Vieni a vivere con me?

Sembra che presto, unitamente al defibrillatore, tra la strumentazione salvavita delle unità mobili di rianimazione troverà posto una pulsantiera da ascensore.
Nelle intenzioni del legislatore dovrebbe essere di ausilio negli stati di choc conseguenti ad attacchi di panico: avete presente quegli orribili minuti che si dilatano nell’immensità verticale tra il pianterreno ed il settimo di un qualsiasi condominio in forzata compagnia del vicino che, ne siete certi, ha votato contro la rastrelliera per le biciclette a favore dell’impianto di videosorveglianza? Oppure quel greve silenzio riempito solo da un borbottato buongiorno mentre l’occhio, anziché sorridere alla vicina, è inchiodato sulle modanature satinate che rinserrano lo specchio o, per l’appunto, sulla pulsantiera?
A me non accade, in primo luogo perché dove abito l’ascensore non c’è ed inoltre perché attacco bottone con chiunque, nelle situazioni più impensate. Ma posso comprendere.
La sindrome dell’ascensore, quindi. Che la pulsione alla sperimentazione di nuove forme abitative nasca proprio da lì?
Come per i sacchetti di plastica, nulla si crea e nulla si distrugge… in questa era postmoderna l’idea di vivere in comune torna ad occupare il panorama sociale. Tutto però si trasforma: dimenticati gli echi rivoluzionari e venute a noia le seduzioni dell’amore libero, la nostra anima è oggi tutta per emozioni suscitate da termini quali solidarietà, ecosostenibilità, integrazione assistita, decrescita felice.
La neo tendenza (c’è sempre un neo, da qualche parte…) a coabitare ha da qualche anno accelerato la propria curva di crescita: perché più che a una casa aspiriamo ad un ecosistema, perché siamo cuori verdi bio, perché siamo cuori grandi e la famiglia non ci basta, perché siamo cuori allegri e stare da soli… uff che noia.
Evviva le neocomuni quindi ma, come faceva dire il Manzoni al cancelliere Ferrer, si puedes y con juicio e facendo ricorso all’iniziativa privata, senza aspettarsi che la manna cada dal cielo, senza associarsi, consociarsi o avvilupparsi a qualche carrozzone politico che promette, illude per tornaconto, non fa crescere ed alla fine si rivela come il carro di Mangiafuoco: luccicante di lumi ma pronto a trasformare tutti in ciuchi.
I fatti lo dimostrano: le 26 iniziative censite a fine 2012 risultano essere oltre 200 alla fine dello scorso mese di settembre, ma molte di queste non sono associate alla RIVE, non compaiono sui social, non si aspettano che nessuno assegni loro alcunché. Individuano una cascina o un gruppo di case in un borgo abbandonato, studiano la fattibilità dell’intervento, mettono mano al portafogli, contraggono un mutuo e partono con la cantieristica affidandosi all’autocostruzione integrata dall’aiuto di professionalità specifiche, in particolare per quanto riguarda la statica, l’ambito energetico e gli aspetti tecnico-finanziari.Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Ecovillaggio 005Ed anche il fattore tempo è dalla parte dell’iniziativa privata: tre anni costituiscono la durata media del periodo che va dall’idea alla consegna degli immobili, mentre nell’ambito dell’ortodossia ecosocialsostenibile non è raro trovare gente che dopo un decennio non ha ancora deciso che nome darsi.
Non è la prima volta che lo scrivo: molti hanno iniziato a comprendere che la consapevolezza passa anche dal mollare quelle sovrastrutture denominate ideologie e nel guardare alla concretezza. Per crescere insieme dopo che ciascuno ha iniziato a crescere da solo, lasciando perdere utopie, sogni, fantasie fuori contesto o di dubbia realizzazione e rivendicando ciascuno, pur in un ambito solidale, le proprie autonomie ed i propri spazi.
Soprattutto rifuggendo da quella modalità che vorrebbe annientare l’individualismo mettendo tutto in comune, soprattutto il denaro riconoscendo di fatto solamente la paghetta mensile anche a chi opera esternamente all’ecovillaggio e porta alla casa comune lo stipendio. Obbligato a sottostare ad una decisione collettiva che suona come un processo pubblico anche qualora trattasi di acquistare un minipimer per casa propria.
Questa vera e propria logica della setta (sicuramente più vantaggiosa rispetto a quella dell’Opus Dei: qui si parla di mancette variabili da 50 a 200 Euro mensili, ai nipotini di Josemaría Escrivá ne spetterebbero solo 30) permea molte vicende, ed è quella propugnata da certi aggregati portati ad esempio da quella specie di bibbia dell’ecovillaggista che è Ecovillaggi e cohousing, dove sono, come farne parte. Fortunatamente ha fatto il suo tempo, riscuotendo ormai credito solo presso alcune fasce di militante marginalità attanagliata dal male di vivere.
Questo scritto costituisce l’ideale seguito di Ecovillaggi, la rivoluzione silenziosa pubblicato in questo stesso Blog il 13 ottobre scorso.Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Ecovillaggio 002Tra le motivazioni che portano a voler vivere in cohousing, e più ancora in ecovillaggio, non vi è solo il desiderio di una vita più ecosostenibile orientata verso un paradigma differente, una maggiore coerenza con una visione realmente ecologica ed olistica dell’esistenza. Autoproduzione, economia condivisa nello scambio ed attraverso il mutuo sostegno, consumo consapevole ed attenzione all’alimentazione nel rispetto delle diversità per chi vuol essere onnivoro, vegetariano, vegano, uno stile di vita naturale ed essenziale sono tutte nobili motivazioni, ma nascono da ben altre e più profonde, vale a dire da un vero e proprio processo di cambiamento interiore.
Detto in altri termini: nascono quando si diventa Consapevoli, Risvegliati, Guerrieri.
Decidere di vivere in un cohousing o o in un ecovillaggio non significa semplicemente metter su casa nel verde, ma ricercare primariamente un’armonia interiore attraverso un percorso di risveglio che coinvolge i piani psicologico, energetico, emotivo, relazionale, pratico ed economico legati ai concetti di sostentamento e sopravvivenza.
Tanto è vero che non ci si arriva improvvisamente, bensì attraverso un graduale percorso di crescita i cui primi segnali sono costituiti dal senso di smarrimento, frustrazione, sofferenza per come l’essere umano sia capace di condizionare se stesso distruggendo e danneggiando gravemente la Natura. Condizionamenti, menzogne, assuefazione alla violenza, egocentrismo che vengono sentiti come obsoleti e distruttivi.
Rabbia e frustrazione portano a cercare informazioni valicando quei canali ufficiali che mantengono le persone nel senso di inferiorità, di asservimento a bisogni indotti, di impotenza e paura.Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Ecovillaggio 003Ad alcuni prende l’illusione di denunciare e controinformare, salvo scoprire che anche nell’attivismo socio-politico apparentemente più genuino si nascondono truffe e truffatori. Ad altri non par vero di aderire a gruppi, movimenti, associazioni che accogliendo amorevolmente propugnano l’ecosostenibilità, salvo scoprire che sono delle sette, e che esistono funzionalmente a una casa editrice, un marchio, una catena di ditribuzione o tutte queste cose insieme, oltre che per aprire tavoli ed organizzare convegni fruendo di fondi pubblici drenati da quel sistema che tanto denigrano.
Chi sfugge a tali ennesime sovrastrutture, illusorie bandiere di un conformismo dell’anticonformismo, inizia a pensare non già a come fare per cambiare il vecchio, bensì a come dare alimento al nuovo. Il vecchio, non più nutrito,  morirà per inedia…
Inizia quindi a ricercare soluzioni reali per sè e per la propria famiglia, più o meno allargata ad amici e conoscenti sintonici con quel modo di sentire e pensare.Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Ecovillaggio 001Da soli o in gruppo si va a vedere questo o quel villaggio abbandonato, ed intanto tempo e situazioni contribuiscono a scremare chi vive l’esperienza come socializzante gita in campagna od occasione per l’ennesimo imbonitorio blabla. E si passa ad una fase di profonda introspezione mettendo in discussione se stessi e le proprie scelte, non guardando più all’esterno accusando e giudicando. E parafrasando la storica frase pronunciata da John Kennedy il 20 gennaio 1961: Non chiedete che cosa il vostro paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il vostro paese, si inizia a domandarsi cosa realmente sia possibile fare per se stessi.
Partendo quindi dal sé, per sè e per i propri cari e non più per un evanescente collettivo, si cessa di sentirsi una marionetta, una vittima lamentosa, iniziando ad ascoltarsi per seguire concretamente ciò che si desidera, ad essere per primi quel cambiamento che si desidera per il mondo.
Abitudine, comodità, resistenza al cambiamento, paura del giudizio, timore di non farcela o di ripercussioni da parte del sistema, depressione, fissazione su pensieri di fallimento, ansia dell’incertezza sul futuro scompaiono insieme con la desuetudine ad affidarsi al proprio intuito, alla scarsa stima di sé, ai condizionamenti religiosi, culturali e familiari passivamente subiti per secoli.Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Ecovillaggio 004Ci si rende conto di essere Cocreatori della realtà e non si ha più voglia di perder tempo attendendo che la maggioranza si decida. E nemmeno di interagire con essa, nella finalmente maturata consapevolezza che c’è chi è nato per essere libero e chi per essere schiavo e che tutto dipende dal singolo, un singolo che si è fatto la propria rivoluzione armonizzando le parti in conflitto per agire verso un radicale cambiamento della realtà esterna generando armonia intorno a sé, senza più proiettare all’esterno tensioni interiori o timori.
E si arriva così alla creazione del nuovo, scoprendo che anche nel quotidiano ancora urbano si tende a frequentare persone che vedono l’essere umano come Anima incarnata connessa con il Tutto, attratte dall’idea di coltivare orti e frutteti, di affondare le mani nella Terra con la consapevolezza che può contribuire a fornire il sostentamento necessario nella connessione profonda con gli elementi naturali, ma soprattutto con il proprio Centro. E si arriva così all’autoproduzione, magari iniziando dal terrazzo o dal giardino di casa, al mutuo sostegno, alla creazione di reti di scambio di prodotti, tecnologie, lavoro, competenze e risorse. Scoprendo infine che è possibile vivere, e vivere bene, risparmiando drasticamente sui costi della vita e, diventando sempre più indifferenti ai prodotti delle multinazionali, costituire una società parlallela ecosostenibile e alternativa. Ma soprattutto creattiva.

