Network Marketing e teoria dello schiavo

Ricevo periodicamente la newsletter di uno dei troppi guru della finanza creativa che insegnano al colto e all’inclita come far soldi senza soldi, nella fattispecie come diventare trader immobiliari e proprietari di sterminati patrimoni edilizi dai quali trarre un reddito, semplicemente mettendo a frutto l’intento, seguendo i costosi corsi tenuti da questi dispensatori di Sapienza e Verità e, perché no, come ricavare denaro partecipando a strutture di network marketing. Qualche lettore potrebbe osservare: ma se l’argomento ti fa così schifo perché non ti cancelli dalla newsletter? Per due ragioni. Anzitutto per conoscere cosa gira nel panorama di riferimento, discariche comprese. In secondo luogo perché, come diceva tanti anni fa un amico torinese: “Leggo Stampa Sera per poterla disprezzare con cognizione di causa.” Nella fattispecie il nostro guru racconta tutto tronfio di essere appena tornato da un viaggio alle Hawaii organizzato da una società di network marketing e, tiene a sottolineare: “Pagato da loro“. E, gigionando, non manca di far osservare: “Mi ero iscritto circa 4 anni fa e piano piano ho costruito una struttura. La cosa magica del network è la duplicazione. 11 persone inserite sono diventate 2060 per effetto della duplicazione. E anche se guadagno 11 euro a persona in media al mese incominciano ad essere soldi che attirano la mia attenzione. Soprattutto per la qualità del denaro che ad un certo punto perde la proporzione tra sforzo e risultato. L’azienda ha distribuito premi per 71.000.000 di $ in una sera. Da 50.000 a 2.400.000 a persona… C’erano 3.000 persone (che guadagnano dai 200.000 a oltre 10.000.000) e circa 400 persone hanno avuto accesso al bonus… Io ero tra i barboni… Inoltre feste a tema, cene di gala ecc ecc tutto per confermare l’eccezionale stile di vita che questo tipo di attività dà a chi ci crede e si impegna.KL-Cesec-CV-2014.04.02-NM-005Afferma inoltre che il NM non è per tutti ma solo per chi è attrattivo o vuole diventarlo, e la misura del successo è data da crescita personale ed assegno, che vanno di pari passo; l’importante è che l’azienda abbia prodotti che creano fan, dato che si guadagna dal consumo: se il prodotto non crea consumatori fedeli ogni volta bisogna cercare nuovi clienti/distributori e la struttura non cresce in maniera esponenziale. E, da quel guru che è, conclude la concione affermando: “Qualunque commerciale dovrebbe fare network, qualunque imprenditore dovrebbe avere almeno una entrata da network. La cosa buona del network sono le abilità che devi sviluppare per crescere. Se non ti formi, non impari e non fai non cresci. Può essere fatto full time, part time o per aggiungere un piccolo reddito da casa.”Computer study
Invito chi legge a focalizzare l’attenzione sull’insipienza di quanto questo figuro afferma, nonché sugli squallidi riferimenti offerti come modelli inarrivabilii, non senza far notare come (stranamente?) costui ometta il nome del network foriero di cotanta cornucopia… Continuo a ribadire il mio pensiero sull’argomento: se ho un prodotto ripetibile, assumo agenti e rappresentanti perché me lo vendano, loro si presentano ai clienti che a loro volta possono essere distributori o negozianti, se il prodotto è buono e loro sono bravi vendono e, se il prodotto va, mi rinnovano gli ordini tramite i rappresentanti. Naturalmente, compatibilmente con le mie possibilità e funzionalmente a strategia e target, investo anche in pubblicità e comunicazione, e il prezzo finale del prodotto è ovviamente formato anche dai miei costi di promozione e vendita. In ogni caso io sono il produttore, lui è il rappresentante, quell’altro è il negoziante e tutti sanno con chiarezza chi sono e chi siamo. E vissero tutti felici e contenti. Detto in altri termini, tutti lavoriamo e io, come è giusto che sia, mi assumo il rischio d’impresa. Trovo che il concetto del Network Marketing, che preferisco continuare a chiamare con il nome che gli spetta: Catena di Sant’Antonio, fatti salvi alcuni casi di eccellenza sia l’antitesi del concetto di lavoro, che parte dalla premessa interiore di guadagnare alle spalle degli altri. E sempre che non si configuri come una truffa; tutti ricorderemo il caso Tucker, il tubo che non serviva a un tubo che ha spopolato nel decennio scorso.KL-Cesec-CV-2014.04.02-NM-004E, mi duole doverlo affermare ma sono i fatti a sostanziarlo, la maggior parte di chi cede alle lusighe del Network Marketing si colloca ideologicamente nella fascia della cosiddetta alternativa, quella che aborre il lavoro in quanto fonte di sfruttamento. Non sto parlando a vanvera, e cito solo due casi. Uno si chiama Aloe più o meno vera, che impazza nel mondo di una certa spiritualità e meditazione. Per guadagnare devi cominciare a spendere 250 euro di prodotti, e il reclutamento avviene attraverso il passaparola utilizzando cene e serate in location più o meno gradevoli. L’altro è anche peggio perché non presuppone l’esistenza di un prodotto ma