrobri come lo sviluppo sostenibile, continuamente invocati in modo incantatorio e che mi sono stancato di chiamare ossimori ma ai quali preferisco attribuire il nome che meritano: truffe, per convincerce del cambiamento in corso attraverso una rottura tranquilla, utile solo a mascherare il non cambiamento. Per mantenere intonsi i profitti, evitare il mutare delle abitudini e cambiare rotta di pochi gradi, giusto per far vedere ai crocieristi che la scia si è modificata, mentre il pianista nel salone delle feste strimpella con sempre maggiore fervore.
Forse la verità è che si preoccupano per noi e non vogliono renderci infelici… E invece sarebbe una gran cura, addirittura la migliore delle cure possibili: una bella stramusata di realtà che ci metta una volta per tutte di fronte alla fatica di vivere, allo specchio dove riflettere tutta l’inutilità dei giocattolini dei quali ci circondiamo per compensare l’orrore del vuoto, il terrore del silenzio.

Alberto C. Steiner

Land Grabbing e vergini dai candidi manti

Oltre il non profit, c’è un settore che punta a coniugare reddito, etica e sostenibilità. L’articolo, pubblicato dal settimanale Il Mondo del 22 novembre con un sottotitolo dal sapore vagamente inquietante di slogan: Siamo utili, e facciamo utili ci fornisce lo spunto per parlare di un argomento che da gran tempo, in particolare da quando a Milano ed in altre città italiane si è tenuto il Forum della finanza sostenibile, è nelle nostre corde. Vale a dire, quando la finanza dai denti a sciabola indossa l’abito di scena etico e solidale. Che lor signori, come scriveva l’indimenticato Fortebraccio, facciano utili è pleonastico. Se siano utili è altrettanto induscutibile: in questo scritto cercheremo di portare il nostro contributo per stabilire a chi siano utili.
L’articolo celebra la finanza buona, affermando che in America è ormai una realtà mentre in Europa sta muovendo i primi passi. Vero: titoli tossici, dark pool, speculazione non smettono di essere sotto i riflettori. ma finalmente l’attenzione di istituzioni internazionali e banche d’affari sembra rivolgersi al cosiddetto impact investing, vale a dire gli investimenti che pur generando profitti hanno effetti positivi sulla società e sull’ambiente.
Apparentemente un ottimo segnale, generato dalla maturata consapevolezza dei rischi ecosociali che corre il nostro pianeta: se ne discute, se ne scrive sui giornali, se ne traggono dibattiti e trasmissioni televisive. Insomma, l’argomento è cool e, come tutte le cose trendy non poteva non attirare l’attenzione della finanza. La gente sembra sempre più orientata ad investire i propri risparmi in banche etiche, cohousing ecosostenibili, gruppi di acquisto solidale. Addirittura in autocostruzione edilizia coresidenziale o in attività di microcredito che si svolgono fra privati scavalcando le istituzioni creditizie: la legge lo consente, ma la finanza tradizionale o fa buon viso a cattivo gioco e lascia perdere o si veste da ecosostenibile nonché solidale per non lasciarsi sfuggire il pallino. E il boccone.
Naturalmente non può intervenire subito a succhiare da questo nuovo capezzolo, per una ragione d’immagine. Checché se ne dica anche la peggiore finanza abbisogna di consenso per non sembrare onnivora, bulimica, senza ritegno, accentratrice. Però la finanza, quella vera, è come la chiesa: sa e può aspettare. E allora prende il giro largo: inizia a fare le cose in grande, coinvolgendo investitori istituzionali, governi, creando movimenti di opinione attraverso i media. Non dimentichiamo a chi appartengono, prevalentemente, i mezzi di informazione.
Non stiamo farneticando: ciò che scriviamo lo insegnano in tutti i corsi universitari di sociologia, psicologia delle masse, e naturalmente economia.
Fermo restando che, come affermiamo spesso, l’ultima conversione di cui abbiamo avuto notizia è quella dell’Innominato, ecco che dall’ultimo G8 è scaturita l’istituzione di una task force (duro a morire il vizio di adottare termini di sapore militare, guerriero, combattivo…) riunitasi in ottobre per fornire indicazioni operative e di policy sulla regolamentazione dei Social Impact Investment, mentre dal canto suo l’Ocse sta inventariando tutte le esperienze mondiali per un report che sarà diffuso nel 2014. Non da meno è il Consiglio Europeo, che con un apposito regolamento ha introdotto un passaporto per i fondi che investono almeno il 70% in imprese sociali affinché i gestori che scelgono di aderire al regime EUSEF, European Social Entrepreneurship Funds, fondi per l’imprenditorialità sociale, possano commercializzarli liberamente in tutta l’Unione. Piatto ricco mi ci ficco, suol dirsi… E infatti alla nuova corsa all’oro con il vestitino eticosolidale non poteva naturalmente mancare la BEI, Banca Europea per gli Investimenti, scesa in campo lanciando attraverso il Fondo Europeo per gli Investimenti il SIA, Social Impact Accelerator, fondo di fondi in inedita partnership con Crédit Coopératif e Deutsche Bank.

