Oltre il non profit, c’è un settore che punta a coniugare reddito, etica e sostenibilità. L’articolo, pubblicato dal settimanale Il Mondo del 22 novembre con un sottotitolo dal sapore vagamente inquietante di slogan: Siamo utili, e facciamo utili ci fornisce lo spunto per parlare di un argomento che da gran tempo, in particolare da quando a Milano ed in altre città italiane si è tenuto il Forum della finanza sostenibile, è nelle nostre corde. Vale a dire, quando la finanza dai denti a sciabola indossa l’abito di scena etico e solidale. Che lor signori, come scriveva l’indimenticato Fortebraccio, facciano utili è pleonastico. Se siano utili è altrettanto induscutibile: in questo scritto cercheremo di portare il nostro contributo per stabilire a chi siano utili.
L’articolo celebra la finanza buona, affermando che in America è ormai una realtà mentre in Europa sta muovendo i primi passi. Vero: titoli tossici, dark pool, speculazione non smettono di essere sotto i riflettori. ma finalmente l’attenzione di istituzioni internazionali e banche d’affari sembra rivolgersi al cosiddetto impact investing, vale a dire gli investimenti che pur generando profitti hanno effetti positivi sulla società e sull’ambiente.
Apparentemente un ottimo segnale, generato dalla maturata consapevolezza dei rischi ecosociali che corre il nostro pianeta: se ne discute, se ne scrive sui giornali, se ne traggono dibattiti e trasmissioni televisive. Insomma, l’argomento è cool e, come tutte le cose trendy non poteva non attirare l’attenzione della finanza. La gente sembra sempre più orientata ad investire i propri risparmi in banche etiche, cohousing ecosostenibili, gruppi di acquisto solidale. Addirittura in autocostruzione edilizia coresidenziale o in attività di microcredito che si svolgono fra privati scavalcando le istituzioni creditizie: la legge lo consente, ma la finanza tradizionale o fa buon viso a cattivo gioco e lascia perdere o si veste da ecosostenibile nonché solidale per non lasciarsi sfuggire il pallino. E il boccone.
Naturalmente non può intervenire subito a succhiare da questo nuovo capezzolo, per una ragione d’immagine. Checché se ne dica anche la peggiore finanza abbisogna di consenso per non sembrare onnivora, bulimica, senza ritegno, accentratrice. Però la finanza, quella vera, è come la chiesa: sa e può aspettare. E allora prende il giro largo: inizia a fare le cose in grande, coinvolgendo investitori istituzionali, governi, creando movimenti di opinione attraverso i media. Non dimentichiamo a chi appartengono, prevalentemente, i mezzi di informazione.
Non stiamo farneticando: ciò che scriviamo lo insegnano in tutti i corsi universitari di sociologia, psicologia delle masse, e naturalmente economia.
Fermo restando che, come affermiamo spesso, l’ultima conversione di cui abbiamo avuto notizia è quella dell’Innominato, ecco che dall’ultimo G8 è scaturita l’istituzione di una task force (duro a morire il vizio di adottare termini di sapore militare, guerriero, combattivo…) riunitasi in ottobre per fornire indicazioni operative e di policy sulla regolamentazione dei Social Impact Investment, mentre dal canto suo l’Ocse sta inventariando tutte le esperienze mondiali per un report che sarà diffuso nel 2014. Non da meno è il Consiglio Europeo, che con un apposito regolamento ha introdotto un passaporto per i fondi che investono almeno il 70% in imprese sociali affinché i gestori che scelgono di aderire al regime EUSEF, European Social Entrepreneurship Funds, fondi per l’imprenditorialità sociale, possano commercializzarli liberamente in tutta l’Unione. Piatto ricco mi ci ficco, suol dirsi… E infatti alla nuova corsa all’oro con il vestitino eticosolidale non poteva naturalmente mancare la BEI, Banca Europea per gli Investimenti, scesa in campo lanciando attraverso il Fondo Europeo per gli Investimenti il SIA, Social Impact Accelerator, fondo di fondi in inedita partnership con Crédit Coopératif e Deutsche Bank.