solo l’anelito ad arricchirsi: si chiama Ruota dell’Abbondanza, imperversa nello stesso mondo, in particolare in quello dei Sanniasyn di Osho e consiste nell’intortare (scusate, ma intortare è più pregnante rispetto a convincere o persino irretire) otto illusi affinché versino 10.000 Euro ciascuno; una volta che la ruota è completata il promotore ritira il malloppo, e intanto gli altri hanno istitutito a loro volta altrettante ruote. Costo dieci, resa ottanta. Se va bene. Naturalmente è tutto ammantato dal segreto, anche perché questi censori della morale capitalista ben sanno che è tutto in nero, nulla si scrive, tutto si dice sottovoce e mai al telefono. Si organizzano feste in casa ora dell’uno ora dell’altro, ci si autoincensa e via. Qualcuno rimane con il cerino acceso in mano, a qualcun altro son capitati in casa i Carabinieri a rovinare la frittata, se ne è molto parlato l’anno scorso specialmente in certe zone del Piemonte.E tutto questo per tacere dei modelli di riferimento: denaro, luccichii, guadagnare senza far nulla. Non mi stupisce che prenda molto certi soggetti che aborrono anzi avversano l’idea di imprenditoria, sbandierandosi peraltro puri, consapevoli e alternativi. E vi è mai capitato di avere a che fare con questi reclutatori, peggio ancora se sono fra coloro che il network lo stanno inventando? Vi invitano per un caffè e, dopo una premessa evanescente condita da fantasmagorici dati snocciolati, vi propongono di entrare a far parte di un team di successo: partiamo da cinque e entro un anno siamo a duemilaottocentotrentasette, ti mostrano uno schema piramidale come se ti svelassero le cellule della Resistenza. Ti parlano di piattaforme, di e-gadget, di e-book, e il loro tono giunge invariabilmente all’untuoso di sapore levantino. Ti parlano di milioni di euro e sono vestiti da straccioni, li conosci e sai bene quanto fatichino a sbarcare il lunario pur non avendo mai capito bene cosa facciano per vivere. In ogni caso sono improbabili. E poi ci sono quelli che del network fanno già parte, e te li ritrovi vicini di tavolo a una cena alla quale hai partecipato per divertirti e rilassarti, ti rintronano con le loro mirabolanti performances basate su valori che per loro sono assoluti ma che – almeno per me – non significano nulla, anzi sono fuffa. Non infrequentemente sono dei tamarri sottoacculturati, e lo dimostrano nell’abbigliamento e nell’accessoristica, nell’auto che non perdono occasione di far notare. Se sono donne, sono delle assatanate, di una volgarità esemplare, di quelle con le quali un uomo normale si vergognerebbe a farsi vedere in giro. Estetiste che argomentano di alta finanza lasciandoti intravvedere le tette. Con il cellulare sul tavolo che squilla incessantemente. Il network marketing, così concepito, costituisce in realtà una delle peggiori forme di schiavitù, quella che ti fa credere di esserti riscattato, di essere diverso, migliore, un ganzo. E vi dimostrerò il perché.KL-Cesec-CV-2014.04.02-NM-001Il nostro Paese, così come lo conosciamo e prima che si sfasciasse, è stato costruito dall’imprenditoria. Più o meno illuminata, più o meno lobbistica, più o meno qui, più o meno là, ma imprenditoria. Un’imprenditoria proveniente da Belgio, Francia, Germania, Svizzera, Regno Unito che, affiancata da lungimiranti locali, generalmente di nobili origini, cospicui patrimoni fondiari e qualche esperienza protoindustriale, ha dato vita all’Italia di fine Ottocento: pensiamo solo alla ferrovia dei Giovi destinata a creare uno sbocco marittimo ai mercati centro-europei, pensiamo alle tramvie a capitale prevalentemente belga che per ogni dove solcavano le strade, in particolare quelle lombarde per trasportare merci, pensiamo alle realtà torinesi, milanesi, a Sesto San Giovanni, al Bresciano. Pensiamo allo sfruttamento delle risorse idriche per produrre energia elettrica. E pensiamo alle innumerevoli attività artigianali che hanno segnato la storia del nostro Paese.KL-Cesec-CV-2014.04.02-NM-002E tutto questo prima che arrivasse l’Iri di Prodi. Prima che arrivassero la finanza di carta e i finanzieri di cartone. Prima dei vari Cultrera, Sgarlata, Fiorini, Canavesio e prima degli imbonitori televisivi. Prima che quelli che avevano vissuto di tangenti si reinventassero equosolidali. Poi è arrivato il peggio: l’Italia dei venditori di spazzole con la barzelletta sconcia, l’Italia puttaniera e della menzogna, l’Italia del fottere lo Stato, anzi del diventare stato per potersi fare i cazzi propri. L’Italia che ha avuto spazio perché sostenuta da tanti che bramavano di essere così. L’Italia che sembrava quella dei filmacci con Boldi e De Sica. Cosa c’entra l’industrializzazione nazionale con il network marketing? C’entra, eccome. C’entra nella misura in cui si è creata l’attuale cultura del non lavoro. O, ancora peggio, la cultura del mio figlio farebbe qualsiasi cosa, ma non trova niente. La questione è anche questa: essere disposti a fare qualsiasi cosa, compreso farsi sfruttare in un call-center per