Primo cameo, ovvero di come giovi rammentare che il lupo, anzi der Wolf, das Haar verliert
… La banca tedesca è stata condannata nel settembre 2012 dal giudice milanese Oscar Magi alla confisca di beni per 88 milioni di Euro, in concorso con Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank per la truffa sui derivati stipulati dal Comune di Milano nel 2005.
A volte ritornano… ed ecco che proprio l’elvetica Ubs ha istituito in ottobre il suo primo fondo impact dedicato a investimenti in piccole e medie imprese nei mercati emergenti, che avrebbe già raccolto oltre 50 milioni di franchi e considera settori target sanità, istruzione, accesso al credito, infrastrutture di base, sviluppo agricolo.
Quanto a Jp Morgan, le sue proiezioni affermano che nel 2023 il giro d’affari dell’impact investing assommerà a 400 milioni di dollari, solo negli Usa.

Secondo cameo, ovvero della finanza buona…
… quella che in America è ormai una realtà, e di come gli squali si mangiarono una bella idea in difficoltà: c’era una volta in Gran Bretagna… la Co-operative Bank, il più grande gruppo mutualistico britannico fondato nel 1844 dall’associazione di mutuo soccorso Rochdale Pioneers e forte di quasi 5 milioni di clienti, ma con un buco in bilancio da 1,5 miliardi di sterline. L’anno scorso due hedge fund americani hanno costretto la banca britannica a cedere il 75% del pacchetto azionario firmando un accordo che ha di fatto detto addio all’etica e spianato la via al licenziamento di migliaia dei 10mila dipendenti. Nell’occasione Dominic Hooki, segretario generale del sindacato Unite the Union, ha dichiarato: E’ un giorno tragico per il paese ed il quotidiano The Guardian ha commentato: Da oggi i cittadini hanno  minori possibilità di scelta e il paese si ritrova con un’altra banca che perseguirà gli interessi degli azionisti invece di provare a migliorare il settore del credito, ed anche il governo ne esce sconfitto: era stato proprio Cameron a scommettere sulle banche cooperative come possibile alternativa sostenibile al sistema bancario tradizionale, spesso accusato di fare affari alle spalle dei cittadini in difficoltà.

Considerato che the Venture must go on
… torniamo a parlare del nuovo che avanza. Anche da noi molto si muove, ed ecco l’assist dello sdoganamento attuato dal tempio delle scienze economiche mainstream: poteva mai mancare l’ennesimo osservatorio? A colmare la lacuna ci ha pensato la Sda Bocconi inaugurando l’Osservatorio Impact Investing, nella cui executive room siedono antesignani del venture capital sociale, docenti di studi giuridici ed esperti di impact finance.
Non facciamo pubblicità e non tiriamo la volata a nessuno perciò non riferiamo né nomi né marchi, chi vuole può leggere l’articolo citato in premessa o servirsi di Google. Uno di questi fondi etici viene citato ripetutamente poiché, dopo sette anni di attività e 13 investimenti in portafoglio per complessivi 7 milioni, ha appena ceduto una società di housing sociale al socio operativo, una cooperativa, e intanto si sta preparando l’uscita da due cooperative sociali. Un’operazione finanziaria in piena regola che si avvale indirettamente del meccanismo cooperativistico, e siamo certi che le cooperative utilizzatrici finali sapranno fare uso adeguato dell’esperienza, del patrimonio e dell’autonomia conseguiti.
Intanto la Fondazione Giordano dell’Amore e BNL-Bnp Paribas hanno deciso di partecipare con Crt e Fondo europeo per gli investimenti ad un’iniziativa da 18 milioni di euro per lanciare il primo Microcredit Bond d’Europa, diffuso per ora solo tra fondazioni, family office e privati con grandi patrimoni e, quando inizieranno ad emergere i primi casi di successo, anche tra i gestori di fondi, nella speranza che nel frattempo giunga anche in italia una parte delle risorse del Social impact Accelerator lanciato dalla Bei.

