Sapessi com’è strano vedere una cascina, a Milano

Non ci crede mai nessuno, eppure Milano è il secondo Comune agricolo italiano: 2.919 ettari su una superficie comunale complessiva di 18.175 vale a dire il 16 per cento. Punteggiati da cento cascine, oltre la metà delle quali di proprietà pubblica.CC 2016.07.05 Cascine Milano 002Pascoli e grandi orti, vivai e campi di grano, risaie e ghiacciaie, mulini e fontanili, fossi e marcite nel corso di oltre un millennio hanno contribuito a costruire un paesaggio agricolo sconosciuto alla maggior parte dei cittadini.
Nella maggior parte dei casi sono dislocate nella fascia meridionale ed occidentale della città e, insieme con strutture attive nell’agricoltura, nell’allevamento, nel florovivaismo ve ne sono altre dove si svolgono attività sociali, in svariati casi alloggiando persone disagiate, ma rimane una quota non trascurabile di edifici e terreni in disuso che potrebbero essere recuperati.CC 2016.07.05 Cascine Milano 004Distretto Agricolo Milanese, Facoltà di Agraria, Politecnico, Associazione Disponibile, Fondazione Cascine Milano 2015 (per citare solo alcuni nomi) in collaborazione con il Comune e con il concorso di numerose cooperative, associazioni, comitati e privati cittadini svolgono da anni un impegnativo lavoro tendente al riutilizzo degli spazi, spesso ampi, per mantenere vivo il tema allargando la base di interessi e consensi attraverso interventi di sensibilizzazione dei cittadini e delle istituzioni, affinché le cascine ritrovino la loro vocazione agricola o rinascano attraverso interventi sociali, culturali o ambientali.Colorful rural house with gardenLe difficoltà ci sono, primariamente quelle economiche: recuperare una cascina costa e, mancando l’intento speculativo, sono ben pochi, anche nell’industria agroalimentare, gli sponsor che non cedono alla tentazione di finanziare qualche installazione urbana di dubbio gusto ma di certa visibilità funzionalmente ad un ritorno da parte del target dei consumatori dormienti. Le imprese di costruzione, e mi riferisco a quelle blasonate, preferiscono investire in grattacieli destinati a consumare suolo e rimanere vuoti, ma illuminati di notte, e le fondazioni bancarie allargano più la bocca che i cordoni della borsa.
Ma cosa si produce nelle cascine milanesi? Secondo una mappatura promossa nel maggio 2014 dal Touring Club in collaborazione con Comune di Milano, Esselunga e Distretto Agricolo Milanese e riguardante un primo lotto di 32 unità si possono anzitutto acquistare prodotti a chilometro zero, conoscere i contadini e la loro realtà lavorativa, le coltivazioni locali, l’allevamento e la vendita diretta dei prodotti della terra per promuovere una parte importante dell’economia ponendo attenzione alla qualità e alla sicurezza del cibo.CC 2016.07.05 Cascine Milano 003Grazie alla mappa i milanesi possono sapere che alla cascina Corte del Proverbio – nel parco delle Cave – è possibile acquistare miele, o che alla Cascina Grande di Chiaravalle accanto all’attività agricola vi è un centro equestre. Oppure che alla cascina Campazzo, sorella della Campazzino e nel parco del Ticinello a meno di duecento metri dalla stazione M2 di Abbiategrasso, tanti milanesi vanno a comprare latte crudo ai distributori automatici. E ancora il Nocetum gestito da un’infaticabile suora, Ancilla Beretta, che accoglie ragazze madri e donne vittime di violenza. Naturalmente la mappatura non trascura quell’ecoscicchissimo giocattolo della Cascina Cuccagna, a Porta Romana.