Alberto C. Steiner

Agriasilo: i bambini? Mandiamoli a zappare!

Non stiamo apologizzando la riesumazione della pratica che nella miserrima Italia dei bei tempi andati, vale a dire negli anni successivi all’unità, imponeva che i minori, spesso anche di soli 6 o 7 anni, venissero utilizzati nei campi e nelle miniere, nei cantieri edili e nelle filature o nelle fabbriche finché quelli di sesso maschile sopravvissuti a incidenti, malaria, colera, scrofola, pellagra ed altre malattie crescessero il necessario per essere mandati a morire ammazzati nelle trincee della I Guerra Mondiale.Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 003No, stiamo pensando ai bambini odierni, a quelli che vivono nelle nostre città. Esclusi pochi fortunati che frequentano scuole sperimentali – il Trotter a Milano, per esempio – a parte sortite nei parchi, in qualche bosco o fattoria didattica, i bambini vivono rinchiusi dal mattino al pomeriggio in cubi di cemento dotati di un patetico giardino attrezzato con qualche gioco di plastica.Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 001Credono che i polli nascano tutto petto o tutta coscia, e che i mirtilli spuntino in un guscio di plastica nera cellofanata in una serra che si chiama supermercato, insieme con gli alberi degli ombrelli. E respirano quello che respirano.
Fortunatamente, oltre alla meritoria iniziativa chiamata Piedibus e della quale seguiamo attentamente gli sviluppi, esistono scuole materne ed elementari inserite in un contesto verde.
Ma anche gli asili si stanno attrezzando: stanno nascendo gli agriasili, asili a tutti gli effetti ma situati all’interno di un agriturismo. La differenza rispetto a un asilo tradizionale sta nel tempo che si passa all’aria aperta svolgendo tante attività come coltivare le piante, socializzare con gli animali e imparare a conoscere i ritmi dei contadini.
Neanche a dirlo: sono nati nel Nord Europa, in particolare in Danimarca, ed hanno conosciuto un’ampia diffusione in Svizzera. In italia, dopo una partenza in Trentino, Veneto e Piemonte, si stanno timidamente diffondendo e sono già un centinaio le strutture private censite.Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 005Possono essere considerati un’evoluzione della fattoria didattica e costituiscono ambienti educativi informali dove anche i più piccoli possono stare quotidianamente a contatto con la natura assimilando una cultura dell’attenzione alla qualità della vita e alla sostenibilità ambientale.
Persino i giocattoli, in un agrinido, si costruiscono con quello che si recupera dagli scarti: legno, cartone, stoffa e via di colla, forbici e fantasia!Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 006Si mangiano i prodotti locali, che (tenerezza!) gli stessi piccolini hanno contribuito a coltivare e, nel limite delle loro pasticciose possibilità, a preparare. Si vive vicino agli animali imparando a conoscerli e a rispettarli. In un agrinido i bambini si avvicinano progressivamente all’ambiente agricolo, interagendo quotidianamente con la natura e facendo esperienza nella coltivazione delle piante e nell’allevamento. Inventano storie che recitano al Teatro nella Natura e giocano nell’agriludoteca, un posto magico dove essi stessi realizzano giochi fantastici utilizzando esclusivamente prodotti naturali reperibili in loco.
L’agrinido è sempre più esplicitamente inserito nelle attività agricole previste dai piani di sviluppo rurale regionali e sta crescendo il riconoscimento delle finalità sociali delle fattorie, sostenute nelle loro iniziative per l’educazione anche con interventi economici per adeguare gli edifici ai rigidi standard stabiliti dalle normative nazionali per i servizi destinati alla prima infanzia.Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 002Questo significa che presso l’azienda agricola possono trovare allocazione micronidi, ma anche servizi integrativi e sperimentali per la prima infanzia e servizi di ludoteche oltre ai nidi in famiglia. Non è affatto trascurabile, inoltre, il fatto che i progetti di questo tipo aiutino aziende agricole e cascine a riciclarsi per affrontare la crisi economica in modo innovativo.
A questo punto il dado (bio) è tratto: se in campagna è facile, in città non è impossibile. E non solo nelle aree verdi periferiche come Vettabbia, Parco Sud, Forlanini, Lambro, Nord, Groane, Bosco in Città per citare alcune realtà milanesi. Anche in quartieri più centrali è tecnicamente possibile, dove esistono adeguate aree dismesse che non abbisognano di particolari bonifiche dei suoli poiché le precedenti attività non vi rilasciavano sostanze pericolose o nocive.
Un’ipotesi progettuale da non trascurare, suscettibile di dare verde, serenità, socialità e conoscenza ai più piccoli e creare opportunità di lavoro. Senza dimenticare che in un contesto di cohousing, sia esso urbano oppure di campagna o montano, un agrinido ci sta benissimo.Cesec-CondiVivere 2014.10.14 Agriasilo 004Noi abbiamo deciso di pensarci seriamente. Questo scritto è solo la proposta di un’idea che possiamo sviluppare in modo diffuso: abbiamo l’opportunità di individuare strutture acquistabili a costi sensibilmente inferiori ai valori di mercato e possediamo le necessarie capacità progettuali, organizzative e di sostegno finanziario attraverso business angels, investitori, individuazione di sostegni pubblici agevolati.
Chi ha voglia di seguirci perché anche nella propria località di residenza nascano asili nell’orto o nel bosco?