Una menzione particolare merita invece la Fondazione Acra
… nota per promuovere lo sviluppo nei Paesi poveri attraverso la diffusione di cognizioni tecniche e competenze progettuali, particolarmente nel settore agrario. L’anno scorso ha dato vita con Altromercato, Fondazione Fem e Microventures, alla Fondazione Opes che ha lanciato Opes Impact Fund, primo veicolo italiano che, individuando come target le imprese sociali attive nei Paesi in via di sviluppo, ha già raccolto 2,6 milioni di euro e fatto i primi investimenti in due imprese sociali in Kenya, contando di attuarne altrettanti entro fine anno per partire nel 2014 con una massiccia campagna di fund raising.
L’attività di Opes è degna di nota in quanto raccoglie mezzi a titolo di dono e non puntando a rendimenti di mercato ma esclusivamente a recuperare quanto investito per utilizzarlo in altre iniziative, facendo il possibile perché non accada quanto di cui stiamo per parlare nel nostro

Terzo cameo, ovvero di come in Africa il colonialismo non sia morto…
… e la corsa alla terra continui dietro il paravento della solidarietà: gli investitori cercano di convincere le popolazioni locali – e l’opinione pubblica mondiale – che i progetti favoriscono il benessere e riducono la povertà. E invece, almeno secondo quanto afferma Oxfam, rete di organizzazioni non governative: il 60 per cento dei soggetti privati che comprano porzioni di terra ha come obiettivo esportare tutto quello che produce. Secondo un’indagine effettuata dal francese Cirad, Centre Internationaux de Recherche Agriculture et Développement, la metà delle coltivazioni avviate non produce cibo bensì prevalentemente biocarburanti. Considerando infine che le terre sono cedute a prezzi ridicoli, vale a dire tra i 70 centesimi di dollaro ed i 100 dollari annui per ettaro con contratti di durata cinquantennale o centennale, spesso versati direttamente nei conti delle élite governative, non rimane molto per sfamare le popolazioni locali.Terra Africa 001Le terre acquisite dagli investitori stranieri sono talvolta marginali e disabitate anche se potenzialmente produttive, ma in altri casi sono fertili ed abitate da comunità rurali che, quando viene accordata la concessione, devono cedere il posto all’investitore dando luogo al fenomeno descritto con il termine vagamente burocratico di displacement, trasferimento. Detto in altri termini, vengono deportate.
Stime sul numero di displacements, ovviamente, nessuna. Ma storie drammatiche tante, specialmente a carico delle comunità di quelle aree ambite dalle multinazionali del carbone o di altre risorse minerarie che ottengono diritti di estrazione su milioni di ettari, causando il trasferimento di migliaia di famiglie in zone non infrequentemente prive di accesso al cibo e all’acqua.
In tutto il mondo si parla di oltre 900 contratti transnazionali firmati tra governi e investitori, che spesso millantano promesse di sviluppo e solidarietà sociale, per la cessione di terre, per un totale di oltre 40 milioni di ettari, fenomeno che il mondo accademico definisce con l’espressione gesuitica di acquisizione di terre su larga scala, mentre gli investitori preferiscono locuzioni come opportunità di sviluppo o prospettiva win-win. Quei tipi stravaganti che noi definiamo Società Civile lo chiamano invece con il nome che gli spetta: land grabbing, accaparramento delle terre.

