I numeri dell’agricoltura lombarda

Quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello. Ma vacche e suini, confinati in veri e propri lager, non lo sanno.
Del resto chissenefrega, mica hanno letto il Manzoni loro. Tutt’al più diventano Manzotin, il marchio acquistata giustappunto nel gennaio di quest’anno dal boss della carne nazionale, il solito Cremonini.
Lo scopo di questo scritto è evidenziare i numeri dell’agricoltura lombarda. Dopo il censimento del 2000, quello del 2010 e quello del 2013 l’Istat ha in corso l’elaborazione di un aggiornamento dello stato dell’arte, ancora privo dei crismi dell’ufficialità ma che presenta importanti spunti di riflessione: economica, sociale ed etica.
Nell’attesa che l’indagine venga diffusa ufficialmente rinfreschiamoci la memoria con gli ultimi dati disponibili, quelli del 2013: ci serviranno quando, prima dell’estate, disporremo dei dati aggiornati. Nella consapevolezza che in questi tre anni molte cose sono cambiate, e non sempre in meglio.CC 2016.05.28 Agrilombardia 000È noto come la regione italiana a più elevata vocazione agricola sia la Lombardia, nella quale sono censite 54.333 aziende attive. Rappresentano il 3,3% del totale nazionale mentre la SAU, Superficie Agricola Utilizzata, rappresenta il 7,7 % di quella nazionale con 986.853 ettari.
La dimensione media aziendale è cresciuta nell’ultimo decennio del 24%, passando da 14,8 ettari di SAU a 18,2, valore più che doppio rispetto alla media nazionale.
A fronte del calo complessivo del numero di aziende (-23,5 % rispetto al censimento del 2000), si osservano variazioni positive per superfici e aziende rientranti nelle classi di SAU > 50  ettari.  La  SAU  della classe 50 ha e oltre copre il 55,6% del totale.
Ciò significa che chi dispone di capitali o ha accesso al credito – spesso investitori stranieri – ha acquistato superfici, non infrequentemente tramite le esecuzioni giudiziarie di aziende fallite. Ricordo che nel solo 2013 (dati non censiti in questa analisi) ha chiuso i battenti il 22% degli agriturismi, formalmente classificati come aziende agricole. Vedasi il nostro articolo dell’8 ottobre 2014: Agriturismi, anche no.CC 2016.05.29 Agrilombardia 001La struttura giuridica prevalente è l’azienda individuale (53,5%) ma le forme societarie – a partire da quella classica nel mondo agricolo, la Società Semplice – hanno un peso relativo (39,4%) maggiore di quello nazionale (15,4%).
Aumenta il ricorso a  terreni in affitto (49,5%) in crescita di 8 punti percentuali diventando la forma di possesso più diffusa e per la quale la quota di SAU sul totale, oltre ad essere più elevata rispetto a quella osservata nel 2000, lo è anche rispetto al valore nazionale (29,9%).
La proprietà cala invece di 10 punti percentuali rispetto al 55,3% del 2000, mentre sono in leggero aumento i terreni concessi ad uso gratuito (dal 3,3% nel 2000 al 5% nel 2010).
Nel triennio 2013-2016, i dati lo confermeranno, vi è stata un’impennata dei terreni concessi in uso gratuito a privati, associazioni, Onlus, anche in ambito urbano per impiantarvi attività con prevalente finalità sociale o didattica. E questa è una delle poche cose buone..
Il dato nazionale sui terreni di proprietà è 61,9%, anche qui in calo rispetto al 76,8% del 2000.CC 2016.05.29 Agrilombardia 003In Lombardia le aziende sono più informatizzate rispetto alla media nazionale (15% contro 4%) con utilizzo delle tecnologie informatiche rivolto prevalentemente alla gestione dei servizi amministrativi  ed al marketing.
Rispetto al resto del Paese in Lombardia risulta superiore alla media anche il ricorso alla vendita diretta dei prodotti ad altre aziende agricole (33,5%) ad imprese industriali (41,0%) a GAS, Gruppi di Acquisto Solidale, e privati (29,7%).