Primo cameo, ovvero di come giovi rammentare che il lupo, anzi der Wolf, das Haar verliert…
… La banca tedesca è stata condannata nel settembre 2012 dal giudice milanese Oscar Magi alla confisca di beni per 88 milioni di Euro, in concorso con Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank per la truffa sui derivati stipulati dal Comune di Milano nel 2005.
A volte ritornano… ed ecco che proprio l’elvetica Ubs ha istituito in ottobre il suo primo fondo impact dedicato a investimenti in piccole e medie imprese nei mercati emergenti, che avrebbe già raccolto oltre 50 milioni di franchi e considera settori target sanità, istruzione, accesso al credito, infrastrutture di base, sviluppo agricolo.
Quanto a Jp Morgan, le sue proiezioni affermano che nel 2023 il giro d’affari dell’impact investing assommerà a 400 milioni di dollari, solo negli Usa.
Secondo cameo, ovvero della finanza buona…
… quella che in America è ormai una realtà, e di come gli squali si mangiarono una bella idea in difficoltà: c’era una volta in Gran Bretagna… la Co-operative Bank, il più grande gruppo mutualistico britannico fondato nel 1844 dall’associazione di mutuo soccorso Rochdale Pioneers e forte di quasi 5 milioni di clienti, ma con un buco in bilancio da 1,5 miliardi di sterline. L’anno scorso due hedge fund americani hanno costretto la banca britannica a cedere il 75% del pacchetto azionario firmando un accordo che ha di fatto detto addio all’etica e spianato la via al licenziamento di migliaia dei 10mila dipendenti. Nell’occasione Dominic Hooki, segretario generale del sindacato Unite the Union, ha dichiarato: E’ un giorno tragico per il paese ed il quotidiano The Guardian ha commentato: Da oggi i cittadini hanno minori possibilità di scelta e il paese si ritrova con un’altra banca che perseguirà gli interessi degli azionisti invece di provare a migliorare il settore del credito, ed anche il governo ne esce sconfitto: era stato proprio Cameron a scommettere sulle banche cooperative come possibile alternativa sostenibile al sistema bancario tradizionale, spesso accusato di fare affari alle spalle dei cittadini in difficoltà.
Considerato che the Venture must go on…
… torniamo a parlare del nuovo che avanza. Anche da noi molto si muove, ed ecco l’assist dello sdoganamento attuato dal tempio delle scienze economiche mainstream: poteva mai mancare l’ennesimo osservatorio? A colmare la lacuna ci ha pensato la Sda Bocconi inaugurando l’Osservatorio Impact Investing, nella cui executive room siedono antesignani del venture capital sociale, docenti di studi giuridici ed esperti di impact finance.
Non facciamo pubblicità e non tiriamo la volata a nessuno perciò non riferiamo né nomi né marchi, chi vuole può leggere l’articolo citato in premessa o servirsi di Google. Uno di questi fondi etici viene citato ripetutamente poiché, dopo sette anni di attività e 13 investimenti in portafoglio per complessivi 7 milioni, ha appena ceduto una società di housing sociale al socio operativo, una cooperativa, e intanto si sta preparando l’uscita da due cooperative sociali. Un’operazione finanziaria in piena regola che si avvale indirettamente del meccanismo cooperativistico, e siamo certi che le cooperative utilizzatrici finali sapranno fare uso adeguato dell’esperienza, del patrimonio e dell’autonomia conseguiti.
Intanto la Fondazione Giordano dell’Amore e BNL-Bnp Paribas hanno deciso di partecipare con Crt e Fondo europeo per gli investimenti ad un’iniziativa da 18 milioni di euro per lanciare il primo Microcredit Bond d’Europa, diffuso per ora solo tra fondazioni, family office e privati con grandi patrimoni e, quando inizieranno ad emergere i primi casi di successo, anche tra i gestori di fondi, nella speranza che nel frattempo giunga anche in italia una parte delle risorse del Social impact Accelerator lanciato dalla Bei.