Alberto C. Steiner

CESEC, Centro Studi Ecosostenibili: chi siamo

Per una volta parliamo di noi, spendendo solo poche parole. Anzitutto siamo una microstruttura, perché l’interlocutore abbia risposte immediate e certe direttamente da chi possiede le facoltà decisionali. Questo ci consente la massima efficacia.CC 2016.06.28 Chi siamoProgettiamo il recupero strutturale e funzionale di realtà territoriali dismesse e, più in particolare, in stato di pregiudizio finanziario: aziende agricole, terreni, edifici rurali, borghi abbandonati per riportarli a nuova vita impiantandovi attività agrosilvopastorali, di trasformazione agroalimentare, artigianali, ricettive, didattiche, residenziali attuate preferibilmente secondo la formula del cohousing. Crediamo nella comunità ma non nella comune.
Attenti al rispetto del territorio ed alle sue tradizioni, relativamente ai recuperi edilizi poniamo particolare cura nell’utilizzo di materiali locali e naturali quali, per esempio, paglia e terra cruda, calce e pozzolana, beole, carpenterie in legno ed infissi e serramenti certificati non trattati con agenti chimici.
Attenti all’impatto ambientale privilegiamo l’utilizzo di energie a bassa intensità e rinnovabili: fotovoltaica e idraulica, recupero delle acque piovane e riutilizzo di quelle domestiche, minimizzazione degli sprechi anche attraverso il riutilizzo dei rifiuti.
Ove possibile tendiamo a non installare impianti di riscaldamento, diversamente ci atteniamo alle specifiche note come KlimaHaus, fissate originariamente dalla Provincia di Bolzano con il DPGP 34 del 29 settembre 2004 e che fissano in Classe A un valore di fabbisogno energetico per riscaldare efficacemente per un anno la superficie di 1 m² ≤30 kWh/m²a (parametrate a 3 litri/m² di gasolio), e in Classe Gold ≤10 kWh/m²a (1 litro/m²).
Attenti alle istanze sociali tendiamo ad insediare, nelle strutture oggetto di recupero, quote residenziali e lavorative destinate a soggetti deboli o portatori di disagio sociale, non come attività caritativa bensì creando realtà in grado di autoalimentarsi finanziariamente.
Crediamo che l’ecosostenibilità e l’iniziativa privata possano sostenersi vicendevolmente e che siano anzi maggiormente efficaci senza etichette o sponsor politici; per tale ragione la nostra attività si sviluppa preferibilmente grazie al ricorso a risorse finanziarie private: business angels e investitori ai quali, nel medio periodo, siamo in grado di riconoscere remunerazioni adeguate.
La nostra esperienza lavorativa specifica data da oltre un ventennio e attraverso le nostre sedi operative di Milano e Verona siamo attivi nel Nord e Centro Italia.

Alberto C. Steiner

Se la consapevolezza è un optional

Ho sul tavolo la perizia di un trilocale in via Cesare Correnti, a Milano, della superficie commerciale pari a 107 m2. Risale all’anno scorso e l’arguto collega lo ha valutato 750mila Euro.CC 2016.06.23 Correnti 001Notare in alto a sinistra nella planimetria qui sopra riportata quella specie di L rovesciata: è una balconata che affaccia nel cortile, alla quale si accede dal vano scala. Misura complessivamente m2 6,3308.
Se la proprietà è valutata 750.000 Euro parametrati ad una superficie commerciale di 107 m2, vale a dire 7009,34 €/m2 la balconata varrebbe 7.009,34 x 6,3308 =  44.374. Più di 44mila Euro per un pezzo di ringhiera?
L’esimio collega chiosa altresì, nella descrizione tecnica, che la proprietà è in un contesto elegante di metà Ottocento (vero) ben abitato (meglio verificare, l’esperienza mi ha insegnato che le sorprese sono in agguato) ed in un quartiere di pregio e tranquillo. Come no: dietro l’angolo ci sono le Colonne di San Lorenzo, il Parco delle Basiliche e il Ticinese ed ogni milanese sa cosa significhi ad ogni ora del giorno e soprattutto della notte: strafatti, accattoni, balordi, schiamazzi, bottiglie di birra schiantate a terra, vomito ed ogni forma di deiezione umana e disumana.CC 2016.06.23 Correnti 002La stessa via Correnti è un maleoelente corridoio impestato da auto in coda ad ogni ora del giorno, alla mattina in direzione centro ed alla sera in direzione periferia; per percorrere i suoi trecento metri scarsi ci si impiega più di mezzora.
Supermercati, scuole, servizi di quartiere? Ma non diciamo cazzate… beh, no: c’è San Vittore, non lontano. L’appartamento si trova al secondo piano, quindi nemmeno ad un piano alto: vi lascio immaginare. Inoltre, stando alla planimetria, l’accesso è da una specie di disimpegno adiacente alla cucina, il bagno affaccia sulle scale e la camera da letto padronale, considerato che non può esserlo il loculo di m 4,27 x 2,21 in alto a sinistra, è ricavata necessariamente in uno dei due locali che affacciano sulla strada. Insomma, un appartamento tagliato malissimo.CC 2016.06.23 Correnti 003Non occorrono altri commenti, dico solo che se un mio cliente disponesse di quella cifra e fosse sano di mente, con 125mila Euro gli troverei un bilocale d’appoggio in città (e non necessariamente a Ponte Lambro), con 550mila una tenuta della madonna nel Piacentino o sui colli bergamaschi o bresciani, forse addirittura sulla sponda lecchese del Lario. E gli rimarrebbero in tasca 75mila Euro da impiegare, tolto il mio compenso, come preferisce.