In netto calo le aziende con allevamento (-21,8% in Lombardia, -41,3% in Italia rispetto al 2000) ma contemporaneo incremento della loro dimensione e dell’importanza relativa al settore nel contesto nazionale.CC 2016.05.29 Agrilombardia 002Qui il dato non deve trarre in inganno: le aziende allevatrici non calano per una sia pur riscontrabile diminuzione del consumo di carne – in Lombardia prevalentemente bovina e suina e solo in determinate circostanze (Pasqua) ovina – ma perché la carne, in forma di capi vivi o già macellata, viene importata dall’estero, specialmente dai Paesi dell’Est europeo dove molte aziende hanno acquistato, negli anni scorsi, estesi appezzamenti, agevolati in questo dalla concessione di finanziamenti speciali e da norme fiscali favorevoli. Per dire di un prodotto: la bresaola IGP della Valtellina è prevalentemente preparata con carne proveniente dalla Romania.
Ciò significa che numerose aziende di allevamento si sono progressivamente trasformate in aziende di trasformazione agroalimentare.
A tale proposito non bisogna dimenticare che la Lombardia, con Emilia Romagna e Veneto una delle tre regioni italiane a forte vocazione zootecnica, contribuisce comunque in misura significativa al valore della produzione animale nazionale e comunitaria.
L’allevamento bovino è il più diffuso tra gli allevamenti lombardi e le 14.718 aziende attive rappresentano il 12% circa del totale nazionale gestendo il 26% del patrimonio bovino nazionale (1.484.991 capi). Il settore presenta dimensioni medie elevate, più che doppie rispetto a quelle nazionali (45 capi/azienda) con una notevole meccanizzazione ed un’organizzazione di stampo industriale. I capi per azienda risultano in crescita nell’ultimo decennio (da 82 a 101 capi, pari appunto a circa il 26%). Tale dinamica riflette una contrazione del numero di allevamenti bovini, pari al 25,2%, superiore a quella della consistenza del patrimonio bovino (-7,6%).
Il più intenso processo di contrazione riguarda gli allevamenti da latte (-31,1%) ma la consistenza del patrimonio di vacche da latte ha registrato un calo inferiore (-2,4% rispetto al -7,6% del totale bovini). Ciò ha determinato un aumento delle dimensioni medie da 46 a 65 vacche per azienda (+42% circa).
Gli allevamenti da latte sono 8.463, pari al 16,8% di quelli italiani, con un numero di capi corrispondenti a più di un terzo di quelli allevati in Italia (34,7%).
Per quanto riguarda le specie ovine e caprine si registra un aumento del numero di capi rispetto al 2000 del 17,0%, con un ampliamento delle dimensioni medie da 35 a 64 capi per azienda per gli ovini e da 16 a 26 capi per i caprini. Le variazioni sono intervenute parallelamente alla riduzione del numero degli allevamenti, rispettivamente pari a -35,3% e a -28,6%.
In ogni caso tali allevamenti rappresentano, come sempre, un’attività di nicchia rispetto al totale nazionale con il 3,2% degli allevamenti ovini (1,6% dei capi) e del 9,7% di quelli caprini  (6,7% dei capi) e sono prevalentemente concentrati nelle montagne di Bresciano e Lecchese.
Quanto ai suini il dato censuario mette in luce un sensibile incremento della consistenza regionale di capi (+24,0%), che ammontano a 4.758.963, a fronte di una riduzione del 59,2% del numero di allevamenti. La suinicoltura lombarda, interessata diffusamente da forme diverse di contratti di soccida, è al primo posto nel quadro produttivo nazionale ed interessa 2.642 aziende (10,1% del totale nazionale) che controllano il 51% della consistenza suinicola nazionale, con prevalente localizzazione nel triangolo della Bassa Lombardia (Brescia, Mantova e Cremona). Le dimensioni medie degli allevamenti, pari a 1.800 capi per azienda con punte che rasentano le 2.900 unità, risultano le più elevate in Italia e notevolissima è la loro ricaduta in termini ambientali.
