Da comune hippie a Fondazione: in Svizzera può accadere

Mentre da noi ci si gingilla con fondazioni che servono prevalentemente ad arraffare quattrini, si istituiscono osservatori e si tengono convegni in una sarabanda di tavoli aperti e chiusi mentre certi borghi, veri e propri gioielli, vanno in malora, nella vicina Svizzera accadono cose molto concrete.KL Cesec CV 2014.01.31 EcovillaggioCes 002Monte Chiesso, Canton Ticino, Svizzera: luogo di ecologismi un po’ radicali ripartito tra un antico villaggio costituito da venticinque case in pietra ed un’azienda agricola è una enclave un tempo decisamente fricchettona. Gente radicale ma simpatica, proveniente da mezza Europa e dove spicca una parlata che suona pressappoco così: A-zont andàa a cattàa i verz, hoo dovùu fal cont i man… nue ca l’è ca te l’è mettüù ol zapètt? Ah damm a traa, ta la fètt tii la bügada ztasira? Traduzione, anzi traduzzzione: Sono andato a cogliere le verze, ho dovuto farlo con le mani… dove hai messo la zappetta? a proposito, lo fai tu il bucato questa sera?KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 003Il villaggio montano, situato non lontano da Locarno ad un’altitudine di 1.450 metri, è praticamente disabitato d’inverno ma variamente vissuto d’estate, quando risuona dello sciabordio, anzi del mantra, di un’impetuosa cascata. Abitato a partire dal sedicesimo secolo, durante la II Guerra Mondiale accolse partigiani, rifugiati e famiglie ebree in fuga.
Ma negli anni Cinquanta gli allettanti agi cittadini sradicarono anche i più tenaci, lasciando il posto ai camosci finché, all’alba dei moti sessantottardi, decise di avventurarvisi in una temeraria azione di recupero (alcuni anche perché ricercati dalla polizia in quegli anni formidabili) un gruppo di giovani locarnesi ai quali si aggiunsero zurighesi, qualche olandese nonché alcuni milanesi che, oggi ormai nonni quelli che non sono nel frattempo morti di Aids o di epatite, ed ormai usciti di galera quelli condannati per tangenti, pedalano tuttora eco-chic per le vie ambrosiane pur avendo la Morgan in garage.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 001Volutamente dis-organizzati in una comunità di ricerca politica, ecologica, sociale e spirituale, a partire dal 1972  trasformarono Ces, così si chiama la località, in luogo alternativo e aperto, dove la cristallina selvaticità dell’ambiente potesse coniugarsi alla ricerca di una purezza interiore: organizzarono campi estivi, corsi, gruppi di autocoscienza che riuscirono a coinvolgere tantissimi giovani. Ogni tanto arrivava la polizia, sequestrava un po’ di maria e se ne andava, preferendo con calvinista pragmaticità non intraprendere ulteriori iniziative perché, in fondo, quella banda di ragazzi non faceva male a nessuno e almeno lì era fuori dalle palle.
Successivamente nacque la tuttora esistente Fondazione per la rinascita di Ces che ha tuttora, con i suoi quasi quaranta membri, la responsabilità del borgo montano. Oggi le case, ristrutturate e fornite di pannelli fotovoltaici, hanno mantenuto gli originali tetti in pietra mentre gli interni sono stati rivestiti in legno.
Arrivare a Ces richiede impegno: bisogna camminare per circa due ore su di un sentiero che può scoraggiare i meno convinti, osservati severamente da castagni pluricentenari e, non di rado, sotto una pioggia torrenziale. A Ces si vive volentieri a lume di candela, ci si scambiano massaggi, si consumano prevalentemente prodotti biologici locali, alcuni coltivati negli orti del villaggio, altri recapitati da una teleferica. Ma non si rinuncia ad olio, pasta e vino che arrivano dalla realtà comunitaria de Il Casale, vicino Pienza in provincia di Siena. Una particolarità: i gabinetti sono comuni, posti ad un’estremità del villaggio poiché strutturati per il compostaggio a secco.
Apparente stranezza nella piazzetta principale del borgo, la piccola chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo ottimamente restaurata. Niente affatto strano, invece, veder pascolare liberamente lungo i sentieri polli e vacche, alcune sacre in quanto appartenenti ad una donna hindu. Sotto una tettoia una serie di vasche comunicanti, continuamente irrorate dal gettito continuo di acqua sorgiva, garantiscono refrigerio a bidoni di latte, burro e lievito di birra mentre ortaggi e frutta vengono conservati in una cantina seminterrata.