Una menzione particolare merita invece la Fondazione Acra…
… nota per promuovere lo sviluppo nei Paesi poveri attraverso la diffusione di cognizioni tecniche e competenze progettuali, particolarmente nel settore agrario. L’anno scorso ha dato vita con Altromercato, Fondazione Fem e Microventures, alla Fondazione Opes che ha lanciato Opes Impact Fund, primo veicolo italiano che, individuando come target le imprese sociali attive nei Paesi in via di sviluppo, ha già raccolto 2,6 milioni di euro e fatto i primi investimenti in due imprese sociali in Kenya, contando di attuarne altrettanti entro fine anno per partire nel 2014 con una massiccia campagna di fund raising.
L’attività di Opes è degna di nota in quanto raccoglie mezzi a titolo di dono e non puntando a rendimenti di mercato ma esclusivamente a recuperare quanto investito per utilizzarlo in altre iniziative, facendo il possibile perché non accada quanto di cui stiamo per parlare nel nostro
Terzo cameo, ovvero di come in Africa il colonialismo non sia morto…
… e la corsa alla terra continui dietro il paravento della solidarietà: gli investitori cercano di convincere le popolazioni locali – e l’opinione pubblica mondiale – che i progetti favoriscono il benessere e riducono la povertà. E invece, almeno secondo quanto afferma Oxfam, rete di organizzazioni non governative: il 60 per cento dei soggetti privati che comprano porzioni di terra ha come obiettivo esportare tutto quello che produce. Secondo un’indagine effettuata dal francese Cirad, Centre Internationaux de Recherche Agriculture et Développement, la metà delle coltivazioni avviate non produce cibo bensì prevalentemente biocarburanti. Considerando infine che le terre sono cedute a prezzi ridicoli, vale a dire tra i 70 centesimi di dollaro ed i 100 dollari annui per ettaro con contratti di durata cinquantennale o centennale, spesso versati direttamente nei conti delle élite governative, non rimane molto per sfamare le popolazioni locali.Le terre acquisite dagli investitori stranieri sono talvolta marginali e disabitate anche se potenzialmente produttive, ma in altri casi sono fertili ed abitate da comunità rurali che, quando viene accordata la concessione, devono cedere il posto all’investitore dando luogo al fenomeno descritto con il termine vagamente burocratico di displacement, trasferimento. Detto in altri termini, vengono deportate.
Stime sul numero di displacements, ovviamente, nessuna. Ma storie drammatiche tante, specialmente a carico delle comunità di quelle aree ambite dalle multinazionali del carbone o di altre risorse minerarie che ottengono diritti di estrazione su milioni di ettari, causando il trasferimento di migliaia di famiglie in zone non infrequentemente prive di accesso al cibo e all’acqua.
In tutto il mondo si parla di oltre 900 contratti transnazionali firmati tra governi e investitori, che spesso millantano promesse di sviluppo e solidarietà sociale, per la cessione di terre, per un totale di oltre 40 milioni di ettari, fenomeno che il mondo accademico definisce con l’espressione gesuitica di acquisizione di terre su larga scala, mentre gli investitori preferiscono locuzioni come opportunità di sviluppo o prospettiva win-win. Quei tipi stravaganti che noi definiamo Società Civile lo chiamano invece con il nome che gli spetta: land grabbing, accaparramento delle terre.
E qui cominciamo a fare un po’ di conti…
… se paghiamo il terreno 100 dollari per ettaro anziché 1.000 abbiamo già maturato una plusvalenza di 900 dollari senza nessuno sforzo, e l’area nel computo dei costi gestionali incide per il 2 anziché per il 20%. Ai risparmiatori possiamo anche accordare un bel 3% annuo di interesse sui capitali investiti, affermando: visto che anche la finanza etica può garantire ottimi rendimenti? I numeri sono inventati, ma il principio è chiarissimo. E passiamo al
Quarto cameo: il Mozambico non esiste.
L’affermazione, pronunciata con intento provocatorio il 4 giugno di quest’anno al festival dell’economia di Trento dal sociologo mozambicano e docente all’Università di Basilea Elisio Macamo, è la fotografia dell’Africa. Le sorti di Paesi come il Mozambico, dipendenti dagli aiuti esterni per almeno due terzi del bilancio nazionale, sono legate al rapporto di sudditanza della società rispetto agli agenti dello sviluppo: cooperative, ong, onlus e via enumerando. Chi organizza gli interventi umanitari detta legge ed i parlamenti non discutono quello che viene deciso dai gestori dei fondi per lo sviluppo.