Alberto C. Steiner

Carletto guarda: le Apuane! Dove papà? Non le vedo

Carletto guarda: le Apuane!
Dove papà? Non le vedo
Uffa, non serve che guardi fuori dal finestrino… qui, sul tablet, in queste vecchie foto.
KL Cesec CV 2014.03.04 Cave di marmo
In questo scritto parto dallo scempio delle Apuane per terminare il mio viaggio in Lombardia, nella un tempo operosa Brianza, all’insegna di consumo del suolo tra agricoltura che scompare ed attività mercantili e mercatali cinesi.
Prendo le mosse da una petizione lanciata per fermare la distruzione delle Alpi Apuane, che pienamente condivido ed il cui link riporto in calce a questo scritto ma, come è mio costume, cerco di affrontare la questione da una prospettiva differente rispetto a quella canonica infarcita dai dogmatismi dell’ecosostenibilità.KL Cesec CV 2014.03.04 Petizione ApuaneArrivo subito al punto: quel composto di carbonato di calcio comunemente detto marmo è un prodotto assolutamente inutile per l’esistenza umana.
Senza nulla togliere alle antiche ville Romane, alle Pietà, al Mosè ed a tutte le statue ed i monumenti destinati a celebrare imperitura la gloria umana, facendo le debite proporzioni se ipoteticamente il marmo sin qui estratto occupasse volumetricamente un container da 60 piedi, tutti gli ingegneri ed architetti dell’antica Roma messi insieme, nonché Michelangelo e soci ne avrebbero prelevato l’equivalente di due, o forse tre, cucchiaini da caffè.
Il marmo non possiede nessuna delle caratteristiche che ne fanno una pietra da costruzione: fragile, delicato, non sopporta tensioni né sollecitazioni torsionali e, in più, tende a sfaldarsi. Viene infatti utilizzato come pietra per pavimentazioni e rivestimenti, dopo essere stato adeguatamente trattato antigelivo, antimacchia, antitutto. In fase di posatura bisogna maneggiarlo come fosse nitroglicerina. E se nell’uso quotidiano vi casca sul pavimento o sul piano della cucina una goccia di vino o aceto o limone, per non dire di trementina, siete fregati.
Però, e mi riferisco a quello bianco di Carrara, è bello, bianco, splendente, luminescente. Detto in altri termini, è perfetto per supportare pulsioni egoiche dalla nascita alla morte ed oltre, visto che è usatissimo anche per monumenti funebri.
Personalmente preferisco ed utilizzo, quando non posso farne a meno e dietro espressa richiesta di un committente che non sono riuscito a convincere, il botticino, il rosso veronese o quello portoghese, anche se per me l’apoteosi è rappresentata dall’azul brasiliano, composto da sodalite ed indiscutibilmente più versatile di quello nostrano. In realtà il marmo non mi piace, gli preferisco di gran lunga il serizzo e la beola ma, lo riconosco, queste sono mie ubbie progettuali.
Soprattutto non mi piace tutto quello che gravita oggi attorno al marmo: dalle ville alla Scarface a tutto il sottobosco di maneggioni, intermediari, traffichini ed evasori fiscali, al fatto che il marmo (sto parlando di quello di Carrara) si dice non venga più lavorato in loco ma spedito via mare in India ed altri paesi asiatici dove la manodopera costa infinitamente meno e dove gli imprenditori possono serenamente evitare l’installazione di costosi sistemi di sicurezza antinfortunistica.
E così a Carrara, dove anche le botteghe artigiane degli scultori si sono ridotte al lumicino, restano le briciole, nel vero senso degli sfridi di lavorazione. Vale a dire le scoasse che, idealmente raccolte con la paletta, finiscono all’industria cosmetica, cartotecnica e delle vernici.
E che dire infine del prezzo fissato non si sa bene in base a quali criteri in 450 €/t quando in realtà si sa benissimo che il valore di transazione è almeno dieci volte superiore? E che la differenza viene tradizionalmente regolata in nero? Però è stato istituito un osservatorio… io amo gli osservatori: per non stare lì in piedi sotto il sole piantano un ombrellone, aprono un tavolo, e osservano.
Specialisti in tal senso sono quelli dell’ONU, che troppe volte ho incrociato quando esercitavo il mestiere delle armi: come osservavano loro non osservava nessuno. Ma, pensandoci bene, anche quando da ragazzo andavo in camporella al Parco Lambro o al Forlanini era pieno di osservatori…
Paradosso: è perfettamente inutile fermare la distruzione delle Alpi Apuane. Semplicemente perché le Apuane non esistono più. Esiste un passo sull’antica Via del Sale, la cui strada scorre ormai all’interno di una cava; esistono le malattie a carico dell’apparato respiratorio degli abitanti di Carrara, Pietrasanta e degli altri comuni facenti parte del comprensorio; esistono contributi per diritti di scavo – eufemisticamente detti di coltivazione – che affluiscono nelle casse comunali nella misura di qualche milione all’anno, ma esistono debiti pluriennali di portata ben superiore ai contributi introitati che i comuni hanno contratto per realizzare tangenziali e vie di scorrimento che tengano i camion del marmo, il cui carico ad onta di leggi e regolamenti nessuno si guarda bene dal coprire, lontani dagli abitati. Esistono costi sanitari dovuti al pulviscolo infinitesimale che si respira ed alla contaminazione delle vene idriche, e queste sono certezze. Ma esisterebbe una cultura della colonizzazione dove i colonizzati sarebbero gli Apuani; questo è invece un luogo comune, perché l’effettiva consistenza economica e sociale del marmo non ha affatto limitate ricadute per la comunità, visto che il settore lapideo continua a rappresentare l’ossatura portante dell’economia locale, occupando più di 12.517 persone, circa 1.000 delle quali impegnate direttamente nell’attività estrattiva (dati Cciaa) e la filiera non si è affatto svuotata, ma lavora 600.000 tonnellate di materiale locale, vale a dire il 40% di quanto viene esportato dall’intero Paese, nonostante il drastico ridimensionamento della lavorazione innescato dall’ingresso sulle arene commerciali globali dei Paesi emergenti.
Per avere un’idea della rilevanza sociale del fenomeno riporto il numero di abitanti dei comuni appartenenti al distretto marmifero apuano: Carrara 64.127, Fivizzano 8.815, Massa 68.941, Minucciano 2.521, Montignoso 10.439, Piazza al Serchio 2.501, Pietrasanta 24.931, Seravezza 13.440, Stazzema 3.367, Vagli di Sotto 995 per complessivi 200.077 residenti. La filiera marmifera interessa quindi il 6,25% della popolazione locale.