Niente affatto da dimenticare, e il dato è comune alle specie bovine, che un elevato numero di capi parametrato ai pochi addetti, significa che i capi vivono permanentemente immobili in spazi angusti e collegati a macchine che si occupano della loro accudienza e della mungitura, della sola mungitura nel caso degli ovini.
La stessa riproduzione avviene con metodi non naturali, procedendo di fatto alla masturbazione dei maschi ed inoculando il seme nelle femmine mediante apposite attrezzature. Del resto, con migliaia di capi e tempi da catena di montaggio non è pensabile fare diversamente.
Relativamente all’utilizzo della superficie agricola la Lombardia presenta una più elevata quota di superficie agricola investita a seminativi rispetto al resto d’Italia (58,2% contro 41,0%), ma con dimensioni medie aziendali più che doppie; inoltre, la superficie destinata ad arboricoltura da legno, seppur con una quota contenuta, pari al 1,5% della SAT regionale, raggiunge un’incidenza elevata nel contesto nazionale (18,5%), con dimensioni medie anche in questo caso più che doppie.
La superficie investita a prati permanenti e pascoli rappresenta il 6,8% della relativa superficie nazionale, pari al 19,1% della SAT, Superficie Agricola Totale, regionale, percentuale in linea con la media nazionale.
Presentano, invece, una quota SAT inferiore alla media nazionale le coltivazioni legnose agrarie (3,0% contro il 13,9%) e la superficie annessa ad azienda agricola destinata a boschi (11,5% conto 17,0%) ma con analoghe dimensioni medie per entrambi gli utilizzi.
La  forza  lavoro  è  prevalentemente familiare con una corrispondente quota sul totale del lavoro impiegato di poco inferiore a quella che caratterizza il contesto nazionale (71,4% contro 75,8%).CC 2016.05.29 Agrilombardia 004L’intensità di lavoro pro-capite è più elevata in Lombardia rispetto a quella nazionale: 153 giornate di lavoro contro 69 per la manodopera familiare, 107 contro 53 per quella non familiare. Quest’ultima è rappresentata dal 40% di lavoratori stranieri, in particolare originari dell’Est europeo e asiatici di India, Nepal, Pakistan, in particolare negli allevamenti del Cremonese e del Mantovano.CC 2016.05.29 Agrilombardia 005Nel dettaglio, il sistema agricolo lombardo si avvale complessivamente del lavoro di 137.447 addetti, di cui 98.157 familiari e 39.290 salariati. Le risorse umane impiegate nel settore agricolo lombardo rappresentano il 3,5% della manodopera agricola italiana nel suo complesso. Il conduttore rimane la figura centrale nell’ambito delle aziende a conduzione familiare sia in termini di numero di persone (54,1% del totale della manodopera familiare) sia in termini di impegno lavorativo (171 giornate uomo durante l’annata agraria contro una media di 153 giornate della manodopera familiare complessiva). In termini di numerosità seguono gli altri familiari del conduttore (17,8%), il coniuge (16,6%) e, infine, altri parenti (11,5%). In termini di intensità lavorativa troviamo nell’ordine gli altri familiari, i parenti e il coniuge con rispettivamente 164, 144 e 94 giornate uomo.
L’impegno lavorativo in termini di giornate per lavoratore è sensibilmente maggiore in pianura (170) rispetto alle fasce collinari (145) e montane (127).
Se per necessità tattiche le “scarpe grosse” rimangono, si accentua il “cervello fino”: oltre un terzo dei capi azienda è diplomato o laureato e il 78,2% delle aziende agricole di pianura è gestito da maschi. Le donne incidono maggiormente nelle zone montane (30,0% sul totale). I capi azienda lombardi hanno un’età media di circa 56 anni e sono, per la quasi totalità, di cittadinanza italiana.CC 2016.05.29 Agrilombardia 006Il 64,2% dei capi azienda ha un titolo di studio che non supera la licenza media, e la quota di coloro che hanno una preparazione scolastica specifica per il settore agrario è esigua (9,6%). Rimane quindi prevalente una formazione ancora molto legata all’esperienza sul campo piuttosto che a quanto appreso sui banchi di scuola. Tuttavia questa tendenza in Lombardia è meno accentuata rispetto all’intero contesto nazionale, dove le suddette percentuali sono pari a 71,5% e 4,2%
Sempre più diffuso infine il contoterzismo,  attivo  e  passivo: il  primo  è  praticato  dal 2,4%  delle  aziende  regionali (1,1%  a  livello  nazionale) ed al secondo ricorre il 48% delle aziende (33% il dato nazionale) con un più elevato numero di giornate/azienda  (9  in Lombardia a fronte di 7,4 a livello nazionale).