imbrogliare telefonicamente chiunque capiti a tiro proponendo qualsiasi cosa, pur truffaldina che sia. E per quattro soldi, oltretutto. Di cosa sto parlando? Sto parlando della mentalità dello schiavo. Che poi finisce per credere di essere padrone, addirittura alternativo. E questo concetto inizia ad essere instillato dalla famiglia, dalla scuola dove ti insegnano ad essere uno schiavo (presente In fila per tre di Bennato?) però in modo ben più raffinato che in passato. Sto parlando del non reinventarsi, dell’accogliere supinamente modelli, e non fa nulla che chiunque potrebbe obiettare che a nessuno piace lavorare, ma quando si è sottoposti alla necessità di vivere allora si cerca il lavoro, addirittura si combatte per esso giungendo al punto che qualunque mansione andrebbe bene, e si è persino disposti a morire per coloro che fingono di riconoscerci diritti, ma che lo fanno nel loro interesse. Che è quello di tenerti sempre più sotto il tallone. Proviamo invece a pensare esattamente al contrario: non è  forse perché alle persone non interessa nulla di profondo, nulla che oltrepassi la soglia della sopravvivenza, dell’anestesia allietata da innumerevoli gadget che si costringono a lottare e sgomitare? La soluzione sta nell’affrancarsi dall’ancestrale paura della fame riprendendo possesso della propria dignità, della propria nobiltà interiore dedicandosi anzitutto a ciò che di più elevato si riesce a produrre interiormente, vale a dire l’identificazione con la propria anima, l’unica vera essenza nella quale è già scritto qual è il mestiere al quale dobbiamo dedicarci per vivere in maniera equilibrata. Tanto per cambiare sto parlando di Consapevolezza, di vivere nel Presente. Questa è una civiltà che mira a fabbricare servi, e da sempre i servi complottano per fottersi tra loro, senza ritegno, molto spesso per assomigliare ai tanto vituperati padroni. Ma nessuno ci vieta di riacquistare la nostra dignità, per esempio non accogliendo come alternative o liberatorie attività che altro non sono che una forma di sfruttamento. Tutto qui. Ciascuno ne tragga le considerazioni che preferisce.

Alberto C. Steiner

Rieccoli: dopo Sanremo ritorna il Treno Verde

Se è giunto alla sessantaquattresima edizione il Festival di Sanremo, non vediamo ragione perché non debba accadere anche per il Treno Verde, quest’anno alla sua ventiseiesima passerella su e giù per le vie (ferrate) dello Stivale.KL Cesec CV 2014.03.11 Treno Verde 002La campagna di Legambiente e Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane dedicata al rilevamento dell’inquinamento atmosferico e acustico, pensata per informare, sensibilizzare e promuovere tra i cittadini le buone pratiche per una mobilità sostenibile ed affidata ad un treno di quattro vetture (età media 30 anni) è partita il 13 febbraio da Palermo e, dopo aver toccato Cosenza, Potenza, Caserta, Roma, Pescara e, domani e dopodomani Ancona, giungerà a Verona dove il convoglio non verrà attestato a Porta Nuova, bensì nella ben più intima Porta Vescovo. Il 20 marzo stazionerà infine a Milano Porta Garibaldi per concludere il tour, passando prima da Varese, a Torino dove potrà essere visitato dal 25 al 27 marzo.KL Cesec CV 2014.03.11 Treno Verde 001Durante le tappe il Treno Verde, grazie alla mostra interattiva ospitata a bordo dei suoi rotabili, incontrerà studenti, cittadini e amministrazioni per promuovere la qualità dei territori, l’innovazione nei centri urbani e l’attenzione negli stili di vita.
Il ministero dell’Ambiente, che si è recentemente aggiunto la specifica …e della Tutela del Territorio e del Mare (manca l’Aria ma ne comprendiamo la ragione; volete mettere, non sia mai qualcuno si metta a declamare cose turpi tipo: Ministeri di Terra, del Mare e dell’Aria!…) sostiene Treno Verde perché, come afferma il suo attuale titolare pro-tempore: “Riteniamo che sia un’iniziativa che diffonde un’idea di sostenibilità, dal punto di vista della mobilità, della produzione di energia e del modo in cui si vive il territorio, che corrisponde all’impostazione che abbiamo cercato di dare nel corso di questi mesi e che guarda all’Italia come a un Paese che ce la può fare se rivede profondamente il suo modello di sviluppo e se affronta la grande questione ambientale come un’occasione di modernizzazione” e, blablando chiosa circa l’importanza dell’accordo di programma sottoscritto per il bacino padano: “Accordo di grande importanza sul fronte delle emissioni, dell’attività agricola e dei trasporti, di cui abbiamo già siglato la prima tranche con le regioni interessate. Ora, è molto importante passare alla seconda fase dell’accordo di programma sull’inquinamento da Pm10 perché lì credo si debba affrontare il nodo della mobilità sostenibile e di come guardare al nuovo ciclo dei finanziamenti Ue, che partono quest’anno, come a un’occasione per sostenere il passaggio verso la mobilità sostenibile in particolare dalla gomma al ferro“.KL Cesec CV 2014.03.11 Treno Verde 003Come opporre obiezioni a cotanta ecobanalità?