Alberto C. Steiner

In quel tempo… in 250mila camminarono sulle acque

Non è successo sul lago di Tiberiade ma su quello d’Iseo, grazie ad una passerella galleggiante a pelo d’acqua, installata da uno dei più grandi esponenti di una corrente artistica detta Land Art che, guarda caso, si chiama Christo.
No, pare che ai panini per la folla non abbia pensato nessuno. E in verità in verità vi dico che questo non è bene.CC 2016.06.22 Floating 001Tutti osannano la geniale installazione, Lombardia da Vedere si spinge addirittura ad affermare che «vale proprio la pena provare l’emozione di far parte di un’opera d’arte di livello internazionale.»
Io la trovo un’oscenità ributtante in ragione dell’impatto ambientale, del pericolo che può costituire per natanti e visitatori e della sua assolutà inutilità culturale.
E intanto leggo su Il Giornale di Brescia di oggi (ieri per chi legge – NdA): «In quattro giorni di apertura di The Floating Piers si sono registrati circa 250mila visitatori. E la passerella, fa sapere la cabina di regia, necessita di lavori di manutenzione straordinaria.
Ci sarà quindi una selezione nei punti di ingresso: Il residuo ponte fruibile – spiega l’organizzazione – consentirà la presenza di non oltre 1.000 persone, mentre la parte di terraferma interessata consentirà l’accesso di sole 1.000 persone.»CC 2016.06.22 Floating 002Struttura solida, non c’è che dire. Dopo 40 anni Christo, l’imballatore compuilsivo di origine bulgara definito artista per aver impacchettato qualsiasi cosa gli capitasse a tiro compresi la Porta Pinciana e il Reichstag, ritorna in Italia: confesso di non averne sentito la mancanza.
Dall’intellighenzia inculturale nostrana gli è stato concesso di scegliere il Sebino per imbrattarlo con detta passerella che, dal 18 giugno al 3 luglio, permette anche ai non credenti di camminare sulle acque per una lunghezza di tre chilometri. Realizzata con 200mila cubi di polietilene ad alta densità che formano pontili galleggianti larghi 16 metri, è rivestita da 70mila metri quadrati di scintillante tessuto arancione. Il percorso, da Sulzano a Monte Isola, si svolge tra terra e acqua includendo l’Isola di San Paolo.
Rispondendo alle lamentele dovute alle estenuanti file per poter accedere all’impagabile opera l’artista ha chiosato, stando a quanto riportato dal quotidiano La Repubblica:  “L’attesa è parte della mia opera, o avete pazienza o non venite.” Vale, come sempre, il mai abbastanza usato gavte la nata citato da Eco nel Pendolo.

ACS

Seawer: è coreano il mostro marino che mangia la plastica

L’idea mi colpì e ne scrissi l’11 aprile 2014 su Kryptos Life and Water – Investire nel futuro del pianeta Terra, ma sembrava dovesse finire relegata nel cassetto dei sogni. E invece una società finanziaria cinese sta oggi mostrando interesse per il progetto del coreano Sung Jin Cho.
Il suo nome è Seawer: si tratta di un grattacielo al contrario, galleggiante e di forma conica del diametro di base pari a 550 metri, immerso nelle acque marine da pelo d’acqua e sino a 300 metri di profondità.CC 2016.06.13 Seawer 001La struttura, in grado di funzionare come stazione di riciclaggio per l’oceano, è in realtà un foro di aspirazione al cui interno verrebbe inglobata la spazzatura affiorante sulla superficie dell’acqua.CC 2016.06.13 Seawer 002La plastica, raccolta da appositi filtri, verrebbe dapprima frantumata e successivamente micronizzata attraverso cinque filtri consecutivi in modo da poter essere recuperata e, una volta ridotta in particelle e risalita verso la superficie per effetto della leggerezza, potrebbe essere raccolta e riutilizzata una volta separata dall’acqua e da qualsiasi eventuale residuo organico.
Quella dei residui organici è una questione alla quale si sta lavorando: l’impianto, nella sua attuale configurazione, non può evitare l’assorbimento di piccoli animali marini, che allo stato attuale del progetto verrebbero rilasciati in mare costituendo una forma di nutrimento per la fauna ittica.
L’acqua raccolta invece, filtrata una prima volta, verrebbe convogliata nelle profondità della struttura finendo in appositi bacini di sedimentazione e decantazione per essere ulteriormente purificata e, una volta ripulita, verrebbe rilasciata nuovamente in mare.
Per dare un’idea dell’eventuale ricaduta del progetto, i marinai che solcano le acque del Pacifico sempre più frequentemente si trovano a navigare in un vero e proprio mare di spazzatura, originato dal fatto che ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti plastici finiscono negli oceani, arrivando a formare vere e proprie isole di pattume non biodegradabile denominate GPGP, Great Pacific Garbage Patch; alcune di queste sono di dimensioni superiori ad un paese come la Francia e, guidate dalle correnti oceaniche, hanno più volte compiuto il giro del mondo costituendo una grave minaccia per l’ecosistema e per gli animali marini.CC 2016.06.13 Seawer 003I rifiuti navigano talmente compatti, com’è visibile nello schema a corredo riportato qui sotto, da impedire all’aria ed alla luce del sole di penetrare nell’acqua, con tutte le immaginabili nefaste conseguenze.CC 2016.06.13 Seawer 004L’impianto non solo sfrutterebbe l’energia solare per il funzionamento e per gli spostamenti, ma sarebbe in grado di produrre energia elettrica.
Nonostante la menzione d’onore che guadagnò al concorso eVolo Skyscraper 2014 il progetto, sicuramente futuristico, venne però definito visionario.
A nostro parere una sola cosa è certa: il notevole costo di realizzazione, che se fossimo più civili e consapevoli avremmo potuto risparmiare destinando le risorse ad altre iniziative. Ma ormai siamo alla polmonite, e quella non si cura con l’aspirina (Le immagini provengono da Kryptos Life and Water).