Durante la stagione estiva alcune case vengono affittate o tenute a disposizione dei volontari del Servizio Civile Internazionale, impegnati in lavori di recupero.
E, chi vuole salire ancora, può giungere a quota 1.537 dov’è situato l’ancor più minuscolo villaggio di Doro, abitato da alcune coppie che allevano capre ed hanno dato vita all’azienda Monte Sponda, specializzata nella produzione casearia. Figura mitica, da qualcuno definita ginsberghiana-shivaita, è il Giovanni che vive vestito di pelli di capra insieme con due donne in un tepee – sia pure munito di pannello fotovoltaico per alimentare l’irrinunciabile radio –  e che, pur avendo contribuito a parte dei lavori nel borgo, ritiene che i membri della fondazione: “Discutono troppo, si sono imborghesiti e nella realtà dei fatti un solido progetto comunitario è ancora di là da venire“.
Il Giovanni, tra l’altro, costituisce anche la risposta all’eventuale domanda: quando e perché i ragazzi milanesi se ne andarono, tenendo altresì presente che qualcuno di loro raggiunse il fondovalle vagamente saccagnato… e poi divenne avvocato o commercialista, non escludendo di conseguire rosee, o per meglio dire rosè, mire politiche. Chi volesse saperne di più può trovare i sopravvissuti al Radetzky in largo la Foppa all’ora dell’aperitivo, ormai inconsolabilmente orfani della libreria Utopia che ha chiuso i battenti poco tempo fa, ma accompagnati dagli inseparabili pointer o levrieri afgani, a pontificare di migranti e cultura altra. Qualcuno si è riciclato nel terzo settore, c’è chi addirittura ha aperto una banca. Neanche a dirlo: etica e solidale.
Fin qui la storia di quello che, pur non essendo l’antesignano degli ecovillaggi svizzeri, è sicuramente il più coreografico.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 004Qualche tempo fa la Fondazione, ormai attiva sul web, in attività redazionali ed editoriali ed in alcune trasmissioni radiofoniche piuttosto seguite in Italia, lanciò un questionario. Il tema, che riprendiamo poiché suona come un chiarissimo manifesto, era:
Il cohousing, semplificando, non è altro che il condividere degli spazi abitativi con altri nuclei familiari. E’ una interessantissima soluzione, che risolve sia l’ottimizzazione degli spazi sia il concetto di integrazione e comunità di persone appartenenti a gruppi omogenei. E’ indubbio che nel venirsi a creare un progetto di cohousing, uno degli aspetti più importanti sia quello di redigere un’idea adatta al territorio e ai potenziali residenti.
In questo modo possiamo ottenere dei complessi abitativi ecosostenibili, con costi accettabili e studiati per integrare ed aggregare le persone. Se ci pensiamo potrebbe essere non solo la soluzione per condividere ad esempio la centrale termica, la lavanderia, la sala attrezzi, un tagliaerba per tutte le famiglie, ma anche la possibilità di avere un orto suddiviso, magari con serre  per verdure buone a costo quasi zero, un mini nido gestito dai residenti ma anche la possibilità di avere un locale comune per gli ospiti, una sorta di foresteria che potrebbe anche essere affittata come B&B e portare piccole entrate per le spese correnti. Secondo voi, quali zone possono essere condivise e quali no?
Tra le numerosissime risposte pervenute ce ne sono state segnalate alcune tra quelle giunte dall’Italia.
Gianfranco
La mia risposta è in realtà una domanda: perchè noi dobbiamo dividerci cose o zone, poi con le tasse che paghiamo dobbiamo arrivare a livelli così… quando i nostri politici sperperano soldi pubblici e cioè nostri, abbiamo bellezze architettoniche o costruzioni lasciate lì a marcire per mancanza di fondi e causa sprechi o lentezze burocratiche non possono essere destinate ad altri usi?
Lorena
All’inizio mi piaceva. Poi mi sono ricreduta. E’ una cavolata megagalattica. Lavanderia: separata dal corpo delle abitazioni, se hai la jella di abitare lontano devi farti tutto il cortile coi panni da lavare e viceversa, e d’inverno e quando piove? I bambini meglio madarli all’asilo, tutti vogliono parcheggiare i pargoli poi alla fine nessuno vuole prendersi la responsabilità di curare quelli degli altri. L’orto? Come l’asilo, tutti vogliono raccogliere ma quelli che zappano e seminano alla fine sono sempre gli stessi. Tosaerba: cos’è? Il locale in comune per le feste poi è una tragedia: ogni volta che ne hai bisogno tu è già accupato. No parliamo della pulizia… Insomma: meglio la casa di ringhiera!