L’amministratore delegato di Ferrovie Italiane, per non essere da meno dichiara: ‘‘Il nostro sostegno alla campagna del Treno Verde diventa ogni anno sempre più convinto perché tutti i dati e i riscontri oggettivi confermano che la ferrovia è sempre più il fulcro irrinunciabile di una mobilità pubblica moderna e sostenibile. Guardiamo, ad esempio, al sistema delle Frecce, alla crescita esponenziale di viaggiatori registrata in pochi anni“.
Eh certo, grazie al sistema delle frecce… non fa niente se, per pagare gli spropositati costi delle infrastrutture ad alta velocità si sta lasciando andare in malora la ferrovia dei comuni mortali e la sua manutenzione, e non fa niente se la frequentazione delle frecce, in ragione delle tariffe e ad onta delle promozioni, è ormai sotto il 44%, e si sta sempre più sviluppando la concorrenza aerea.
Però, sempre secondo l’ineffabile Moretti all’uopo intervistato da La Repubblica: “Stiamo dimostrando che, laddove ci è data possibilità di esprimere in pieno le nostre capacità e potenzialità, i benefici per l’ambiente, per l’economia e per il turismo, sono incomparabili. Nel 2013 i 42 milioni di passeggeri che hanno preferito le Frecce all’auto privata o all’aereo hanno consentito di abbattere di oltre un milione di tonnellate le emissioni di Co2 nell’ambiente. E l’effetto positivo si dilata nelle città, grazie alle sinergie che stiamo incentivando con mezzi di trasporto privato, condiviso e pubblico a basso impatto ambientale“.
Come no, la città di Reggio Emilia, per esempio, ha visto grazie alla nuova stazione un’impennata tale di visitatori che non sa più dove metterli… NTV dal canto suo, si proprio quella di Italo, ha scoperto invece di avere un buco di 76 milioni e sta per chiedere ammortizzatori sociali per evitare licenziamenti. Della serie, i profitti me li pappo, i problemi li scrollo addosso alla collettività nella miglior tradizione dell’imprenditoria nazionale. Anche questo è inquinamento…KL Cesec CV 2014.03.11 Treno Verde 004Ma vediamo com’è fatto il Treno Verde. Premesso che l’ingresso è gratuito e ci mancherebbe, la prima vettura è dedicata al tema della mobilità sostenibile, dal trasporto su ferro alla mobilità elettrica, dall’urbanistica all’intermodalità, passando per le zone a traffico limitato, le piste ciclabili e le zone 30.
Alla città è invece dedicata la seconda carrozza, all’interno della quale l’allestimento è stato pensato per raccontare un’urbanistica che risponde alle esigenze dei cittadini e dell’ambiente.
Tema centrale della terza carrozza sono gli stili di vita: in questo vagone saranno forniti tanti piccoli accorgimenti per essere cittadini attenti e più smart. Ad esempio verrà spiegato come isolare l’abitazione per renderla efficiente, come fare una spesa sostenibile, come tenere sotto controllo i consumi domestici e, soprattutto, come differenziare e riciclare i rifiuti.
La quarta vettura, infine, è un vero e proprio parco urbano perché la città, secondo Legambiente, è più verde se con spazi pubblici attrezzati che consentono di passare il tempo libero, e non solo quello, respirando aria pulita o coltivando orti, riappropriandosi di tutti quegli spazi verdi spesso lasciati all’incuria e all’abbandono.KL Cesec CV 2014.03.11 Treno Verde 005Se ci gira, e se non abbiamo cose più importanti da fare, il 20 facciamo un salto a Porta Garibaldi…

Malleus

A scuola di orto, a Cernusco sul Naviglio

L’attenzione alla produzione alimentare a km zero ha portato alla nascita ed allo stabilizzarsi di manifestazioni locali, veri e propri mercatini di quartiere aperti al pubblico che vi può acquistare frutta, verdura, latticini, salumi commercializzati da produttori locali. Questi mercati si sono sempre più diffusi su tutto il territorio nazionale, e costituiscono un fenomeno di costume oltre che il segnale di una ritrovata consapevolezza al riguardo di un bisogno di natura e salute sotto il profilo alimentare. Secondo un censimento effettuato da Biobank, Federconsumatori e Coldiretti le aziende agricole bio lombarde che partecipano regolarmente a tali manifestazioni sarebbero 1.188: 237 con sede nella provincia di Milano, 37 di Monza e Brianza, 49 lecchesi e 62 comasche, 54 varesine e 42 della provincia di Sondrio e infine ben 255 bresciane, 290 pavesi e 162 mantovane. Non siamo riusciti a reperire dati dalla provincia di Lodi.KL Cesec CV 2014.03.10 Corbari 005A Milano, a parte la Cascina Cuccagna di Porta Romana, vero e proprio capostipite dei mercati bio, quelli storici sono il Verzierebio del sabato al quartiere Isola e il Mangiasano in Piazza Gramsci, ai quali recentemente se ne sono aggiunti altri dal carattere più o meno estemporaneo in varie zone cittadine; alcuni incontrano il favore del pubblico e si trasformano ben presto in incontri più o meno stabili, come per esempio quello che ha luogo una domenica al mese presso la Fabbrica del Vapore nell’area lasciata libera da un noto teatro che ha ritrovato la propria sede definitiva.