In sostanza, oggi in buona parte dell’Africa subsahariana un’idea o un’iniziativa assumono lo status di verità solo se legate agli aiuti allo sviluppo.
Intanto i contadini di un villaggio che ai tempi dei colonizzatori portoghesi si chiamava João Belo affermano: Stavamo meglio prima che arrivassero i cinesi. In questa zona sulla rive del fiume Limpopo 20mila ettari di risaie hanno preso il posto delle machambas, i campi coltivati con metodi tradizionali: i cinesi sono arrivati, hanno rimosso i campi, drenato i canali d’acqua e occupato le terre.
Il crescente interesse per l’acquisto di porzioni di terra…
… è dettato da problemi estremamente attuali: aumento della popolazione mondiale e crisi dei prezzi degli alimenti, fenomeni che hanno condotto alcuni paesi – soprattutto quelli arabi che non dispongono di aree coltivabili – ad acquisire terre per rafforzare la loro sicurezza alimentare. Noi non siamo da meno: il timore legato al riscaldamento globale ha motivato le politiche sulle energie rinnovabili di Stati Uniti e Unione Europea, facendo conseguentemente crescere la domanda di terre da destinare alla produzione di biocarburanti. Se, infine, stati come il Brasile rovinano l’ambiente di casa propria per sostenere lo sviluppo, altri paesi emergenti come l’India e la Cina soddisfano la crescente fame di materie prime acquisendo vaste superfici di terra da destinare all’esplorazione e all’estrazione mineraria.
Al Forum sulla finanza solidale abbiamo sentito un intervento esilarante: si parlava di quanto la Cina fosse avanti sotto il profilo della tutela ambientale del territorio. Del proprio.
Parliamoci chiaro: quando si citano le fonti rinnovabili si intende dire che la quantità totale di quella fonte non cambia significativamente durante il suo uso. Per esempio, se abbiamo un pollaio le cose vanno bene finché mangiamo al massimo tante uova quante le nostre galline sono capaci di produrre. Se ogni giorno mangiamo 10 uova e le nostre galline ne fanno 8, i conti non possono tornare.
Se usiamo legna per scaldarci la casa, la risorsa è rinnovabile solo se quella che usiamo viene rigenerata nel tempo durante il quale la bruciamo.
Lo stesso discorso vale per carbone e petrolio che hanno impiegato milioni di anni per formarsi, ma il ritmo con cui vengono utilizzati è enormemente più veloce della loro formazione. L’uranio invece non è rinnovabile: la sua presenza sul pianeta è modesta rispetto alle esigenze, e non si rigenera in nessun modo.
Le fonti rinnovabili, quelle vere, sono quelle che seguono i cicli della natura: acqua, vento, maree. Oppure sono talmente abbondanti che nessun consumo può spaventare. Il sole continuerà ad inviare la sua luce e le sue onde elettromagnetiche anche dopo che la Terra si sarà volatilizzata. Cosa che succederà, se nel frattempo non combiniamo disastri, tra non meno di 4 o 5 miliardi di anni.
Nel mondo l’80% dell’energia viene prodotta per il 35% con petrolio, per il 25% con carbone, per il 21% con gas, per il 10% con biomasse e per il 6,5% con energia nucleare, mentre l’idroelettrico e le nuove rinnovabili rappresentano appena rispettivamente il 2 e l’1%, pur essendo tuttavia in crescita costante nell’ultimo triennio.
Energia e cibo, i bisogni primari sui quali si basa l’attuale società che non cessa di pensare in termini di sviluppo. E questo sviluppo non può che essere supportato da risorse finanziarie.Finito il tempo delle colonie, gli stati indipendenti sorti a partire dal 1948 quando non rimangono legati a doppio filo agli ex-coloni sono oggetto delle attenzioni di altri corteggiatori, che magari millantano ragioni umanitarie, di libertà dall’oppressione di tiranniche dittature, di investimenti per l’energia, la sanità, la cultura. Giusto di passaggio, non dimentichiamo la miriade di microconflitti, micro ma non per questo meno sanguinosi e feroci, che da oltre un cinquantennio affliggono l’Africa con il vero fine dell’accaparramento di legname e frutta pregiati, petrolio, uranio, coltan, oro, cadmio, diamanti… dobbiamo continuare l’elenco?