Alberto C. Steiner

Agriturismo, anche no.

In ragione della mia attività professionale mi occupo di immobili ed appezzamenti di terreno suscettibili di essere interpretati nell’ambito di una visione agroalimentare, ricettiva, didattica o del cohousing rurale. Se fino a ieri non avevo alcuna ritrosia ad inventare soluzioni o progettare attività nel comparto agrituristico, oggi tendo a dissuadere clienti ed investitori che sento non particolarmente forti nell’intento dall’imbarcarsi in tale avventura, in particolare se neofiti e soprattutto se intendono acquistare un immobile ed un appezzamento di terreno appositamente per svolgerla.Cesec-CondiVivere 2014.10.08 Agriturismi anche no 002Non sono un benefattore e non vivo di prana, sia chiaro: semplicemente ritengo corretto non sottacere i rischi che inventarsi oggi tale lavoro comporta, soprattutto quello di essere costantemente presi a tirare la cinghia, non poter effettuare investimenti per restare al passo e quindi perdere terreno rischiando il fallimento. Preferisco consigliare altre opportunità, più remunerative del capitale investito e che consentano una maggiore serenità.
Non è più il tempo dello spontaneismo, bensì è piuttosto arrivato il momento delle attività polifunzionali riunite sotto lo stesso tetto da soggetti diversi, ciascuno con la propria specificità, sinergiche in un contesto pensato e progettato sulla base di una concreta analisi dei bisogni del territorio sul quale insisterà il nuovo insediamento. Ciò significa altresì che, se si vuole campare rivolgendosi al mercato, termine in un certo contesto assai vituperato ma unico giudice in grado di sentenziare se è possibile svolgere l’attività da tanto tempo sognata in modo da poterla sviluppare e consolidare, è più che mai necessario sceglierne con estrema attenzione l’ubicazione tenendo conto di numerosi fattori, in particolare di quelli logistici.Cesec-CondiVivere 2014.10.08 Agriturismi anche no 003Scrivevo il 28 febbraio scorso, in un articolo intitolato Come gestire una fattoria didattica, che secondo i dati Confcommercio-Confagri nel corso del 2013 sugli oltre 20mila agriturismi censiti ha cessato l’attività il 22% mentre il 16% risulta inoperante. Analizzando le aziende agricole in vendita giudiziaria ed i dati diffusi dalle numerose associazioni di categoria per superficie di terreno disponibile, tipo di coltivazioni o allevamenti, capacità ricettiva ed offerta di attività aggregate emergeva una constatazione: gli agriturismi che hanno chiuso erano prevalentemente alberghi di campagna con l’orticello, non aziende agricole che all’attività principale abbinavano la capacità ricettiva.
Poiché dal 2007 al 2012 la crescita degli agriturismi sembrava inarrestabile, ho voluto in quell’occasione riprendere un’indagine svolta da Agriturismo.it nel settembre 2012 su un campione di 310.000 persone e che aveva raccolto 2.778 risposte, rapportandola con una analoga svolta dall’Istat l’anno successivo, per sintetizzare un aspetto che si sta sempre più delineando nel mercato della ricettività agrituristica.
Per non appesantire il testo riporto esclusivamente i valori riferiti all’anno 2013, rimandando per nozioni più appprofondite ai siti agriturismo.it e istat.it .