Anche in altre località dove la consapevolezza ecologista e l’attenzione al biologico non sono mai state particolarmente marcate si assiste ad un risveglio, per esempio a Monza dove ogni quarta domenica ha luogo il Mercatino del Biologico in piazza Duomo, inficiato però dalla presenza di emanazioni degli incombenti padroni di casa virtuali: volontari ed attivisti parrocchiali che propongono torte fatte in casa e ciarpame vario proveniente dallo svuotamento di soffitte e cantine con l’intento di raccogliere fondi, e ciò non contribuisce a fugare quell’atmosfera fumosa e mistificatoria che, per esempio nell’ambito finanziario, ancora oggi fa confondere la finanza etica con quella caritativa ed assistenziale.
Ben diversa invece l’aria che si respira, sempre a Monza, tra le bancarelle che ogni due settimane allegramente invadono la piazza del Carrobiolo, dove ha sede un convento i cui frati da qualche anno producono Fermentum, una birra bio eccezionalmente buona e che oltre a frutta, verdura, salumi e formaggi comprende anche manufatti quali tessuti ed abiti realizzati con filati e pigmenti naturali. Gli espositori non sono tutti a km zero: alcuni di essi provengono dalla Valtellina ed uno, che propone rimedi naturali ricavati da erbe, fiori e radici, addirittura dai colli piacentini.KL Cesec CV 2014.03.10 Corbari 003In altre realtà i mercati bio vengono spesso utilizzati per attrarre turisti, come quelli sul Lario a Como, Lecco, Bellagio o sul Garda a Gardone, Desenzano, Toscolano, Moniga, Sirmione, Salò.
Ma sta assumendo i contorni di un vero fenomeno sociale la spesa fatta direttamente in cascina: naturalmente non vi si trovano ananas o banane ma i prodotti locali secondo la rotazione stagionale.
Limitandoci alle verdure, in quanto Padani parliamo di ciò che troviamo dalle nostre parti, lieti di ricevere informazioni da parte di lettori residenti in altre aree geografiche. A marzo si inizia con le lattughe che ci accompagneranno fino all’autunno e con le diverse insalatine, e non è infrequente trovare quella vera e propria medicina che è il tarassaco, e poi spinaci, rucola, ravanelli, cicorino, catalogna, asparagi. In aprile e maggio la disponibilità riguarda zucchine, biete, piselli, fagiolini mentre a giugno, insieme con le prime patate novelle, arrivano pomodori, peperoni, melanzane, borlotti. E settembre é una vera esplosione di prodotti, con i primi radicchi, le zucche, i cavoli, i broccoli, le rape, le cime e così via fino all’autunno inoltrato in cui ai pomodori o melanzane si sostituiscono i finocchi, di nuovo gli spinaci, la valerianella, le coste, i cavolfiori, tutti i radicchi.KL Cesec CV 2014.03.10 Corbari 002I produttori più attenti danno inoltre ampio spazio in tutte le stagioni alle erbe selvatiche: ortiche, farinaccio, borsa del pastore, cecerbe, luppolo, rafanistro, rosolaccio, piantaggine e alle aromatiche: rosmarino, menta, basilico, salvia, lavanda, timo e ginepro dove le condizioni climatiche e l’altitudine lo consentono.
Ma un dato interessante emerge dall’ultimo censimento effettuato  congiuntamente da Istat, Federconsorzi e Coldiretti: cala il numero di aziende agricole ma aumenta la loro dimensione media. La conduzione familiare resta prevalente, ma si rafforzano forme più flessibili di gestione fondiaria mentre, pur nell’ambito di una riduzione della forza lavoro, cresce la manodopera salariata secondo un concetto di agricoltura sempre più professionale e imprenditoriale. Le aziende agricole e zootecniche attive in Italia sono 1.597.034 e registrano un calo del 34,7% rispetto al 2000, ma contemporaneamente cresce la dimensione media aziendale arrivando a 7,9 ettari di SAU, Superficie Agricola Utilizzata, con un incremento del 46,1 per cento su un totale di 13,7 milioni di ettari, in calo del 2,9% rispetto all’anno 2000. Tra queste sono aumentate quelle con un’estensione superiore ai 30 ettari e cresce il numero di quelle biologiche: tra nuove imprese e conversioni sono oggi 45.167 e la loro localizzazione prevalente è, neanche a dirlo, in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana.