Disconoscere le reali dimensioni del settore è perciò irresponsabile, disinformato o strumentale: intorno al marmo non campa un ristretto numero di attività e di individui come si vuol far credere, e le imprese che operano direttamente e nell’indotto del marmo fanno girare oltre un terzo dell’intera economia provinciale.
Perciò, stante quello che ho affermato più sopra, e di cui posso fornire dati e fonti, questa è casomai la vera peste del marmo: l’assenza di una seria regolamentazione, di una volontà locale di crearla. Niente di nuovo sotto il sole: massimizzare i profitti privati, fregare tutto e tutti per non parlare di quella cosa inutile e dannosa che è il fisco, e buttare sulla collettività gli oneri sociali che tutto questo comporta. Devi realizzare una strada esterna all’abitato perché altrimenti i miei camion inquinano e tritano le vecchiette? Che me ne frega, fattela.
E non crediamo alle favole della consapevolezza dei cittadini: è già stato tentato, in passato e più volte, di sensibilizzarli al problema, e il risultato è stata un’alzata di scudi al grido: ci vogliono togliere il lavoro.
Sotto questo aspetto ho sempre ammirato gli Svizzeri: a casa loro guai se tocchi un filo d’erba, ma loro fanno ciò che gli pare in casa degli altri che glie lo permettono. E non a caso ho citato gli svizzeri, che nel panorama lapideo apuano non sono esattamente degli sconosciuti.
Con tutto il rispetto per la biosfera e per l’eventuale morte di una marmotta la questione è quindi ben altra: non siamo diversi dall’India o dall’Amazzonia colonizzate, solo che a noi italiani, themostfurboftheworld, come sempre non ci frega nessuno: siamo bravissimi a colonizzarci da soli.
Scusate il francesismo: siamo e resteremo un popolo di merda, servi adusi a lamentarci ed a fotterci tra servi. Scusate, ho scritto popolo. No, noi non siamo un popolo, e meno ancora una nazione, siamo solo un’accozzaglia di gente che condivide il medesimo spazio.KL Cesec CV 2014.03.04 Consumo del suoloDovremmo invece parlare di consumo del suolo, che è forse il vero problema nazionale. Consumo del suolo è un’espressione efficace anche se impropria perché, in realtà, il suolo non si consuma ma cambia uso attraverso i processi di trasformazione da usi agricoli o naturali ad usi urbani. Pensiamo solo alla Lombardia, quella che possiede le terre più fertili in assoluto e che contribuisce per il 16% al prodotto agroalimentare nazionale, dove dal 1999 al 2007 si sono persi oltre 43.000 ettari, e altri 27mila dal 2007 al 2012.
Urbanizzazione e impermeabilizzazione dei suoli comportano pesanti compromissioni del patrimonio ambientale e paesaggistico, risultando strettamente correlati ai dissesti idrogeologici che purtroppo costituiscono in Italia una emergenza costante. Ma che continuiamo a fronteggiare come se si trattasse di sciagure ineluttabili e non di improvvida gestione del territorio.
Probabilmente grazie alla crisi che ha reso più debole la pressione edificatoria, la limitazione del consumo di suolo sembra finalmente entrata nell’agenda politica regionale, dove parebbe finalmente concreta la possibilità di portare a conclusione l’iter legislativo del progetto di legge: Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per il riuso del suolo edificato, da tempo immemore fermo a prender polvere da qualche parte.KL Cesec CV 2014.03.04 Ambiente maneggiare con curaE’ sperabile che la legge enunci con chiarezza l’importante principio fondamentale: il suolo libero è una risorsa non riproducibile da preservare e tutelare nelle funzioni produttive e paesaggistico ambientali, e prima di trasformarlo si deve accertare se siano praticabili soluzioni alternative.
E’ necessario che in tal senso la legge esprima procedure univoche di computo e monitoraggio, evitando che opere di grande impatto, fossero di interesse generale come le infrastrutture, siano sottratte a bilanci e valutazioni di sostenibilità come è purtroppo troppe volte accaduto, o che deroghe permissive riducano la portata di un provvedimento quanto mai urgente. E’ anche importante che la legge sia in grado di responsabilizzare tutti gli attori delle trasformazioni territoriali, definendo la necessità di verificare nessi oggettivi tra bisogni e previsioni di sviluppo, e introduca misure disincentivanti e di compensazione ecologica per gli interventi di trasformazione, e al contrario di incentivo al riuso, al fine di rendere sempre meno conveniente l’edificazione su suoli liberi.
Finora non abbiamo avuto segnali in tal senso e va tenuto ben presente che consumare il suolo non significa solo edificare. La viabilità stradale comporta un consumo relativamente modesto ma gli oneri indotti, sociali e sanitari, sono oggi ormai inconcepibili. E non mi riferisco solo alle varie gronde, tangenziali, tangenzialine e bretelle in corso di realizzazione, ma anche alla viabilità ordinaria che dev’essere adeguata allorché viene realizzato un complesso suscettibile di creare anomali afflussi veicolari.KL Cesec CV 2014.03.04 Megastore cineseKL Cesec CV 2014.03.04 CineseUn esempio, giusto per chiarire: lungo la strada che collega Argate con Carugate, c’è l’area dismessa dall’industria chimica Uquifa, che ha delocalizzato licenziando 80 lavoratori. In quest’area, quindi senza apparente consumo di suolo, sono in corso i lavori per realizzare entro il 2015 il megastore cinese all’ingrosso più grande d’Europa, esteso su 45.000 metri quadri oltre a parcheggi e piazzali di manovra, che raggrupperà 220 attività commerciali Made in China, negozi, ristoranti, bar, parrucchieri e, naturalmente, troiai camuffati da centri massaggi (sfido chiunque a dirmi che non sono troiai).
L’ostruzionismo, in verità non particolarmente barricadiero, espresso dalla comunità locale è stato rintuzzato dall’amministrazione comunale, alla quale andranno 12 milioni di euro di oneri di urbanizzazione, che verranno investiti in lavori pubblici, a partire dall’edificazione di una nuova scuola materna e alla riqualificazione di varie zone della città. Tutto ha un prezzo, per chi è in vendita.