Alberto C. Steiner

L’espansione incontrollata del bosco: i pantaloni in velluto Visconti di Modrone non sono un’attenuante

Cosa fai se all’appuntamento fissato per parlare di espansione incontrollata del bosco e dei rimedi per contrastarla ti si presenta un esperto, ricercatore del Centro di politiche e bioeconomia del Crea nonché docente universitario, in giacca di tweed verde bosco, sciarpettina sofficiosa nei toni del bruciato e (supremo orrore) pantaloni color senape in velluto a costine palesemente Visconti di Modrone?Cesec-CondiVivere 2014.10.07 FioreO passi direttamente all’omicidio, nella consapevolezza che nessun tribunale accoglierà la tesi che il velluto a costine Visconti di Modrone possa costituire un’attenuante, o te ne vai. O lo ascolti, nella certezza che profferirà puttanate. E infatti: “Negli ultimi decenni oltre ad aumentare la superficie coperta dal bosco è aumentata soprattutto la densità forestale. Significa che c’è molto meno spazio tra un albero e l’altro e un sottobosco che sempre più spesso è ormai impenetrabile, tanto è vero che spesso è impossibile entrare nel bosco per spegnere le fiamme e l’unica alternativa è quella dei Canadair.”
Entrare nel bosco? Ma tu ci sei mai entrato in un bosco in fiamme? Ma tu lo sai che gli alberi bruciano a 800 gradi eh, pirla? Scusate il pirla ma è d’obbligo.CC 206.05.01 Espabosco 001E se questi sono i nostri esperti, che rilasciano dichiarazioni e interviste pubblicate persino dal National Geographic (22 febbraio scorso, leggibile qui) chissà come sono messi quelli che non ne sanno nulla…
L’articolo, impreciso e lacunoso al di là del lodevole intento, non tiene conto del fatto che da tempo immemore, ed in particolare a partire dal 1870, di foreste vergini in Italia non ce ne sono più. Oggi nel nostro Paese le foreste coprono un terzo del territorio, ed è vero che continuano ad avanzare perché in ragione dell’abbandono del territorio – in particolare di quello montano – il bosco si è ripreso il posto a suo tempo adattato a pascoli e coltivazioni e la manutenzione è sempre più scarsa.
La superficie boscata che nel nostro Paese copre oggi quasi 11 milioni di ettari, negli anni Trenta era stimata in circa 4 milioni. Ma ciò era parzialmente dovuto all’utilizzo intensivo delle foreste e, nell’arco alpino, alle devastazioni ambientali della I Guerra Mondiale. Al terine del secondo conflitto moindiale ci si è ritrovati in una situazione ancora peggiore, poiché le devastazioni avvennero quasi sull’intero territorio nazionale, ed in particolare sulla dorsale appenninica.CC 2016.05.01 Espabosco 002“E non bisogna dimenticare che sino all’inizio degli anni Sessanta, il 50 per cento delle cucine italiane era ancora alimentato a legna. Il gas ha raggiunto la totalità delle abitazioni solo nei primi anni 70” afferma nell’intervista l’ineffabile prof sopravvissuto al nostro intento di pulizia etnica. Che il legno sia stato per millenni materia prima fondamentale per cucinare e per riscaldare ambienti nessuno lo nega, ma l’affermazione è imprecisa e fa slittare di un decennio lo stato dell’arte. Ma, non pago, l’esperto aggiunge: “Ecco perché allora era quasi impossibile trovare un ramo secco in un bosco. Perché le foreste venivano coltivate, gestite e controllate. Tanto che Victor Hugo e i grandi viaggiatori dell‘800 paragonavano i nostri boschi a dei giardini” dimentico delle leggi sul legnatico che, solo per citare la Serenissima Repubblica, prevedevano la condanna capitale per chi fosse stato sorpreso a far legna al di fuori dei periodi in cui ciò era concesso tramite appositi decreti dogali.
Fortunatamente, a parte le affermazioni sussiegose degli esperti da cattedra e il fatto che spesso la politica di rimboschimento attuata nel secondo dopoguerra non abbia tenuto conto né delle biodiversità locali né delle specie autoctone, il prelievo di legname – soprattutto in montagna – è soggetto al vincolo idrogeologico.
L’articolo ha suscitato polemiche da parte di chi sostiene che la biodiversità sia direttamente proporzionale all’entità dell’abbandono della gestione dei boschi e da parte degli ecosistemisti da tastiera, quelli che vorrebbero che i boschi venissero lasciati alla natura, anzi, nel più malinteso dei sensi a Madre Terra, perché in montagna e nei boschi non serve pontificare: serve darsi da fare. E quindi a pulire boschi, sentieri e montagne si guardano bene dall’andarci preferendo ragliare alla luna.
L’abbandono gestionale è tra le prime cause del problema, e lo sa bene chi possedendo aziende agricole in montagna ha eliminato tutto ciò che è parassitario, con la conseguenza che le piante si sono rinvigorite, la produzione è migliorata qualitativamente, vacche, capre e le pecore mangiano un’ottima erba. Ma per fare questo non servono i cerchi di condivisione serve spaccarsi la schiena.
Gli attuali boschi italiani, infine, non sono foreste vergini ma il frutto della coltivazione attuata da secoli, prova ne sia la Regola Camaldolese.
Informarsi per davvero e in modo scientifico sarebbe molto utile a tutti coloro che in nome della natura sostengono la politica della non gestione: l’uomo e le sue necessità sono parte dell’ecosistema foresta esattamente come le altre specie, ed è realistico puntare ad un punto di equilibrio tra le diverse funzioni.
Sarò banale, ma continuo a preferire chi con le mani sporche ti ascolta, se ha sentito che meriti di essere ascoltato, mentre spollona o inforcona il fieno piuttosto che quelli che discettano e pontificano dall’alto del loro trono di esperti.