E’ innegabile che gli investimenti portano lavoro…
… attraverso l’assunzione di manodopera locale ma, comunque si decida di chiamarla, la corsa alla terra comporta conseguenze che si ripercuotono sulla vita quotidiana delle comunità, influenzano gli equilibri geopolitici dei paesi e persino l’ecosistema.
Gli investimenti potrebbero essere un fatto positivo per le comunità rurali ma, come afferma Gisela Zunguze di Justiça ambiental, organizzazione non governativa mozambicana per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità locali: L’articolo 109 della costituzione mozambicana sancisce che l’uso della terra spetta al popolo e prevede che si svolgano tre consultazioni popolari per decidere le modalità di trasferimento della terra a un investitore privato. Ma le consultazioni non sempre avvengono come dovrebbero, perché non coinvolgono le comunità nel processo decisionale.
Pochi ma virtuosi…
… per esempio il caso di Michele Sammartini, imprenditore italiano titolare di una grande azienda agricola in Mozambico, che accosta l’agricoltura industriale all’immagine di un’astronave che atterra in villaggi abituati ai ritmi lenti del modello di sussistenza, affermando come i progetti irrompano nelle tradizioni locali sconvolgendo la vita delle persone ma fornendo l’opportunità, in una visione illuminata, di portare qualcosa dando alle persone gli strumenti tecnici affinché un giorno possano farcela da soli. Un approccio non semplice e dagli effetti non immediati, che ha però permesso alla sua azienda di non venire mai contestata dalle popolazioni locali.
Ma gli anelli deboli nella catena degli investimenti…
… sono spesso i governi locali, che dovrebbero mediare tra le organizzazioni investitrici e la popolazione, limitando gli effetti negativi ed imponendo misure di controllo a tutela delle comunità locali. Ma ciò avviene raramente, e non è un caso se gran parte delle acquisizioni di terre è concentrato in Paesi che registrano indici di corruzione preoccupanti. E questo rischia di compromettere il valore dei progetti di investimento solidale. A meno che l’investimento non riponga parte della propria forza proprio in quell’atout.
Resta il fatto che, come sostiene la Banca Mondiale, nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di persone in più da sfamare, e per riuscire a soddisfare i loro bisogni sarà necessario aumentare del 70 per cento la produzione agricola globale. Un ragionamento che si sostanzia nello slogan feed the world, ripreso da colossi del settore alimentare come Monsanto e Cargill. Ma se la Fao rileva una crescita della domanda globale di alimenti dovuta all’aumento demografico, Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione spiega: è vero anche che oggi si produce una quantità di cibo sufficiente a sfamare 12 miliardi di persone, a fronte di una popolazione mondiale di 7 miliardi.
A mancare quindi non è il cibo ma una distribuzione efficiente e il reddito per accedere alle risorse. A parte gli sprechi denunciati da Vandana Shiva e dei quali anche noi abbiamo già parlato a suo tempo.
Intanto, in attesa di regole internazionali il land grabbing da parte delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo continua a devastare la terra africana mentre i prezzi dei prodotti alimentari salgono e la domanda di biocarburanti cresce.
E la finanza, anche quella che si autopromuove etica non fa altro che investire in queste risorse. Ma noi crediamo che non possa farlo in modo etico finché il contesto è tutt’altro che etico. Come la mettiamo quindi? Quali sono pertanto le risorse sulle quali va ad investire? Ed in quale modo? Stiamo per assistere ad una nuova ondata di Pilgrim Financial Fathers che, armati di sola incrollabile fede ecosolidale andranno incontro ai Kalashnikov dei mercenari o, come si dice farisaicamente, contractors assoldati per difendere i privilegi delle multinazionali? Delle stesse multinazionali che loro stessi hanno sinora finanziato e delle quali possiedono pacchetti azionari rilevanti?