ACS

https://secure.avaaz.org/it/petition/Ferma_la_distruzione_delle_Alpi_Apuane/?pv=47

L’Insubria c’è. E ci osserva dall’alto delle vette prealpine.

Nel territorio compreso fra Milano e i laghi prealpini esistono legami antichi che il tempo non ha mai cancellato: stessa lingua e stessa storia, nonostante le dominazioni e le frontiere politiche susseguitesi nei secoli.
Paradossalmente, e fortunatamente aggiugiamo, la globalizzazione e la crescente integrazione fra stati hanno comportato che le regioni riacquistassero importanza. E la regione dei laghi ha ritrovato questo nome, a lungo dimenticato e che suona strano: Insubria. KL Cesec CV 2014.02.03 Insubria 002Ma ci sono tante Insubrie. C’è quella storica, che si riferisce al territorio compreso fra il Po e i laghi prealpini abitato sin dall’antichità da una popolazione di origine celtica, successivamente conglobata nell’Impero Romano. C’è quella politica, nata negli anni Novanta e della quale, poiché nasconde spesso fuffa e giochi strumentali, non ci interessa proprio nulla. Del resto, se è vero che non crediamo più alla favola della democrazia rappresentata e delegata, figuriamoci se crediamo a icone e bandiere inventate di sana pianta per raccattare voti.
C’è infine l’Insubria delle persone, quella che ben conoscono i frontalieri: italiani che lavorano in Vallese e in Ticino e svizzeri che lavorano in Piemonte e Lombardia. Oppure artigiani e imprenditori, che grazie all’entrata in vigore dei trattati bilaterali possono affrontare con maggiore libertà attività economiche dalle due parti della frontiera. E infine i consumatori, interessati a spendere in modo oculato i loro soldi, o semplicemente intenzionati ad approfittare pienamente dell’offerta culturale e di svago offerta da una regione estremamente ricca, interessante e che non ce la fa proprio a nascondersi sotto il tappeto, a fingere di non possedere la propria profonda radice culturale.KL Cesec CV 2014.02.03 Insubria 001Ciò premesso andiamo a Lecco, città della quale abbiamo parlato la scorsa estate a proposito del Movimento per l’Acqua Pubblica e che nel 2013 è stata insignita del titolo di Città Alpina attribuitole da una giuria internazionale e consegnatole in una cerimonia pubblica, ed entrando così a far parte di un ristretto gruppo al quale appartengono città italiane, slovene, austriache, tedesche, svizzere e francesi.
Noi, quella sera, c’eravamo. Da furestèe, forestieri, infiltrati, ma non abbiamo dimenticato quanto ci siamo fatti coinvolgere da quel clima da stadio e nel contempo di profonda commozione e da prima della Scala.
E oggi vogliamo ricordare qui le parole del sindaco Virginio Brivio, pronunciate allorché ricevette il testimone dalle mani di Jean Luc Rigaut, sindaco di Annecy, Città alpina 2012: “E’ un onore e al contempo una particolare responsabilità e noi, insieme ai nostri concittadini, dobbiamo dimostrarci all’altezza“.
Non sta a noi giudicare se l’Amministrazione lecchese sia stata o meno all’altezza. Per chi volesse approfondire i risultati sono sul sito del Comune.
Sappiamo però che Lecco ha puntato a temi come la mobilità dolce, il risparmio energetico e, con particolare focalizzazione, la tutela della risorse idriche.
Relativamente alla mobilità dolce, oltre all’istituzione del bike-sharing, è stato allargato alla fascia pomeridiana il servizio del Piedibus, grazie al quale i 650 alunni che andavano a scuola evitando che i loro genitori emettessero tonnellate di CO2 sono diventati oltre mille. Non male.
Quanto al risparmio di energia, il comune ha speso un sacco di soldi investendo nell’incentivazione di costruzioni a elevata efficienza energetica e nell’introduzione dell’illuminazione pubblica a led. Anche qui non male.
Ma il vero punto che ha focalizzato la nostra attenzione non poteva che essere rappresentato da Sora Acqua: non solo educazione a consumi più consapevoli tramite la sensibilizzazione dei cittadini e l’installazione di erogatori di acqua alla spina, ma anche la lotta all’inquinamento, con l’ammodernamento e l’ampliamento del depuratore cittadino, la cui inadeguatezza era stata più volte sottolineata. E tutela dei corsi d’acqua, attraverso la rinaturalizzazione di tre torrenti che sfociano a lago, ed un convegno tenutosi lo scorso ottobre sui mutamenti climatici. Non da ultimo la riconsiderazione del contratto per la distribuzione cittadina dell’acqua potabile.
Certo, i lavori non sono conclusi, i soldi come sempre sono pochi – anzi sono sempre di meno – e si cerca di spenderli oculatamente.