Alberto C. Steiner

Ciclabile del Garda: lei è un ecoappecorato, si informi!

Se ne parla da almeno un decennio. E anche quest’anno, potenza della primavera che reca con sè tramonti incendiati e serotini afrori di pitosfori, gardenie, limoni ed elezioni amministrative, riecco il progetto dell’anello ciclabile lungo le sponde del Benaco.CC 2016.04.22 Ciclogarda 001I 190 km del progetto originario, pur rimanendo almeno dai tempi di Cecco Beppe ineguagliato il perimetro del più grande specchio lacustre nazionale, si sono inspiegabilmente ridotti a 140. Ma i giornali non ne esplicano la ragione, esattamente come sembrano ignorare che la Provincia Autonoma di Trento e le Soprintendenze atesina e veronese bocciarono più volte il progetto, in particolare tra Malcesine e Torbole per la sua pericolosità lungo passaggi particolarmente ristretti e per l’elevato rischio idrogeologico, l’ultima di queste nel 2014. E quindi plaudono perepepè all’iniziativa, inneggiando all’incontro tenutosi a Roma il 7 aprile dopo “l’idea lanciata a Milano durante la Borsa Internazionale del Turismo a febbraio scorso” come scrivono all’unisono il Corriere della Sera, Il Giornale di Brescia, L’Arena (Agenzia Stefani, se ci sei batti un colpo…) e perfino Verona Green, e questo ci stupisce non poco poiché dall’altrimenti puntuale notiziario online che stimiamo non ce lo aspettavamo: ecologico e vegano, in questa circostanza ha adottato le fette di salame, sugli occhi.CC 2016.04.22 Ciclogarda 002Naturalmente Delrio, il ministro che si taglia con un grissino, “ha espresso la sua approvazione al progetto” garantendo che si attiverà “per la possibile concretizzazione di quest’opera che potrebbe dare grande impulso all’ecoturismo del territorio” assumendosi il “preciso impegno al recepimento dei necessari fondi statali”. Statali? Facciamo ammenda, ignoravamo che albergatori e commercianti benacensi fossero dipendenti di qualche carrozzone a partecipazione pubblica…
Perfetto, sentivamo giusto la mancanza di 70 milioni di euro forniti dallo stato… e approfittiamo per fare un po’ di conti: 140 km al costo di 70 milioni fa 500mila euro a km. E invece no, di più, perché il 60% del percorso risulterebbe già completato, si tratta solo di congiungere gli spezzoni ed uniformare l’aspetto esteriore ed i sistemi di sicurezza. Due milioni e mezzo a chilometro quindi. Non male: fatte le debite proporzioni quasi quanto una TAV. A Milano le ciclabili costano 60mila euro/km, in Liguria qualche anno di galera a certi amministratori locali, ma questo è un altro discorso. Siamo certi che sul Garda non accadrà, esattamente come siamo certi dell’esistenza della Befana.CC 2016.04.22 Ciclogarda 003E intanto gli ecocicloappecorati già intonano il peana ohcchebel-chebel-chebel: “140 km di piste ciclabili esclusivamente dedicati alle biciclette, senza precedenti in Europa e con i quali l’area gardesana potrebbe diventare con ogni titolo capitale europea del cicloturismo, con importanti ricadute anche economiche sul territorio, per il richiamo che un’infrastruttura del genere potrebbe avere sui turisti di tutto il Nordeuropa.”
