Cosa fai se all’appuntamento fissato per parlare di espansione incontrollata del bosco e dei rimedi per contrastarla ti si presenta un esperto, ricercatore del Centro di politiche e bioeconomia del Crea nonché docente universitario, in giacca di tweed verde bosco, sciarpettina sofficiosa nei toni del bruciato e (supremo orrore) pantaloni color senape in velluto a costine palesemente Visconti di Modrone?
Entrare nel bosco? Ma tu ci sei mai entrato in un bosco in fiamme? Ma tu lo sai che gli alberi bruciano a 800 gradi eh, pirla? Scusate il pirla ma è d’obbligo.
L’articolo, impreciso e lacunoso al di là del lodevole intento, non tiene conto del fatto che da tempo immemore, ed in particolare a partire dal 1870, di foreste vergini in Italia non ce ne sono più. Oggi nel nostro Paese le foreste coprono un terzo del territorio, ed è vero che continuano ad avanzare perché in ragione dell’abbandono del territorio – in particolare di quello montano – il bosco si è ripreso il posto a suo tempo adattato a pascoli e coltivazioni e la manutenzione è sempre più scarsa.
La superficie boscata che nel nostro Paese copre oggi quasi 11 milioni di ettari, negli anni Trenta era stimata in circa 4 milioni. Ma ciò era parzialmente dovuto all’utilizzo intensivo delle foreste e, nell’arco alpino, alle devastazioni ambientali della I Guerra Mondiale. Al terine del secondo conflitto moindiale ci si è ritrovati in una situazione ancora peggiore, poiché le devastazioni avvennero quasi sull’intero territorio nazionale, ed in particolare sulla dorsale appenninica.
Fortunatamente, a parte le affermazioni sussiegose degli esperti da cattedra e il fatto che spesso la politica di rimboschimento attuata nel secondo dopoguerra non abbia tenuto conto né delle biodiversità locali né delle specie autoctone, il prelievo di legname – soprattutto in montagna – è soggetto al vincolo idrogeologico.
L’articolo ha suscitato polemiche da parte di chi sostiene che la biodiversità sia direttamente proporzionale all’entità dell’abbandono della gestione dei boschi e da parte degli ecosistemisti da tastiera, quelli che vorrebbero che i boschi venissero lasciati alla natura, anzi, nel più malinteso dei sensi a Madre Terra, perché in montagna e nei boschi non serve pontificare: serve darsi da fare. E quindi a pulire boschi, sentieri e montagne si guardano bene dall’andarci preferendo ragliare alla luna.
L’abbandono gestionale è tra le prime cause del problema, e lo sa bene chi possedendo aziende agricole in montagna ha eliminato tutto ciò che è parassitario, con la conseguenza che le piante si sono rinvigorite, la produzione è migliorata qualitativamente, vacche, capre e le pecore mangiano un’ottima erba. Ma per fare questo non servono i cerchi di condivisione serve spaccarsi la schiena.
Gli attuali boschi italiani, infine, non sono foreste vergini ma il frutto della coltivazione attuata da secoli, prova ne sia la Regola Camaldolese.
Informarsi per davvero e in modo scientifico sarebbe molto utile a tutti coloro che in nome della natura sostengono la politica della non gestione: l’uomo e le sue necessità sono parte dell’ecosistema foresta esattamente come le altre specie, ed è realistico puntare ad un punto di equilibrio tra le diverse funzioni.
Sarò banale, ma continuo a preferire chi con le mani sporche ti ascolta, se ha sentito che meriti di essere ascoltato, mentre spollona o inforcona il fieno piuttosto che quelli che discettano e pontificano dall’alto del loro trono di esperti.
Alberto C. Steiner