In attesa di un’eventuale risposta, che presumibilmente non giungerà mai, cambiamo argomento.
Non ci appare chiaro il progetto illustrato nelle scorse settimane dalla Uman Foundation di Giovanna Melandri, nota per avere affermato in un’intervista a Panorama: Lo prenderò da settembre-ottobre in riferimento allo stipendio in qualità di presidente del Maxxi, per mettere fine alle polemiche su una nomina considerata politica e senza la necessaria esperienza per gestire un museo, e specificando: Nell’ottobre 2012, quando ho accettato l’incarico, sapevo che il Maxxi era una fondazione e che in base alla legge Tremonti avrei prestato la mia opera gratuitamente. Legge sbagliatissima, me lo si lasci dire, perché la cultura ha bisogno di grandi manager, e questi vanno pagati (accatitipì://www.huffingtonpost.it/2013/07/27/giovanna-melandri-stipendio_n_3662698.html – Giovanna Melandri non lavorerà più gratis per il Maxxi. Arriva lo stipendio).”
L’ex ministro Pd ai beni culturali ha messo sul tavolo la proposta di un SIB, Social Impact Bond, per il reinserimento dei detenuti sul modello di quello lanciato dal governo britannico nel 2010, che consiste nel raccogliere capitali privati con i quali finanziare un percorso di avviamento al lavoro dopo l’uscita dal carcere. Viene dichiarato che il ritorno finanziario è proporzionale alla riduzione del tasso di recidività ma, escludendo interventi come quello della fatina dei dentini, pur con tutta la nostra buona volontà non siamo riusciti a capire come funzioni. Forse un giorno qualcuno ci illuminerà.
E per concludere in bellezza non ci resta che collocare in pista tra le new entry, ma più che altro old-entry rifatte, della finanza sostenibile anche l’ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, appellata il 13 maggio 2011 da Vittorio Malagutti su Il Fatto Quotidiano la manager con il buco intorno, in ragione della sua Securfin Holding che perse 11 milioni nel 2006, 112 milioni l’anno successivo, 45 nel 2008 ed altri 20 nel 2009, nonché famosa per essere scesa in corteo insieme ai milanesi per protestare contro la criminalità e gridando slogan contro il sindaco; essendosi accorta che era lei il sindaco prese ad inveire contro se stessa (accatitipì://www.nonciclopedia.wikia.com/wiki/Letizia_Moratti). Ovviamente la citiamo funzionalmente al rilancio della Fondazione San Patrignano, che com’è ben noto della solidarietà sociale ha fatto il proprio vessillo ben prima che il barone Karl von Drais inventasse quanto lo consegnò alla Storia, ed è praticamente in odore di santità: opererà ancora più all’insegna di un profilo etico e solidale.
E, dopo il caffè, torniamo al Forum per la finanza sostenibile, dove due esponenti di MainStreet Partners, boutique londinese indipendente di consulenza, hanno spiegato a Ceo di fondazioni non profit ed a private banker come strutturare un portafoglio ad alto impatto sociale e come coinvolgere anche la massa dei piccoli investitori – quelli che un tempo erano chiamati parco buoi – coniugando la ricerca di stabilità del portafoglio e di ottimizzazione del rapporto rischio/rendimento con considerazioni e obiettivi di carattere etico, sociale e ambientale. Giusto! ma dopo il caffè arriva il conto: saranno come sempre i piccoli investitori a pagarlo?
Ok, chiaro il concetto del land grabbing ma… e le vergini dai candidi manti di cui al titolo? Boh, fate voi.
Potremmo considerare concluso qui il nostro scritto ma, per dovere di completezza, parliamo brevissimamente di microcredito: almeno questa è un’esperienza positiva che ci consente di ritrovare il sorriso. Su questo fronte annoveriamo le attività di Fondazione Cariplo, il cui fondo di fondi Microfinanza 1 ha raccolto nel 2012 ben 84 milioni, e del consorzio Etimos, promotore di Etimos Global Microfinance Debt, fondo chiuso di debito che eroga mutui commerciali a istituzioni di microfinanza e cooperative di produzione.
Alberto C. Steiner