Alle ore 19:15 del 2 dicembre 1943 centocinque bombardieri Junker 88 della Luftwaffe affondarono diciassette navi mercantili ancorate nel porto di Bari. Una di queste, il mercantile statunitense John Harvey, esplose con il suo carico pari a circa cento tonnellate di bombe all’iprite del tipo Levinstein H, un gas devastante dagli effetti mortali, provocando la fuoriuscita di sostanze tossiche che contaminarono le acque del porto. L’iprite frammista alla nafta in fiamme sull’acqua generò un’enorme nube tossica che investì l’intero porto e la città vecchia, rendendo micidiale l’aria.
Fu il più grande disastro subito dalla Marina degli Stati Uniti dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, ma quella sera del dicembre 1943 si consumò anche il più grave atto di guerra chimica di tutto il secondo conflitto mondiale, definito l’unico disastro chimico avvenuto in un Paese occidentale ma che i governi alleati classificarono come top secret e sul quale, nonostante le opere di bonifica passate e in corso, tuttora grava un discreto silenzio.
Il recupero delle bombe sommerse fu intrapreso anche da civili al fine di recuperare il costoso esplosivo in esse contenuto. Ma se venivano pescati ordigni carichi di iprite, sostanza di scarsissimo valore economico, questi venivano puntualmente ributtati a mare senza alcun controllo delle autorità militari. Per tale ragione molte bombe si trovano tuttora a basse profondità e solo oggi si inizia a disporre di una loro parziale mappatura. Del resto, a parte un convegno tenutosi a Bari lo scorso anno in occasione del 70°anniversario, tra la popolazione non restano tracce emotive della vicenda, considerata semplicemente uno dei tanti tragici eventi che segnarono la guerra, anche se nei decenni trascorsi sono stati accertati almeno 250 casi di contaminazione, alcuni mortali, fra pescatori che hanno rinvenuto nelle reti bombe cariche degli agenti chimici con i quali sono venuti a contatto.
La prima fase esecutiva del progetto ha individuato alcuni punti caldi, tra questi il tratto di mare antistante Molfetta a circa 35 miglia dalla costa, tra i 200 e i 400 metri di profondità. Sono state individuate anche diverse sostanze delle quali si stanno analizzando gli impatti sull’habitat marino, che presenta evidenze di pesci mutogeni.
Il tioetere del cloroetano o solfuro di etile biclorurato è un gas dal vago colore senape, da cui la denominazione di gas mostarda, noto come Iprite dalla località di belga di Ypres dove il 12 luglio 1917 fu impiegato per la prima volta a scopi bellici con effetti devastanti.
L’iprite attacca tutte le cellule con le quali viene in contatto distruggendole completamente: agisce sulle mucose e sulla pelle producendo infiammazioni, vesciche e ulcerazioni difficili da guarire. Agisce violentemente sulle mucose degli occhi e, quando vengono respirati, i suoi vapori entrano nel circolo sanguigno distruggendo i globuli rossi ed uccidendo quasi all’istante. Essendo liposolubile, una volta penetrata nell’organismo attraverso la pelle l’iprite si fissa ai tessuti e intossica l’intero organismo in meno di 24 ore. La dose mortale è pari a 10 milligrammi e negli anni ’40 la biologa tedesca Charlotte Auerbach scoprì che alcune sostanze tra quelle appartenenti al gruppo dell’iprite presentavano azione mutagenica.
L’impiego dell’iprite fu bandito dalla Convenzione di Ginevra del 1925 ma la micidiale sostanza continuò ad essere segretamente utilizzata, unitamente ad altre ancora più pericolose e moderne: Sarin e VX come armi chimiche letali; DM, BZ, CN, CS come armi chimiche inabilitanti; acido calcolitico ed agenti, bianco, blu e arancione, quest’ultimo noto anche al grande pubblico come il defoliante utilizzato in Vietnam.
Gli effetti ambientali di tali armi chimiche sui vari ecosistemi, sono poco noti. A causa anche della scarsità di ricerca scientifica da sempre ostacolata da segreti militari.
Ma nel nostro Paese abbondano i veleni di origine bellica, e la storia delle armi chimiche italiane non è mai stata approfondita. Gli impianti italiani per la produzione di armi chimiche erano i più importanti esistenti in Europa dopo quelli tedeschi. Nel dopoguerra nessuna città italiana ha mai effettuato analisi mirate o monitoraggi dei danni provocati dalle armi chimiche a livello epidemiologico ed ambientale.
Da alcuni anni è attivo il Comitato bonifiche armi chimiche, operativo grazie alla collaborazione delle forze armate italiane e straniere che stanno mettendo a disposizione i propri archivi storici. Segno di una mutata consapevolezza riguardo al problema, certamente. Ma la vera questione sono i soldi: occorrono fondi ingentissimi per vedere quante sostanze sono state prodotte e quante ne sono state gettate per mare e per terram, calcolando con criteri moderni quali sono i rischi ancora oggi esistenti per la popolazione e per le coltivazioni ed infine procedere alle bonifiche.
E stando così le cose a me sembra di sentirla adesso, la voce di Axis Sally che, sensuale, gelida e terribile come uno snuff movie, commenta che ci stiamo avvelenando con i nostri stessi gas: in fondo è quello che noi italiani stiamo facendo da settant’anni.
Alberto C. Steiner