Mediamente la loro superficie è di 18 ettari, e coltivano prevalentemente cereali da granella, prati permanenti e pascoli oltre al prodotto prevalente nell’ambito delle coltivazioni certificate: la vite, con oltre 320 mila ettari, 56.042 dei quali localizzati in Veneto.
Oggi è normale parlare di aziende agricole bio e di prodotti a km zero, ma circa quaranta anni fa, quando i primi esperimenti cominciavano ad affacciarsi timidamente nel panorama nazionale, “quelli lì” erano i matti, i visionari, gli spostati quando non addirittura gli hippies, quei lazzaroni drogati che lasciavano banche, fabbriche e non di rado aziende di famiglia per imbarcarsi in questa avventura dai contorni oscuri e dagli esiti incerti.
Tra questi non sono mancati esponenti di grandi catene editoriali come i Crespi del Corriere della Sera o quelli dell’antica nobiltà fondiaria lombarda proprietaria dell’intera collina di Sant’Angelo Lodigiano, dove oggi si produce l’unico vino milanese e dove è stato realizzato uno dei meglio strutturati musei dell’agricoltura.KL Cesec CV 2014.03.10 Corbari 001Uno di questi matti si chiama Antonio Corbari. Nel 1976 molla la scuola professionale che dirige per collaborare con un amico contadino a Pessano con Bornago, nella Brianza milanese. Dopo un anno acquista un appezzamento a Cernusco sul Naviglio dove inizia a produrre ortaggi imprimendo poco dopo una svolta radicale alla propria attività dedicandosi completamente al biologico.
Si fa promotore del Biologico in Piazza e fa da incubatoio per l’attività di altri colleghi/concorrenti, sviluppando quella che diventa ben presto una vera e propria seconda attività: tenere corsi e seminari a tema aperti al pubblico ed agli operatori dalle provenienze più disparate, per esempio albanesi grazie al contatto con un missionario. Finché arriviamo alla nascita dei GAS, Gruppi di Acquisto Solidale. A chi si rivolgono i primi per avere consigli e prodotti? Ma ad Antonio Corbari, naturalmente. E infine arriva l’Istituto di entomologia della Facoltà di Agraria, che dopo una ricerca durata due anni sui terreni della sua azienda agricola scopre colonie di insetti che possono vivere solo in terre incontaminate. E oggi? E oggi provate, per esempio al sabato mattina, a fare la spesa alla Cascina Corbari, poco distante dalla Cascina Imperiale, quattrocentesco esempio di corte fortificata lombarda: mettetevi l’animo in pace, non sfuggirete alla coda. Ma è una coda piacevole, naturalmente rispettosa delle precedenze, dove c’è sempre qualcuno con cui scambiare opinioni, battute, racconti, consigli anche gastronomici: per esempio al riguardo del remulàss sula quale abbiamo scritto qualche tempo fa, una sorta di rapa che sembrava relegata al folclore di certe canzonacce milanesi e che invece qui, in stagione, è più che mai viva e pronta a finire in pentola!
Intendiamoci, l’estensione dei loro terreni non è quella delle piantagioni di Via col Vento e non potete pretendere che proprio tutto-tutto-tutto sia a km zero. Però è tutto bio, senza se e senza ma.
Sara Petrucci è una giovane agronoma entusiasta, con specializzazione in agricoltura biologica e multifunzionale che lavora da anni presso Corbari, ed è stata più  volte docente di corsi di orticoltura ed anche quest’anno, il 10, 12, 24 e 31 maggio terrà un Corso di Orticoltura Biologica Familiare: quattro lezioni che prevedono una parte teorica e prove pratiche in campo.KLK Cesec CV 2014.03.10 Corbari 004Il corso è rivolto a chiunque desideri apprendere conoscenze di base, eventualmente da approfondire, su come coltivare un orto per l’autoconsumo secondo metodi naturali e biologici. Questi i temi delle sessioni:

  • Sabato 10 maggio – Il terreno, le lavorazioni e la fertilità: l’importanza della sostanza organica e il compost con la prova pratica dell’allestimento di un un cumulo di compostaggio.
  • Sabato 17 maggio – Progettare l’orto biologico, rotazioni e consociazioni: le diverse famiglie botaniche a cui appartengono gli ortaggi coltivati, con prova pratica di lavorazione del terreno e formazione di aiuole.
  • Sabato 24 maggio – Caratteristiche fisiologiche e tecniche colturali: i principali ortaggi coltivati, lattughe, pomodori, zucchine, fagioli, con prova pratica di traianti e semine nelle aiuole formate durante la lezione precedente.
  • Sabato 31 maggio – La difesa ecologica da malattie, parassiti ed erbe infestanti: sostanzialmente la prova pratica della preparazione di un macerato e un giro di riconoscimento di flora spontanea commestibile.

Chi volesse aderire all’iniziativa partecipando al corso può farlo scrivendo all’indirizzo info@corbaribio.it o telefonando al numero impresso sul volantino.