E qui cominciamo a fare un po’ di conti
… se paghiamo il terreno 100 dollari per ettaro anziché 1.000 abbiamo già maturato una plusvalenza di 900 dollari senza nessuno sforzo, e l’area nel computo dei costi gestionali incide per il 2 anziché per il 20%. Ai risparmiatori possiamo anche accordare un bel 3% annuo di interesse sui capitali investiti, affermando: visto che anche la finanza etica può garantire ottimi rendimenti? I numeri sono inventati, ma il principio è chiarissimo. E passiamo al

Quarto cameo: il Mozambico non esiste.
L’affermazione, pronunciata con intento provocatorio il 4 giugno di quest’anno al festival dell’economia di Trento dal sociologo mozambicano e docente all’Università di Basilea Elisio Macamo, è la fotografia dell’Africa. Le sorti di Paesi come il Mozambico, dipendenti dagli aiuti esterni per almeno due terzi del bilancio nazionale, sono legate al rapporto di sudditanza della società rispetto agli agenti dello sviluppo: cooperative, ong, onlus e via enumerando. Chi organizza gli interventi umanitari detta legge ed i parlamenti non discutono quello che viene deciso dai gestori dei fondi per lo sviluppo.
In sostanza, oggi in buona parte dell’Africa subsahariana un’idea o un’iniziativa assumono lo status di verità solo se legate agli aiuti allo sviluppo.
Intanto i contadini di un villaggio che ai tempi dei colonizzatori portoghesi si chiamava João Belo affermano: Stavamo meglio prima che arrivassero i cinesi. In questa zona sulla rive del fiume Limpopo 20mila ettari di risaie hanno preso il posto delle machambas, i campi coltivati con metodi tradizionali: i cinesi sono arrivati, hanno rimosso i campi, drenato i canali d’acqua e occupato le terre.

Il crescente interesse per l’acquisto di porzioni di terra
… è dettato da problemi estremamente attuali: aumento della popolazione mondiale e crisi dei prezzi degli alimenti, fenomeni che hanno condotto alcuni paesi – soprattutto quelli arabi che non dispongono di aree coltivabili – ad acquisire terre per rafforzare la loro sicurezza alimentare. Noi non siamo da meno: il timore legato al riscaldamento globale ha motivato le politiche sulle energie rinnovabili di Stati Uniti e Unione Europea, facendo conseguentemente crescere la domanda di terre da destinare alla produzione di biocarburanti. Se, infine, stati come il Brasile rovinano l’ambiente di casa propria per sostenere lo sviluppo, altri paesi emergenti come l’India e la Cina soddisfano la crescente fame di materie prime acquisendo vaste superfici di terra da destinare all’esplorazione e all’estrazione mineraria.
Al Forum sulla finanza solidale abbiamo sentito un intervento esilarante: si parlava di quanto la Cina fosse avanti sotto il profilo della tutela ambientale del territorio. Del proprio.
Parliamoci chiaro: quando si citano le fonti rinnovabili si intende dire che la quantità totale di quella fonte non cambia significativamente durante il suo uso. Per esempio, se abbiamo un pollaio le cose vanno bene finché mangiamo al massimo tante uova quante le nostre galline sono capaci di produrre. Se ogni giorno mangiamo 10 uova e le nostre galline ne fanno 8, i conti non possono tornare.
Se usiamo legna per scaldarci la casa, la risorsa è rinnovabile solo se quella che usiamo viene rigenerata nel tempo durante il quale la bruciamo.
Lo stesso discorso vale per carbone e petrolio che hanno impiegato milioni di anni per formarsi, ma il ritmo con cui vengono utilizzati è enormemente più veloce della loro formazione. L’uranio invece non è rinnovabile: la sua presenza sul pianeta è modesta rispetto alle esigenze, e non si rigenera in nessun modo.
Le fonti rinnovabili, quelle vere, sono quelle che seguono i cicli della natura: acqua, vento, maree. Oppure sono talmente abbondanti che nessun consumo può spaventare. Il sole continuerà ad inviare la sua luce e le sue onde elettromagnetiche anche dopo che la Terra si sarà volatilizzata. Cosa che succederà, se nel frattempo non combiniamo disastri, tra non meno di  4 o 5 miliardi di anni.
Nel mondo l’80% dell’energia viene prodotta per il 35% con petrolio, per il 25% con carbone, per il 21% con gas, per il 10% con biomasse e per il 6,5% con energia nucleare, mentre l’idroelettrico e le nuove rinnovabili rappresentano appena rispettivamente il 2 e l’1%, pur essendo tuttavia in crescita costante nell’ultimo triennio.
Energia e cibo, i bisogni primari sui quali si basa l’attuale società che non cessa di pensare in termini di sviluppo. E questo sviluppo non può che essere supportato da risorse finanziarie.Cesec - Congo bambino soldatoFinito il tempo delle colonie, gli stati indipendenti sorti a partire dal 1948 quando non rimangono legati a doppio filo agli ex-coloni sono oggetto delle attenzioni di altri corteggiatori, che magari millantano ragioni umanitarie, di libertà dall’oppressione di tiranniche dittature, di investimenti per l’energia, la sanità, la cultura. Giusto di passaggio, non dimentichiamo la miriade di microconflitti, micro ma non per questo meno sanguinosi e feroci, che da oltre un cinquantennio affliggono l’Africa con il vero fine dell’accaparramento di legname e frutta pregiati, petrolio, uranio, coltan, oro, cadmio, diamanti… dobbiamo continuare l’elenco?