Marco
Noi Italiani non siamo culturalmente preparati a esperienze simili, la casa è sempre e sempre sarà un focolare molto intimo, dove difficilmente si condividono interessi di gruppo. Io personalmente avrei forti dubbi nel condividere parti comuni con una persona sconosciuta, sono convinto che ci sarebbero problematiche irrisolvibili per chi deve o non deve fare. L’intimità deve prevalere, almeno nell’ambito abitativo è impensabile che acquistata una casa con sacrifici e rinunce debba trovarmi nella situazione di condividere parti comuni con persone che, culturalmente sono lontane anni luce dalle mie idee. L’ipocrisia non è nel mio dna e devo ammettere che condividere parti comuni con un mussulmano o altro, non sarebbe una cosa fattibile. Datemi pure del razzista, non mi preoccupo per questo, l’importante che la casa rimanga un luogo dove condividere gioie e dolori, solo con le persone che amo.
Marcello
Non sono d’accordo che vivere in un appartamento sia una forma di cohousing, una persona non condivide nulla con gli altri inquilini, spazzatura a parte. Quando chiudo la porta d’entrata, automaticamente mi creo una situazione di assoluto isolamento. E’ vero che posso sentire quello che dice il mio vicino di casa, ma tra lui e la mia famiglia c’è in ogni modo, una parete che divide e protegge.
Trovarsi in situazioni come ad esempio, dividere le spese sopportate da persone che accettano di vivere in una comunità, non è facile come dirlo. Sappiamo tutti che, mettere d’accordo un numero imprecisato di persone è veramente una fatica enorme e la vita in comune è assai complicata: tra marito e moglie, spesso si intraprendono discussioni per futili motivi, figuriamoci cosa succederebbe in caso di persone che si conoscono da poco tempo, sarebbe veramente complicato.
In questo particolare momento che stiamo vivendo, le persone hanno sempre meno voglia di ascoltare e i rapporti che si creavano fino a qualche anno fà, erano diversi. Oggi si parla solo ed esclusivamente con il computer o con il telefonino e la gente è sempre meno propensa a fare amicizia e su questo bisognerebbe aprire un dibattito. Persone sempre più arrabbiate e pronte alla lite, sostanzialmente vogliose di rimanere sole e senza troppi problemi.
Troppi galli in un pollaio, non possono convivere, la gente non è pronta e non lo sarà mai, a meno che, non cambi radicalmente la vita.
Luciano
Per quindici anni ho vissuto a Lugano in una palazzina di 22 famiglie con relativi spazi comuni tipo lavanderia e relativa asciugatrice,locale ludico con flipper,calcio balilla,piccola biblioteca,computer collegato a internet(nel 1993 era una cosa all’ avanguardia),campo di calcio e campo di hochey a rotelle,un campo da tennis su terra rossa.Nel locale ludico si sono tenuti corsi di vela, corsi di subacquea,diversi corsi sulla sicurezza in ambiente domestico,presentazione di birre artigianali,ecc.ecc.ecc.
Mai un problema per 15 anni.Il cohousing non è fattibile per noi italiani ,ma è un nostro limite su cui meditare e riflettere.Con questo non dico che vivere in Svizzera sia tutto rosa e fiori.
Serena
Premetto che sono abituata a vivere in case singole, sicuramente il cohousing non è per tutti, specialmente se consideriamo come siamo noi italiani, ma quali sono alla fin fine le differenze dal vivere in condominio? Gli spazi comuni sicuramente andranno studiati in base alla nostra cultura ed alla nostra mentalità, nella peggiore delle ipotesi si litigherà come accade sempre tra condomini, ma se si valutano i risparmi ed i vantaggi che da esso possono scaturire credo che la maggior parte di noi dovrà ricredersi ed ammettere l’interesse.
Facciamo l’esempio della città di Modena, ha fatto un bando per presentare progetti di cohousing da parte della popolazione e la cosa ha avuto scarso riscontro, mentre a pochi chilometri di distanza in un paese della provincia hanno già fatto realizzazioni. Credo che, fatto nei dovuti modi, potrebbe essere simile alle realizzazioni nelle zone Peep, dove si costituiscono le cooperative per l’assegnazione del terreno o della casa.