Malleus

Carletto guarda: le Apuane! Dove papà? Non le vedo

Carletto guarda: le Apuane!
Dove papà? Non le vedo
Uffa, non serve che guardi fuori dal finestrino… qui, sul tablet, in queste vecchie foto.
KL Cesec CV 2014.03.04 Cave di marmo
In questo scritto parto dallo scempio delle Apuane per terminare il mio viaggio in Lombardia, nella un tempo operosa Brianza, all’insegna di consumo del suolo tra agricoltura che scompare ed attività mercantili e mercatali cinesi.
Prendo le mosse da una petizione lanciata per fermare la distruzione delle Alpi Apuane, che pienamente condivido ed il cui link riporto in calce a questo scritto ma, come è mio costume, cerco di affrontare la questione da una prospettiva differente rispetto a quella canonica infarcita dai dogmatismi dell’ecosostenibilità.KL Cesec CV 2014.03.04 Petizione ApuaneArrivo subito al punto: quel composto di carbonato di calcio comunemente detto marmo è un prodotto assolutamente inutile per l’esistenza umana.
Senza nulla togliere alle antiche ville Romane, alle Pietà, al Mosè ed a tutte le statue ed i monumenti destinati a celebrare imperitura la gloria umana, facendo le debite proporzioni se ipoteticamente il marmo sin qui estratto occupasse volumetricamente un container da 60 piedi, tutti gli ingegneri ed architetti dell’antica Roma messi insieme, nonché Michelangelo e soci ne avrebbero prelevato l’equivalente di due, o forse tre, cucchiaini da caffè.
Il marmo non possiede nessuna delle caratteristiche che ne fanno una pietra da costruzione: fragile, delicato, non sopporta tensioni né sollecitazioni torsionali e, in più, tende a sfaldarsi. Viene infatti utilizzato come pietra per pavimentazioni e rivestimenti, dopo essere stato adeguatamente trattato antigelivo, antimacchia, antitutto. In fase di posatura bisogna maneggiarlo come fosse nitroglicerina. E se nell’uso quotidiano vi casca sul pavimento o sul piano della cucina una goccia di vino o aceto o limone, per non dire di trementina, siete fregati.
Però, e mi riferisco a quello bianco di Carrara, è bello, bianco, splendente, luminescente. Detto in altri termini, è perfetto per supportare pulsioni egoiche dalla nascita alla morte ed oltre, visto che è usatissimo anche per monumenti funebri.
Personalmente preferisco ed utilizzo, quando non posso farne a meno e dietro espressa richiesta di un committente che non sono riuscito a convincere, il botticino, il rosso veronese o quello portoghese, anche se per me l’apoteosi è rappresentata dall’azul brasiliano, composto da sodalite ed indiscutibilmente più versatile di quello nostrano. In realtà il marmo non mi piace, gli preferisco di gran lunga il serizzo e la beola ma, lo riconosco, queste sono mie ubbie progettuali.
Soprattutto non mi piace tutto quello che gravita oggi attorno al marmo: dalle ville alla Scarface a tutto il sottobosco di maneggioni, intermediari, traffichini ed evasori fiscali, al fatto che il marmo (sto parlando di quello di Carrara) si dice non venga più lavorato in loco ma spedito via mare in India ed altri paesi asiatici dove la manodopera costa infinitamente meno e dove gli imprenditori possono serenamente evitare l’installazione di costosi sistemi di sicurezza antinfortunistica.
E così a Carrara, dove anche le botteghe artigiane degli scultori si sono ridotte al lumicino, restano le briciole, nel vero senso degli sfridi di lavorazione. Vale a dire le scoasse che, idealmente raccolte con la paletta, finiscono all’industria cosmetica, cartotecnica e delle vernici.
E che dire infine del prezzo fissato non si sa bene in base a quali criteri in 450 €/t quando in realtà si sa benissimo che il valore di transazione è almeno dieci volte superiore? E che la differenza viene tradizionalmente regolata in nero? Però è stato istituito un osservatorio… io amo gli osservatori: per non stare lì in piedi sotto il sole piantano un ombrellone, aprono un tavolo, e osservano.