Eccerto, mica sono pirla nel Nordeuropa, a casa loro costruiscono o recuperano tramvie e persino antiche ferrovie forestali a scartamento ridotto o Decauville che non infrequentemente costeggiano idilliaci laghetti e toccano villaggi immersi nei boschi.CC 2016.04.22 Ciclogarda 005CC 2016.04.22 Ciclogarda 004È da noi, nel Sud del mondo, che vengono a scorrazzare arroganti e impuniti dopo aver parcheggiato monumentali camper in parcheggi che vengono all’uopo continuamente predisposti, per incentivare l’afflusso turistico vien detto.
È da noi, nel Sud del mondo, che il più grande specchio lacustre non è servito nemmeno da un metro di binario, se si escludono le stazioni di Desenzano e Peschiera lungo la Milano-Venezia, e chiunque conosca almeno un po’ il Garda sa quale incubo siano la Gardesana occidentale ed orientale, specialmente se percorse nei fine settimana o d’estate. E dire che in passato il Garda poteva avvalersi di una efficiente rete di trasporti su rotaia: la ferrovia Mori-Arco-Riva, chiusa all’esercizio nel 1936, la tranvia Brescia-Salò, soppressa nel 1954, la ferrovia Verona-Caprino-Garda smantellata a partire dal 1959, la ferrovia Mantova-Peschiera cessata nel 1967 e persino il breve tratto da Desenzano a Desenzano Porto, dismesso nel 1969.
Di più, tenendo conto del fatto che l’ampiezza delle due Gardesane è quella che è, e salvo varianti che escludono gli abitati non è ampliabile per la presenza degli edifici (alcuni dei quali sono anzi stati rastremati per permettere il transito nei centri urbani di mezzi pesanti ed autobus) la ciclabile correrà lungo le rive. Dove? In commistione con le aree pedonali, naturalmente. Addirittura, secondo i primi abbozzi del progetto, verranno realizzati tratti a sbalzo, vale a dire sospesi sull’acqua, proprio per sopperire alla carenza di spazio.
Ma, e qui viene il bello, gli standard di sicurezza prevedono che la platea ciclabile sia riservata e fisicamente protetta con apposite transenne, nelle quali verranno ricavati dei varchi di attraversamento muniti di cancelletto girevole od altri accorgimenti ogni tot decine di metri, quando non addirittura sottopassi. Detto in altri termini: una barriera invalicabile di asfalto e metallo che toglierà spazio pedonale, modificherà l’impatto visivo e costerà un botto.
E chissà se, come già accade con certi appezzamenti, circoli, complessi residenziali o locali che dovrebbero essere pubblici, vedremo affissi cartelli con la scritta parcheggio bici vietato agli italiani…
Bene, mentre al Brennero camper e suv con o senza roulottes stanno scaldando i motori in attesa di calare sul Garda noi continuiamo ad osannare il cicloturismo d’assalto spacciandolo come ecologico, in particolare quello che usurpa le sedi ferroviarie dismesse, che da sede di un trasporto al servizio della collettività assumono il ruolo di giocattolo ecochic. Quel cicloturismo che fatte le debite proporzioni è ecologico come la caccia, perché come la caccia ammorba l’ambiente e crea non di rado rischi anche mortali assicurando però un indotto che fattura milioni di euro.