Malleus

Da comune hippie a Fondazione: in Svizzera può accadere

Mentre da noi ci si gingilla con fondazioni che servono prevalentemente ad arraffare quattrini, si istituiscono osservatori e si tengono convegni in una sarabanda di tavoli aperti e chiusi mentre certi borghi, veri e propri gioielli, vanno in malora, nella vicina Svizzera accadono cose molto concrete.KL Cesec CV 2014.01.31 EcovillaggioCes 002Monte Chiesso, Canton Ticino, Svizzera: luogo di ecologismi un po’ radicali ripartito tra un antico villaggio costituito da venticinque case in pietra ed un’azienda agricola è una enclave un tempo decisamente fricchettona. Gente radicale ma simpatica, proveniente da mezza Europa e dove spicca una parlata che suona pressappoco così: A-zont andàa a cattàa i verz, hoo dovùu fal cont i man… nue ca l’è ca te l’è mettüù ol zapètt? Ah damm a traa, ta la fètt tii la bügada ztasira? Traduzione, anzi traduzzzione: Sono andato a cogliere le verze, ho dovuto farlo con le mani… dove hai messo la zappetta? a proposito, lo fai tu il bucato questa sera?KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 003Il villaggio montano, situato non lontano da Locarno ad un’altitudine di 1.450 metri, è praticamente disabitato d’inverno ma variamente vissuto d’estate, quando risuona dello sciabordio, anzi del mantra, di un’impetuosa cascata. Abitato a partire dal sedicesimo secolo, durante la II Guerra Mondiale accolse partigiani, rifugiati e famiglie ebree in fuga.
Ma negli anni Cinquanta gli allettanti agi cittadini sradicarono anche i più tenaci, lasciando il posto ai camosci finché, all’alba dei moti sessantottardi, decise di avventurarvisi in una temeraria azione di recupero (alcuni anche perché ricercati dalla polizia in quegli anni formidabili) un gruppo di giovani locarnesi ai quali si aggiunsero zurighesi, qualche olandese nonché alcuni milanesi che, oggi ormai nonni quelli che non sono nel frattempo morti di Aids o di epatite, ed ormai usciti di galera quelli condannati per tangenti, pedalano tuttora eco-chic per le vie ambrosiane pur avendo la Morgan in garage.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 001Volutamente dis-organizzati in una comunità di ricerca politica, ecologica, sociale e spirituale, a partire dal 1972  trasformarono Ces, così si chiama la località, in luogo alternativo e aperto, dove la cristallina selvaticità dell’ambiente potesse coniugarsi alla ricerca di una purezza interiore: organizzarono campi estivi, corsi, gruppi di autocoscienza che riuscirono a coinvolgere tantissimi giovani. Ogni tanto arrivava la polizia, sequestrava un po’ di maria e se ne andava, preferendo con calvinista pragmaticità non intraprendere ulteriori iniziative perché, in fondo, quella banda di ragazzi non faceva male a nessuno e almeno lì era fuori dalle palle.
Successivamente nacque la tuttora esistente Fondazione per la rinascita di Ces che ha tuttora, con i suoi quasi quaranta membri, la responsabilità del borgo montano. Oggi le case, ristrutturate e fornite di pannelli fotovoltaici, hanno mantenuto gli originali tetti in pietra mentre gli interni sono stati rivestiti in legno.
Arrivare a Ces richiede impegno: bisogna camminare per circa due ore su di un sentiero che può scoraggiare i meno convinti, osservati severamente da castagni pluricentenari e, non di rado, sotto una pioggia torrenziale. A Ces si vive volentieri a lume di candela, ci si scambiano massaggi, si consumano prevalentemente prodotti biologici locali, alcuni coltivati negli orti del villaggio, altri recapitati da una teleferica. Ma non si rinuncia ad olio, pasta e vino che arrivano dalla realtà comunitaria de Il Casale, vicino Pienza in provincia di Siena. Una particolarità: i gabinetti sono comuni, posti ad un’estremità del villaggio poiché strutturati per il compostaggio a secco.
Apparente stranezza nella piazzetta principale del borgo, la piccola chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo ottimamente restaurata. Niente affatto strano, invece, veder pascolare liberamente lungo i sentieri polli e vacche, alcune sacre in quanto appartenenti ad una donna hindu. Sotto una tettoia una serie di vasche comunicanti, continuamente irrorate dal gettito continuo di acqua sorgiva, garantiscono refrigerio a bidoni di latte, burro e lievito di birra mentre ortaggi e frutta vengono conservati in una cantina seminterrata.
Durante la stagione estiva alcune case vengono affittate o tenute a disposizione dei volontari del Servizio Civile Internazionale, impegnati in lavori di recupero.
E, chi vuole salire ancora, può giungere a quota 1.537 dov’è situato l’ancor più minuscolo villaggio di Doro, abitato da alcune coppie che allevano capre ed hanno dato vita all’azienda Monte Sponda, specializzata nella produzione casearia. Figura mitica, da qualcuno definita ginsberghiana-shivaita, è il Giovanni che vive vestito di pelli di capra insieme con due donne in un tepee – sia pure munito di pannello fotovoltaico per alimentare l’irrinunciabile radio –  e che, pur avendo contribuito a parte dei lavori nel borgo, ritiene che i membri della fondazione: “Discutono troppo, si sono imborghesiti e nella realtà dei fatti un solido progetto comunitario è ancora di là da venire“.
Il Giovanni, tra l’altro, costituisce anche la risposta all’eventuale domanda: quando e perché i ragazzi milanesi se ne andarono, tenendo altresì presente che qualcuno di loro raggiunse il fondovalle vagamente saccagnato… e poi divenne avvocato o commercialista, non escludendo di conseguire rosee, o per meglio dire rosè, mire politiche. Chi volesse saperne di più può trovare i sopravvissuti al Radetzky in largo la Foppa all’ora dell’aperitivo, ormai inconsolabilmente orfani della libreria Utopia che ha chiuso i battenti poco tempo fa, ma accompagnati dagli inseparabili pointer o levrieri afgani, a pontificare di migranti e cultura altra. Qualcuno si è riciclato nel terzo settore, c’è chi addirittura ha aperto una banca. Neanche a dirlo: etica e solidale.