E’ innegabile che gli investimenti portano lavoro
… attraverso l’assunzione di manodopera locale ma, comunque si decida di chiamarla, la corsa alla terra comporta conseguenze che si ripercuotono sulla vita quotidiana delle comunità, influenzano gli equilibri geopolitici dei paesi e persino l’ecosistema.
Gli investimenti potrebbero essere un fatto positivo per le comunità rurali ma, come afferma Gisela Zunguze di Justiça ambiental, organizzazione non governativa mozambicana per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità locali: L’articolo 109 della costituzione mozambicana sancisce che l’uso della terra spetta al popolo e prevede che si svolgano tre consultazioni popolari per decidere le modalità di trasferimento della terra a un investitore privato. Ma le consultazioni non sempre avvengono come dovrebbero, perché non coinvolgono le comunità nel processo decisionale.

Pochi ma virtuosi
… per esempio il caso di Michele Sammartini, imprenditore italiano titolare di una grande azienda agricola in Mozambico, che accosta l’agricoltura industriale all’immagine di un’astronave che atterra in villaggi abituati ai ritmi lenti del modello di sussistenza, affermando come i progetti irrompano nelle tradizioni locali sconvolgendo la vita delle persone ma fornendo l’opportunità, in una visione illuminata, di portare qualcosa dando alle persone gli strumenti tecnici affinché un giorno possano farcela da soli. Un approccio non semplice e dagli effetti non immediati, che ha però permesso alla sua azienda di non venire mai contestata dalle popolazioni locali.

Ma gli anelli deboli nella catena degli investimenti…
… sono spesso i governi locali, che dovrebbero mediare tra le organizzazioni investitrici e la popolazione, limitando gli effetti negativi ed imponendo misure di controllo a tutela delle comunità locali. Ma ciò avviene raramente, e non è un caso se gran parte delle acquisizioni di terre è concentrato in Paesi che registrano indici di corruzione preoccupanti. E questo rischia di compromettere il valore dei progetti di investimento solidale. A meno che l’investimento non riponga parte della propria forza proprio in quell’atout.
Resta il fatto che, come sostiene la Banca Mondiale, nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di persone in più da sfamare, e per riuscire a soddisfare i loro bisogni sarà necessario aumentare del 70 per cento la produzione agricola globale. Un ragionamento che si sostanzia nello slogan feed the world, ripreso da colossi del settore alimentare come Monsanto e Cargill. Ma se la Fao rileva una crescita della domanda globale di alimenti dovuta all’aumento demografico, Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione spiega: è vero anche che oggi si produce una quantità di cibo sufficiente a sfamare 12 miliardi di persone, a fronte di una popolazione mondiale di 7 miliardi.
A mancare quindi non è il cibo ma una distribuzione efficiente e il reddito per accedere alle risorse. A parte gli sprechi denunciati da Vandana Shiva e dei quali anche noi abbiamo già parlato a suo tempo.
Intanto, in attesa di regole internazionali il land grabbing da parte delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo continua a devastare la terra africana mentre i prezzi dei prodotti alimentari salgono e la domanda di biocarburanti cresce.
E la finanza, anche quella che si autopromuove etica  non fa altro che investire in queste risorse. Ma noi crediamo che non possa farlo in modo etico finché il contesto è tutt’altro che etico. Come la mettiamo quindi? Quali sono pertanto le risorse sulle quali va ad investire? Ed in quale modo? Stiamo per assistere ad una nuova ondata di Pilgrim Financial Fathers che, armati di sola incrollabile fede ecosolidale andranno incontro ai Kalashnikov dei mercenari o, come si dice farisaicamente, contractors assoldati per difendere i privilegi delle multinazionali? Delle stesse multinazionali che loro stessi hanno sinora finanziato e delle quali possiedono pacchetti azionari rilevanti?