Alberto C. Steiner

Ikea, Report sostenibilità 2015: le favole della buona notte

Anche quest’anno la multinazionale svedese del mobile prêt à monter mi ha graziosamente inviato avvolto in un’elegante confezione che sembra uno dei suoi famosi pacchi piatti, però mini, il Report di cui al titolo: da Brescia Roncadelle a Gorizia Villesse, da Milano Carugate e Corsico a Parma, da Roma Anagnina e sino a Torino non mi ricordo … ah si, Collegno, ma senza trascurare il centro distribuzione di Piacenza e via elencando tutti quelli che, con maestra padronanza del basso profilo, definisce negozi, indica i consumi di acqua e la produzione di rifiuti ovviamente differenziati.CC 2016.04.19 Ikea 001Non manca naturalmente l’indicazione delle partnership ecosocialsolidalbiobau: FAI, Fondo per l’Ambiente Italiano (Ah beh, si beh, hoo vist on re… se l’ha vist cus’è? On re), Medici Senza Frontiere, Unicef, Unhcr. E naturalmente Save the Children: anche quelli di otto anni che in certi paesi d’oriente annodano tappeti e montano paralumi? come sarebbe a dire, per conto di chi? Per Ikea, è ovvio. Che però, appena apprese la questione si fece carico del problema, dichiarando: “Ci stiamo lavorando, è una delle nostre aree di miglioramento.”
Esistono due categorie che mi ripugnano, quella degli sfuggenti che pronunciano il mantra “come può benissimo immaginare” a suo tempo abusato dai Consulenti Globali di Programma Italia, ora Banca Mediolanum, e quella di chi ti prende per il culo dicendoti la verità per mentirti.
Torniamo a Ikea. Chi verifica che la mamma di Billy è ecosolidalciaociao? Ikea, naturalmente. La stessa che certifica i propri bilanci, guardandosi bene dal nominare revisori esterni. E poi, quali bilanci? Di quale Ikea? Se esiste un muro impenetrabile è il complesso di scatole cinesi, pardon svedesi e olandesi che avviluppano i misteri del pacchetto societario.
Il volume di ben 124 pagine traccia il compendio virtuoso di un anno di attività suddiviso nei capitoli Economia e ambiente (ripartito nei paragrafi Rifiuti, Energia, Acqua, Materie prime, Logistica e mobilità, Food) Dimensione sociale, Dimensione business (Dati aziendali, L’opinione su Ikea, Ikea sul web, Sempre più sostenibili, Prodotti a basso impatto) e infine Negozi, CSC e depositi.
Visto che parliamo di sostenibilità vado allora alle pagine 88 e 89: Sempre più sostenibili. Quel che c’è scritto lo vedete nella scansione riportata sotto. Questo è quanto.CC 2016.04.19 Ikea 002Boh, forse è meglio se vado a pagina 44: Soft Toys. Ah no scusate, pensavo fossero gadget erotici e invece sono pupazzi di peluche, grazie all’acquisto dei quali i clienti possono donare 1 Euro alle Associazioni beneficiarie (Unicef e Stc ad anni alterni) con la contestuale “possibilità di decidere di donare direttamente il pupazzo ai bambini meno fortunati.” Che possono sempre provare a bollirlo per sfamarsi.
Grazie a questa iniziativa, recita l’ineffabile pubblicazione, “dal 2006 ad oggi Unicef e Stc hanno potuto contare su un totale di risorse donate da Ikea Italia pari a 7 milioni di euro.” Non male, considerando che per il solo 2015 il fatturato svetta a quota 14.571 milioni di euro (pagina 75).
Al di là di qualsiasi attestazione verbale penso che sia il modello stesso Ikea a non essere sostenibile, non solo e non tanto a partire dall’idea di far vivere persone, sorridenti come quelle dello loro pubblicità, in una casa di 35 metri quadri affastellata di mobili, ma soprattutto per il concetto stesso di mobile usa e getta. Per tacere della politica che induce ad acquisti compulsivi.CC 2016.04.19 Ikea 003Mi fermo, perché il blablabla ha il potere di darmi il voltastomaco, esattamente come le patatine o le aringhe in barattolo che è possibile acquistare negli shop Ikea, lasciando chi vuole approfondire alla lettura del libro Ikea: un modèle à démonter, Ikea: un modello da smontare, scritto da Olivier Bailly, Jean-Marc Caudron e Denis Lambert, pubblicato in Italia nel 2007 da Anteprima e diffuso da Altroconsumo con il titolo Ikea, che cosa nasconde il mito della casa che piace a tutti? e purtroppo oggi praticamente introvabile (Il Giardino dei Libri ne dichiara in magazzino una copia ma non sono riuscito ad acquistarla). Ne riporto qui una recensione tratta dal Web.CC 2016.04.19 Ikea 004A proposito, notizia del 17 marzo 2016, leggibile qui: Anche Ikea ha scelto Altroconsumo label per la propria comunicazione. Ok, ciao.

Alberto C. Steiner

Borghi abbandonati: time expired, non ci sono più scuse.