Dal 53% degli intervistati l’agriturismo veniva percepito come un luogo dove trascorrere una o più notti piuttosto che come un ristorante con prodotti tipici, ed il 44% dei turisti rurali ricercava proprio l’ambiente familiare e l’ospitalità offerti dalle aziende agrituristiche. Nel 30% dei casi si ritenevano migliorate la percezione generale nei confronti dell’agriturismo e l’idea che potesse evolversi mantenendo lo spirito iniziale, pur se un preoccupante 34% lamentava menu banali e non legati al territorio ed il 24%, vale a dire quasi un quarto dei clienti, la poca chiarezza sui prezzi.
Tra le mete più gettonate calavano Toscana ed Umbria, rispettivamente dal 64% al 58% e dal 44% al 35% delle preferenze, mentre le altre restavano sostanzialmente invariate.
La crisi ha inciso sul 70% degli intervistati: nel 2007 il 69% andava in agriturismo almeno quattro volte l’anno, ma già nel 2009 solo il 54% dichiarava di soggiornarvi più di una volta, ed all’epoca dell’indagine lo faceva solo il 41 per cento, vale a dire che si è perso il 41% dei fruitori.
Nel frattempo si è elevata nel quinquennio l’età media degli agrituristi, registrando un forte aumento degli over 50 ed un sensibile calo degli under 35, che passavano dal 20 al 10% mentre i primi crescevano dal 30 al 39 per cento. Questo dato non sta a significare che l’agriturismo è una meta per vecchietti, piuttosto che tra gli under 35 risiede massimamente la fascia di coloro che hanno poco lavoro ed ancor meno denaro. Significativo infatti come gli over 50 siano caratterizzati nel 31% dalla minore attenzione al budget rispetto ai più giovani.
Che l’utenza invecchi lo dimostra anche il tipo di compagnia scelta per la vacanza: se nel 2007 il 67% privilegiava un partner anche occasionale, nel 2009 il 57% sceglieva decisamente il partner fisso ed oggi nel 65% preferisce soggiornare in agriturismo con tutta la famiglia, bambini compresi, che nel 55% dei casi hanno meno di 10 anni.
Ciò comporta che il 67% degli intervistati senza figli dichiari che preferisce evitare l’agriturismo, o quanto meno certi agriturismi, proprio per non ritrovarsi in un Kinderheim. Il dato sembra veritiero se gli stessi intervistati, rispondendo ad una domanda di verifica, dichiarano che preferiscono evitare, nel 56% dei casi, di trascorrere vacanze con amici che hanno figli, ma ciò non costituisce una novità: coloro che hanno figli tendono a frequentarsi tra loro per uniformità di tempi, argomenti ed esigenze.
Il cliente alberghiero e della ristorazione senza figli è tradizionalmente quello maggiormente disposto a spendere; l’abbandono di chi non ha figli, anche se non motivato da ragioni economiche, ma magari semplicemente perché portando il bambino a cavalcare nella fattoria sotto casa vi si trova bene trascorrendovi la giornata, costituisce pertanto un dato da osservare nella dinamica del fatturato degli agriturismi. Soprattutto considerando che numerosi pacchetti prevedono il soggiorno gratuito o semigratuito per i bambini, e che numerosi agriturismi hanno investito molto per attrarre famiglie con figli piccoli.Cesec-CondiVivere 2014.10.08 Agriturismo anche no 001Ma passiamo alle motivazioni: gli italiani scelgono l’agriturismo all’insegna del mangiar sano nell’84% dei casi e del risparmio nel 91%, mentre la possibilità di immergersi nella natura stimola il 38% degli ospiti anche se solo il 16% tende a provare un po’ tutte le possibilità offerte da questo tipo di vacanza: natura, enogastronomia, relax, attività olistiche per il benessere fisico e spirituale. Corsi ed altre iniziative proposte dentro e fuori l’agriturismo seguono a distanza, segno che chi le frequenta non le vive come una componente del pacchetto vacanza bensì come la ragione per recarsi nel luogo dove vengono tenute, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di un agriturismo.
Gli stranieri cercano invece nella vacanza in agriturismo la tranquillità (84%) e l’attenzione all’ambiente (79%) oltre che la possibilità di visitare attrazioni naturalistiche o storiche nei dintorni (36%) e svolgere attività nell’azienda (24%) comprese quelle legate all’agricoltura ed all’allevamento.