In attesa di un’eventuale risposta, che presumibilmente non giungerà mai, cambiamo argomento.
Non ci appare chiaro il progetto illustrato nelle scorse settimane dalla Uman Foundation di Giovanna Melandri, nota per avere affermato in un’intervista a Panorama: Lo prenderò da settembre-ottobre in riferimento allo stipendio in qualità di presidente del Maxxi, per mettere fine alle polemiche su una nomina considerata politica e senza la necessaria esperienza per gestire un museo, e specificando: Nell’ottobre 2012, quando ho accettato l’incarico, sapevo che il Maxxi era una fondazione e che in base alla legge Tremonti avrei prestato la mia opera gratuitamente. Legge sbagliatissima, me lo si lasci dire, perché la cultura ha bisogno di grandi manager, e questi vanno pagati (accatitipì://www.huffingtonpost.it/2013/07/27/giovanna-melandri-stipendio_n_3662698.html – Giovanna Melandri non lavorerà più gratis per il Maxxi. Arriva lo stipendio).”
L’ex ministro Pd ai beni culturali ha messo sul tavolo la proposta di un SIB, Social Impact Bond, per il reinserimento dei detenuti sul modello di quello lanciato dal governo britannico nel 2010, che consiste nel raccogliere capitali privati con i quali finanziare un percorso di avviamento al lavoro dopo l’uscita dal carcere. Viene dichiarato che il ritorno finanziario è proporzionale alla riduzione del tasso di recidività ma, escludendo interventi come quello della fatina dei dentini, pur con tutta la nostra buona volontà non siamo riusciti a capire come funzioni. Forse un giorno qualcuno ci illuminerà.
E per concludere in bellezza non ci resta che collocare in pista tra le new entry, ma più che altro old-entry rifatte, della finanza sostenibile anche l’ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, appellata il 13 maggio 2011 da Vittorio Malagutti su Il Fatto Quotidiano la manager con il buco intorno, in ragione della sua Securfin Holding che perse 11 milioni nel 2006, 112 milioni l’anno successivo, 45 nel 2008 ed altri 20 nel 2009, nonché famosa per essere scesa in corteo insieme ai milanesi per protestare contro la criminalità e gridando slogan contro il sindaco; essendosi accorta che era lei il sindaco prese ad inveire contro se stessa (accatitipì://www.nonciclopedia.wikia.com/wiki/Letizia_Moratti). Ovviamente la citiamo funzionalmente al rilancio della Fondazione San Patrignano, che com’è ben noto della solidarietà sociale ha fatto il proprio vessillo ben prima che il barone Karl von Drais inventasse quanto lo consegnò alla Storia, ed è praticamente in odore di santità: opererà ancora più all’insegna di un profilo etico e solidale.
E, dopo il caffè, torniamo al Forum per la finanza sostenibile, dove due esponenti di MainStreet Partners, boutique londinese indipendente di consulenza, hanno spiegato a Ceo di fondazioni non profit ed a private banker come strutturare un portafoglio ad alto impatto sociale e come coinvolgere anche la massa dei piccoli investitori – quelli che un tempo erano chiamati parco buoi – coniugando la ricerca di stabilità del portafoglio e di ottimizzazione del rapporto rischio/rendimento con considerazioni e obiettivi di carattere etico, sociale e ambientale. Giusto! ma dopo il caffè arriva il conto: saranno come sempre i piccoli investitori a pagarlo?
Ok, chiaro il concetto del land grabbing ma… e le vergini dai candidi manti di cui al titolo? Boh, fate voi.
Potremmo considerare concluso qui il nostro scritto ma, per dovere di completezza, parliamo brevissimamente di microcredito: almeno questa è un’esperienza positiva che ci consente di ritrovare il sorriso. Su questo fronte annoveriamo le attività di Fondazione Cariplo, il cui fondo di fondi Microfinanza 1 ha raccolto nel 2012 ben 84 milioni, e del consorzio Etimos, promotore di Etimos Global Microfinance Debt, fondo chiuso di debito che eroga mutui commerciali a istituzioni di microfinanza e cooperative di produzione.

Alberto C. Steiner