Fin qui la storia di quello che, pur non essendo l’antesignano degli ecovillaggi svizzeri, è sicuramente il più coreografico.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 004Qualche tempo fa la Fondazione, ormai attiva sul web, in attività redazionali ed editoriali ed in alcune trasmissioni radiofoniche piuttosto seguite in Italia, lanciò un questionario. Il tema, che riprendiamo poiché suona come un chiarissimo manifesto, era:
Il cohousing, semplificando, non è altro che il condividere degli spazi abitativi con altri nuclei familiari. E’ una interessantissima soluzione, che risolve sia l’ottimizzazione degli spazi sia il concetto di integrazione e comunità di persone appartenenti a gruppi omogenei. E’ indubbio che nel venirsi a creare un progetto di cohousing, uno degli aspetti più importanti sia quello di redigere un’idea adatta al territorio e ai potenziali residenti.
In questo modo possiamo ottenere dei complessi abitativi ecosostenibili, con costi accettabili e studiati per integrare ed aggregare le persone. Se ci pensiamo potrebbe essere non solo la soluzione per condividere ad esempio la centrale termica, la lavanderia, la sala attrezzi, un tagliaerba per tutte le famiglie, ma anche la possibilità di avere un orto suddiviso, magari con serre  per verdure buone a costo quasi zero, un mini nido gestito dai residenti ma anche la possibilità di avere un locale comune per gli ospiti, una sorta di foresteria che potrebbe anche essere affittata come B&B e portare piccole entrate per le spese correnti. Secondo voi, quali zone possono essere condivise e quali no?
Tra le numerosissime risposte pervenute ce ne sono state segnalate alcune tra quelle giunte dall’Italia.
Gianfranco
La mia risposta è in realtà una domanda: perchè noi dobbiamo dividerci cose o zone, poi con le tasse che paghiamo dobbiamo arrivare a livelli così… quando i nostri politici sperperano soldi pubblici e cioè nostri, abbiamo bellezze architettoniche o costruzioni lasciate lì a marcire per mancanza di fondi e causa sprechi o lentezze burocratiche non possono essere destinate ad altri usi?
Lorena
All’inizio mi piaceva. Poi mi sono ricreduta. E’ una cavolata megagalattica. Lavanderia: separata dal corpo delle abitazioni, se hai la jella di abitare lontano devi farti tutto il cortile coi panni da lavare e viceversa, e d’inverno e quando piove? I bambini meglio madarli all’asilo, tutti vogliono parcheggiare i pargoli poi alla fine nessuno vuole prendersi la responsabilità di curare quelli degli altri. L’orto? Come l’asilo, tutti vogliono raccogliere ma quelli che zappano e seminano alla fine sono sempre gli stessi. Tosaerba: cos’è? Il locale in comune per le feste poi è una tragedia: ogni volta che ne hai bisogno tu è già accupato. No parliamo della pulizia… Insomma: meglio la casa di ringhiera!
Marco
Noi Italiani non siamo culturalmente preparati a esperienze simili, la casa è sempre e sempre sarà un focolare molto intimo, dove difficilmente si condividono interessi di gruppo. Io personalmente avrei forti dubbi nel condividere parti comuni con una persona sconosciuta, sono convinto che ci sarebbero problematiche irrisolvibili per chi deve o non deve fare. L’intimità deve prevalere, almeno nell’ambito abitativo è impensabile che acquistata una casa con sacrifici e rinunce debba trovarmi nella situazione di condividere parti comuni con persone che, culturalmente sono lontane anni luce dalle mie idee. L’ipocrisia non è nel mio dna e devo ammettere che condividere parti comuni con un mussulmano o altro, non sarebbe una cosa fattibile. Datemi pure del razzista, non mi preoccupo per questo, l’importante che la casa rimanga un luogo dove condividere gioie e dolori, solo con le persone che amo.
Marcello
Non sono d’accordo che vivere in un appartamento sia una forma di cohousing, una persona non condivide nulla con gli altri inquilini, spazzatura a parte. Quando chiudo la porta d’entrata, automaticamente mi creo una situazione di assoluto isolamento. E’ vero che posso sentire quello che dice il mio vicino di casa, ma tra lui e la mia famiglia c’è in ogni modo, una parete che divide e protegge.
Trovarsi in situazioni come ad esempio, dividere le spese sopportate da persone che accettano di vivere in una comunità, non è facile come dirlo. Sappiamo tutti che, mettere d’accordo un numero imprecisato di persone è veramente una fatica enorme e la vita in comune è assai complicata: tra marito e moglie, spesso si intraprendono discussioni per futili motivi, figuriamoci cosa succederebbe in caso di persone che si conoscono da poco tempo, sarebbe veramente complicato.
In questo particolare momento che stiamo vivendo, le persone hanno sempre meno voglia di ascoltare e i rapporti che si creavano fino a qualche anno fà, erano diversi. Oggi si parla solo ed esclusivamente con il computer o con il telefonino e la gente è sempre meno propensa a fare amicizia e su questo bisognerebbe aprire un dibattito. Persone sempre più arrabbiate e pronte alla lite, sostanzialmente vogliose di rimanere sole e senza troppi problemi.
Troppi galli in un pollaio, non possono convivere, la gente non è pronta e non lo sarà mai, a meno che, non cambi radicalmente la vita.
Luciano
Per quindici anni ho vissuto a Lugano in una palazzina di 22 famiglie con relativi spazi comuni tipo lavanderia e relativa asciugatrice,locale ludico con flipper,calcio balilla,piccola biblioteca,computer collegato a internet(nel 1993 era una cosa all’ avanguardia),campo di calcio e campo di hochey a rotelle,un campo da tennis su terra rossa.Nel locale ludico si sono tenuti corsi di vela, corsi di subacquea,diversi corsi sulla sicurezza in ambiente domestico,presentazione di birre artigianali,ecc.ecc.ecc.