Non siamo così diversi, per esigenze, dalla maggior parte della popolazione, siamo solo più ottusi ed in un momento di regressione non farebbe male a prendere in considerazione questa formula inventata da paesi di certo più evoluti di noi.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 005I membri della Fondazione ci hanno infine fornito una risposta, che è il condensato di quelle fornite singolarmente:
Che la classe dirigente debba cambiare modus operandi e che la tassazione italiana debba essere rivalutata è fuori dubbio: non fatevi più fregare votando sempre gli stessi! ma non siamo qui per parlare di politica.
Il cohousing, indipendentemente dalla situazione economica dovuta a questa crisi, potrebbe essere di aiuto per esempio alle giovani coppie che in ogni caso avrebbero problemi ad acquistare la casa. E non solo a loro.
Certamente, il patrimonio immobliare esistente deve essere il più possibile recuperato e ristrutturato con  intelligenza. Esistono già dei progetti realizzati proprio su questa direzione.
I dubbi di Lorena sono legittimi e condivisibili da chiunque. Bisogna però considerare che il cohousing deve prevedere già a livello progettuale le necessità dei futuri residenti e la pianificazione urbanistica del progetto stesso: ovvio che la lavanderia non deve essere lontana, e che l’orto andrebbe suddiviso, ognuno si coltiva il proprio, molti attrezzi e l’impianto di irrigazione potrebbero essere in comune. Poi, se qualche volontario appassionato vuole aiutare gli altri, tanto meglio. Noi, nonostante la nostra partenza, abbiamo saputo adattarci ad un mondo che è cambiato e, pur non rinnegando la nostra matrice, non siamo più favorevoli alla visione del cohousing tipo hippie, ma riteniamo che ogni nucleo familiare debba avere la propria indipendenza, ma nel contempo dividere certi costi e certe spese. Questo può solo aiutare.
Un nuovo progetto di cohousing, prevede delle linee guida proposte dai promotori e da implementare e discutere con i futuri residenti. In tal modo si litiga prima e non dopo.
Vivere in condominio è già una forma di cohousing, ma ad ogni riunione ci sono liti. In questo modo verrebbero eliminate alla base. Lo ripetiamo, dipende molto dal progetto.
Un esempio molto banale: alcuni di noi hanno vissuto in Germania per un paio d’anni, ed in tutti i condomini c’era la lavanderia, inclusa nei costi condominiali. Ogni condomino aveva a disposizione un monte ore in base al nucleo familiare, bastava scendere e prenotare gli orari su un’apposita lavagna. Si tratta di una questione culturale.
Indubbiamente il cohousing non è per tutti e per esempio non vediamo la condivisione della cucina. Ma se studiato bene diventa un bell’esercizio di vita. Nella piccola contrada di montagna dove viviamo vige la regola non scritta che tutti si aiutano. Ci diamo il cambio per portare i bimbi a scuola, quando qualcuno scende in paese chiede agli altri se hanno bisogno di qualcosa al supermercato, ci si ritrova per preparare gli orti di ognuno, eccetera. Ci creda, non solo non costa nessuna fatica ma si viene anzi di coseguenza aiutati e si risparmiano dei bei soldini. Ed è un piacevolissimo momento di coesione, che termina sempre a tarrallucci e vino: un ottimo antistress. Crediamo infine che varcare il confine e vedere cosa c’è di buono, tornare a casa e studiacchiare per come renderlo adatto al nostro paese per migliorare la qualità di vita debba essere un ottimo esercizio che qualcuno dovrebbe avere la volontà di fare. Così diventerebbe, forse, anche meno ottuso e razzista da ignorante che ha visto solo il confine delle proprie montagne e crede che il mondo sia tutto lì.
Infine, il cohousing non è una forma di condivisione all’insegna del volemose bene, ma un progetto studiato a priori, dove ci si sceglie tra simili anche sotto il profilo delle capacità finanziarie, delle aspettative e delle aspirazioni, al fine di avere ciascuno la propria casetta ed il proprio giardinetto privato, condividendo invece con gli altri spazi che non recano disagio ma che aiutano a ridurre le spese. Oltretutto questa forma associativa porta notevoli vantaggi in termini, come si dice, di economia di scala per l’acquisto comune del lotto di terreno o del borgo da recuperare, delle strutture e dell’impiantistica.

Malleus