Italiane o straniere, le famiglie sono nel 48% dei casi  attente agli agriturismi che offrono un ambiente familiare e nel 38% spazi e attività dedicati ai bambini. Fra le attività possibili l’equitazione è quella preferita dal 34% degli intervistati mentre le altre seguono in ordine sparso.
I profili sin qui descritti non sono quelli dei trentenni con figli piccoli, bensì quelli dei 40-50enni: va tenuto presente che oggi i figli si hanno massimamente non prima dei trentacinque anni di età.Cesec-CondiVivere 2014.10.08 Agriturismi anche no 004Oggi l’agriturismo è scelto anche per festeggiare matrimoni, cresime e comunioni, purché situato in un contesto d’atmosfera e non lontano dalla città.
Nell’estate del 2013 sono stati 3 milioni gli italiani che hanno scelto di trascorrere almeno quattro giorni di vacanza in uno dei ventimila agriturismi, con una flessione del 17 per cento rispetto alle aspettative dei gestori.
I prezzi andavano dai 14 ai 27 euro per un pasto e dai 22 ai 49 per un pernottamento, con punte di 90 che riguardavano però resort assolutamente particolari. Un’analisi a campione da me svolta nello scorso mese di settembre su 109 insediamenti distribuiti fra Lombardia, Toscana e Umbria, Emilia, Veneto e Trentino Alto Adige mi ha fatto comprendere come i prezzi abbiano subito un incremento medio del 19 per cento con punte del 27 nelle province di Arezzo, Belluno, Bolzano, Brescia, Perugia e Verona.
Tornando all’indagine precedente, il 74% degli intervistati dichiarava di considerare eque tariffe giornaliere non superiori ai 36 euro comprensive di pernottamento e trattamento di mezza pensione.
Non va dimenticato che un importante indotto per l’agriturismo è rappresentato dalla vendita dei prodotti tipici: ortaggi ma soprattutto vini, formaggi, salumi e prodotti dell’artigianato locale. Ma anche in questo caso il calo delle vendite nel 2013 è stato del 39%, un abisso.
E quando finisce l’estate ci si prepara all’autunno, ancora clemente, e poi al freddo, mai amico.Cesec-CondiVivere 2014.10.08 Agriturismi anche no 005Se, secondo l’Istat, nel 2013 gli italiani hanno effettuato 63.154.000 viaggi e pernottamenti nazionali (-19,8% rispetto al 2012) e se gli agriturismi subiscono per forza di cose una sosta forzata almeno trimestrale, è chiaro come i dati delle frequentazioni e delle aspettative, parametrati ai costi, lascino intendere come l’attività di agriturismo non sia più da considerare remunerativa.
E i dati disponibili a fine settembre di quest’anno non incoraggiano: complice il tempo inclemente le aspettative estive dei gestori si sono concretizzate solo nella misura del 53 per cento. Un disastro. Di pari passo i contenziosi bancari per mutui o finanziamenti non pagati si sono incrementati del 29% in un solo quadrimestre; e l’ipotesi, per nulla irreale, che entro un anno un ulteriore quota di aziende possa chiudere e le proprietà finire nei canali delle vendite giudiziarie, dove peraltro le vendite del settore languono da anni per mancanza di acquirenti, è tutt’altro che remota.
L’unica possibilità di fare agriturismo rimane pertanto, a ben vedere, quella di abbinarla ad una reale attività agricola, agroalimentare o di allevamento costituente la fonte primaria di reddito. E ancora meglio se edifici e terreni sono di famiglia da generazioni, soprattutto se si è sorretti dall’ormai imprescindibile capacità di reinventarsi ogni giorno.
Come dire che siamo tornati all’ottocentesco detto toscano senza lilleri un si lallera? Temo sia così, in una visione non catastrofista ma soltanto improntata a maggiore consapevolezza: è meglio tenerli stretti, i lilleri, perché il tempo degli sprechi è finito. E’ arrivato il tempo di badare all’essenziale.
E questo vale a maggior ragione per chi intende aprire attività in territori impervi o di montagna non facilmente raggiungibili dai clienti.

ACS