Mai un problema per 15 anni.Il cohousing non è fattibile per noi italiani ,ma è un nostro limite su cui meditare e riflettere.Con questo non dico che vivere in Svizzera sia tutto rosa e fiori.
Serena
Premetto che sono abituata a vivere in case singole, sicuramente il cohousing non è per tutti, specialmente se consideriamo come siamo noi italiani, ma quali sono alla fin fine le differenze dal vivere in condominio? Gli spazi comuni sicuramente andranno studiati in base alla nostra cultura ed alla nostra mentalità, nella peggiore delle ipotesi si litigherà come accade sempre tra condomini, ma se si valutano i risparmi ed i vantaggi che da esso possono scaturire credo che la maggior parte di noi dovrà ricredersi ed ammettere l’interesse.
Facciamo l’esempio della città di Modena, ha fatto un bando per presentare progetti di cohousing da parte della popolazione e la cosa ha avuto scarso riscontro, mentre a pochi chilometri di distanza in un paese della provincia hanno già fatto realizzazioni. Credo che, fatto nei dovuti modi, potrebbe essere simile alle realizzazioni nelle zone Peep, dove si costituiscono le cooperative per l’assegnazione del terreno o della casa.
Non siamo così diversi, per esigenze, dalla maggior parte della popolazione, siamo solo più ottusi ed in un momento di regressione non farebbe male a prendere in considerazione questa formula inventata da paesi di certo più evoluti di noi.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 005I membri della Fondazione ci hanno infine fornito una risposta, che è il condensato di quelle fornite singolarmente:
Che la classe dirigente debba cambiare modus operandi e che la tassazione italiana debba essere rivalutata è fuori dubbio: non fatevi più fregare votando sempre gli stessi! ma non siamo qui per parlare di politica.
Il cohousing, indipendentemente dalla situazione economica dovuta a questa crisi, potrebbe essere di aiuto per esempio alle giovani coppie che in ogni caso avrebbero problemi ad acquistare la casa. E non solo a loro.
Certamente, il patrimonio immobliare esistente deve essere il più possibile recuperato e ristrutturato con  intelligenza. Esistono già dei progetti realizzati proprio su questa direzione.
I dubbi di Lorena sono legittimi e condivisibili da chiunque. Bisogna però considerare che il cohousing deve prevedere già a livello progettuale le necessità dei futuri residenti e la pianificazione urbanistica del progetto stesso: ovvio che la lavanderia non deve essere lontana, e che l’orto andrebbe suddiviso, ognuno si coltiva il proprio, molti attrezzi e l’impianto di irrigazione potrebbero essere in comune. Poi, se qualche volontario appassionato vuole aiutare gli altri, tanto meglio. Noi, nonostante la nostra partenza, abbiamo saputo adattarci ad un mondo che è cambiato e, pur non rinnegando la nostra matrice, non siamo più favorevoli alla visione del cohousing tipo hippie, ma riteniamo che ogni nucleo familiare debba avere la propria indipendenza, ma nel contempo dividere certi costi e certe spese. Questo può solo aiutare.
Un nuovo progetto di cohousing, prevede delle linee guida proposte dai promotori e da implementare e discutere con i futuri residenti. In tal modo si litiga prima e non dopo.
Vivere in condominio è già una forma di cohousing, ma ad ogni riunione ci sono liti. In questo modo verrebbero eliminate alla base. Lo ripetiamo, dipende molto dal progetto.
Un esempio molto banale: alcuni di noi hanno vissuto in Germania per un paio d’anni, ed in tutti i condomini c’era la lavanderia, inclusa nei costi condominiali. Ogni condomino aveva a disposizione un monte ore in base al nucleo familiare, bastava scendere e prenotare gli orari su un’apposita lavagna. Si tratta di una questione culturale.
Indubbiamente il cohousing non è per tutti e per esempio non vediamo la condivisione della cucina. Ma se studiato bene diventa un bell’esercizio di vita. Nella piccola contrada di montagna dove viviamo vige la regola non scritta che tutti si aiutano. Ci diamo il cambio per portare i bimbi a scuola, quando qualcuno scende in paese chiede agli altri se hanno bisogno di qualcosa al supermercato, ci si ritrova per preparare gli orti di ognuno, eccetera. Ci creda, non solo non costa nessuna fatica ma si viene anzi di coseguenza aiutati e si risparmiano dei bei soldini. Ed è un piacevolissimo momento di coesione, che termina sempre a tarrallucci e vino: un ottimo antistress. Crediamo infine che varcare il confine e vedere cosa c’è di buono, tornare a casa e studiacchiare per come renderlo adatto al nostro paese per migliorare la qualità di vita debba essere un ottimo esercizio che qualcuno dovrebbe avere la volontà di fare. Così diventerebbe, forse, anche meno ottuso e razzista da ignorante che ha visto solo il confine delle proprie montagne e crede che il mondo sia tutto lì.
Infine, il cohousing non è una forma di condivisione all’insegna del volemose bene, ma un progetto studiato a priori, dove ci si sceglie tra simili anche sotto il profilo delle capacità finanziarie, delle aspettative e delle aspirazioni, al fine di avere ciascuno la propria casetta ed il proprio giardinetto privato, condividendo invece con gli altri spazi che non recano disagio ma che aiutano a ridurre le spese. Oltretutto questa forma associativa porta notevoli vantaggi in termini, come si dice, di economia di scala per l’acquisto comune del lotto di terreno o del borgo da recuperare, delle strutture e dell’impiantistica.

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