Il caso più eclatante è costituito da Civita di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, il borgo eretto sulla precaria altura situata su una platea tufacea nel quale vivono dodici abitanti che, a quanto risulta, sta crollando perché i banchi argillosi che la sorreggono sono soggetti a continua erosione.Old town of BagnoregioIl compendio dei borghi abbandonati ecochic comprende i soliti Fabbrica di Careggine, Craco, Bussana Vecchia, per citarne solo alcuni altrimenti non la finiamo più.
Ma, nel novero degli oltre ottomila censiti da un serio e attendibile lavoro del Censis, ve ne sono altri sicuramente meno celebrati ma non meno affascinanti, a partire da Galeria, nell’Agro Romano e, vagando di bosco in bosco e di sentiero in sentiero, lungo l’Appennino Piacentino e quello Parmense, in Valtellina piuttosto che nella valle del Sile o in Umbria.
Tenendo conto del fatto che i Comuni italiani sono 8.045, più o meno quante sono le Stazioni dei Carabinieri, è come se ogni comune avesse un borgo abbandonato che attende di essere riportato a nuova vita.
Il Medioevo prossimo venturo (ne ho scritto l’ultima volta il 20 marzo 2015: Medioevo prossimo venturo? È già arrivato, leggibile qui) del quale da anni vagheggio, o pavento secondo quelli che mi danno della Cassandra, è indiscutibilmente non più prossimo ma già fra noi: lo dimostra una nuova schiatta di camminanti (ne ho scritto il 13 maggio 2015: Montagna: giovani imprenditori, attenti ai nuovi camminanti! leggibile qui) prevalentemente transfughi dai centri sociali urbani che, appropriatisi di ruderi boschivi, ne hanno fatto la loro residenza e girano per le campagne raccogliendo ciò che trovano per garantirsi un minimo di sopravvivenza. Certo, i tiggì non ne parlano, non fa incazzare, non suscita odio e quindi non fa notizia.
Per quanto mi riguaeda, e per quanto quelli dei centri sociali mi stiano cordialmente sulle palle, devo convenire che costoro sono i nuovi tutori, guardiani, sorveglianti del territorio. Non fosse altro che per il fatto che, se la croda sta per crollare sulle loro nuove case, mettono in atto le necessarie misure per non essere sepolti, loro, i loro bambini e i loro animali più o meno domestici.
Certo, se vi dovessero invitare a cena potete fare a meno di indossare la dinner jacket ma, sinceramente, chissenefrega.CC 2016.04.13 Abbandonati 002Dunque, per farla corta la situazione è questa: abbiamo borghi abbandonati che attendono solo qualcuno che li riporti a nuova vita, in linea di massima non occorre acquistarli ma solo okkuparli per occuparsene.
Non ci sono solo case, ma anche terreni che possono essere ripristinati: la cura del bosco, la coltivazione, l’allevamento.
Una volta occupato il fondo, a condizione che sia realmente abbandonato e non reclamato da nessuno, costituito un comitato (è sufficiente attestarlo, almeno inizialmente non occorre nemmeno andare da un notaio) e notificata la propria presenza in comune con un programma di attività, sviluppo eccetera eccetera, è anche possibile che – trasformato il comitato in associazione senza fine di lucro – si possa chiedere qualche sovvenzione: per la ristrutturazione, per l’impianto di energie rinnovabili, per la tutela di specie vegetali o animali a rischio di scomparsa.
E intanto si inizia a lavorare, si mandano i bambini all’asilo o alla scuola del paese, ci si inserisce nella comunità. Addirittura si può diventare un punto di riferimento.
Insomma, ci si dà da fare. È forse per questa ragione che, dagli incessanti blablabla, dai vorrei, non vorrei, ma se vuoi, dai mi piacerebbe tanto, quando si fanno proposte concrete che presuppongono il rimboccarsi le maniche nessuno le accoglie?

Alberto C. Steiner

Curiosità: Urban Farming nel 1600

Zappare all’ombra dei palazzi: non più un’occupazione da pensionati ma un’attività finalizzata a riqualificare aree verdi urbane incentivando forme di aggregazione tra cittadini, fornendo occasioni di svago per il tempo libero, e scoprendo l’importanza e la salubrità del ritorno alle origini, per esempio consumando cibo locale e di stagione evitando così i costi, il dispendio energetico e le emissioni derivanti dai trasporti su lunghe distanze.Cesec-CondiVivere 2015.03.24 Orti urbani 001Ma gli orti urbani non sono affatto una novità: a parte quelli di guerra che i nostri nonni ricordano ancora, dal XVI al XX secolo i coltivatori urbani di frutta e verdura crebbero esponenzialmente, in particolare nel bacino del Mediterraneo, Francia, Gran Bretagna e Olanda, utilizzando solo fonti energetiche che oggi definiamo rinnovabili.
Una delle tecniche maggiormente in uso, alternativa alle costosissime serre, era costituita da muri sui quali arrampicavano piante disposte a spalliera. Durante il giorno i muri assorbivano luce e calore solare, che rilasciavano durante la notte, creando un microclima in grado di sviluppare una temperatura sino a 10° C superiore rispetto a quella dell’ambiente circostante.CC 2016.02.29 Urban Farm 001Interi sobborghi cittadini apparivano come nella fotografia pubblicata sopra che mostra un frutteto urbano, scattata a Montreuil, presso Parigi, nella seconda metà dell’Ottocento.
Fu solo sul finire del XIX secolo che le serre si diffusero grazie al costo del vetro divenuto abbordabile e per merito di sistemi di riscaldamento artificiale efficaci e poco costosi.
(Sullo stesso argomento abbiamo scritto il 24 marzo 2015: Hortus Urbis. Ma anche su terrazzi e balconi è boom).

Alberto C. Steiner