Specialisti in tal senso sono quelli dell’ONU, che troppe volte ho incrociato quando esercitavo il mestiere delle armi: come osservavano loro non osservava nessuno. Ma, pensandoci bene, anche quando da ragazzo andavo in camporella al Parco Lambro o al Forlanini era pieno di osservatori…
Paradosso: è perfettamente inutile fermare la distruzione delle Alpi Apuane. Semplicemente perché le Apuane non esistono più. Esiste un passo sull’antica Via del Sale, la cui strada scorre ormai all’interno di una cava; esistono le malattie a carico dell’apparato respiratorio degli abitanti di Carrara, Pietrasanta e degli altri comuni facenti parte del comprensorio; esistono contributi per diritti di scavo – eufemisticamente detti di coltivazione – che affluiscono nelle casse comunali nella misura di qualche milione all’anno, ma esistono debiti pluriennali di portata ben superiore ai contributi introitati che i comuni hanno contratto per realizzare tangenziali e vie di scorrimento che tengano i camion del marmo, il cui carico ad onta di leggi e regolamenti nessuno si guarda bene dal coprire, lontani dagli abitati. Esistono costi sanitari dovuti al pulviscolo infinitesimale che si respira ed alla contaminazione delle vene idriche, e queste sono certezze. Ma esisterebbe una cultura della colonizzazione dove i colonizzati sarebbero gli Apuani; questo è invece un luogo comune, perché l’effettiva consistenza economica e sociale del marmo non ha affatto limitate ricadute per la comunità, visto che il settore lapideo continua a rappresentare l’ossatura portante dell’economia locale, occupando più di 12.517 persone, circa 1.000 delle quali impegnate direttamente nell’attività estrattiva (dati Cciaa) e la filiera non si è affatto svuotata, ma lavora 600.000 tonnellate di materiale locale, vale a dire il 40% di quanto viene esportato dall’intero Paese, nonostante il drastico ridimensionamento della lavorazione innescato dall’ingresso sulle arene commerciali globali dei Paesi emergenti.
Per avere un’idea della rilevanza sociale del fenomeno riporto il numero di abitanti dei comuni appartenenti al distretto marmifero apuano: Carrara 64.127, Fivizzano 8.815, Massa 68.941, Minucciano 2.521, Montignoso 10.439, Piazza al Serchio 2.501, Pietrasanta 24.931, Seravezza 13.440, Stazzema 3.367, Vagli di Sotto 995 per complessivi 200.077 residenti. La filiera marmifera interessa quindi il 6,25% della popolazione locale.
Disconoscere le reali dimensioni del settore è perciò irresponsabile, disinformato o strumentale: intorno al marmo non campa un ristretto numero di attività e di individui come si vuol far credere, e le imprese che operano direttamente e nell’indotto del marmo fanno girare oltre un terzo dell’intera economia provinciale.
Perciò, stante quello che ho affermato più sopra, e di cui posso fornire dati e fonti, questa è casomai la vera peste del marmo: l’assenza di una seria regolamentazione, di una volontà locale di crearla. Niente di nuovo sotto il sole: massimizzare i profitti privati, fregare tutto e tutti per non parlare di quella cosa inutile e dannosa che è il fisco, e buttare sulla collettività gli oneri sociali che tutto questo comporta. Devi realizzare una strada esterna all’abitato perché altrimenti i miei camion inquinano e tritano le vecchiette? Che me ne frega, fattela.
E non crediamo alle favole della consapevolezza dei cittadini: è già stato tentato, in passato e più volte, di sensibilizzarli al problema, e il risultato è stata un’alzata di scudi al grido: ci vogliono togliere il lavoro.
Sotto questo aspetto ho sempre ammirato gli Svizzeri: a casa loro guai se tocchi un filo d’erba, ma loro fanno ciò che gli pare in casa degli altri che glie lo permettono. E non a caso ho citato gli svizzeri, che nel panorama lapideo apuano non sono esattamente degli sconosciuti.
Con tutto il rispetto per la biosfera e per l’eventuale morte di una marmotta la questione è quindi ben altra: non siamo diversi dall’India o dall’Amazzonia colonizzate, solo che a noi italiani, themostfurboftheworld, come sempre non ci frega nessuno: siamo bravissimi a colonizzarci da soli.
Scusate il francesismo: siamo e resteremo un popolo di merda, servi adusi a lamentarci ed a fotterci tra servi. Scusate, ho scritto popolo. No, noi non siamo un popolo, e meno ancora una nazione, siamo solo un’accozzaglia di gente che condivide il medesimo spazio.KL Cesec CV 2014.03.04 Consumo del suoloDovremmo invece parlare di consumo del suolo, che è forse il vero problema nazionale. Consumo del suolo è un’espressione efficace anche se impropria perché, in realtà, il suolo non si consuma ma cambia uso attraverso i processi di trasformazione da usi agricoli o naturali ad usi urbani. Pensiamo solo alla Lombardia, quella che possiede le terre più fertili in assoluto e che contribuisce per il 16% al prodotto agroalimentare nazionale, dove dal 1999 al 2007 si sono persi oltre 43.000 ettari, e altri 27mila dal 2007 al 2012.
Urbanizzazione e impermeabilizzazione dei suoli comportano pesanti compromissioni del patrimonio ambientale e paesaggistico, risultando strettamente correlati ai dissesti idrogeologici che purtroppo costituiscono in Italia una emergenza costante. Ma che continuiamo a fronteggiare come se si trattasse di sciagure ineluttabili e non di improvvida gestione del territorio.
Probabilmente grazie alla crisi che ha reso più debole la pressione edificatoria, la limitazione del consumo di suolo sembra finalmente entrata nell’agenda politica regionale, dove parebbe finalmente concreta la possibilità di portare a conclusione l’iter legislativo del progetto di legge: Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per il riuso del suolo edificato, da tempo immemore fermo a prender polvere da qualche parte.KL Cesec CV 2014.03.04 Ambiente maneggiare con curaE’ sperabile che la legge enunci con chiarezza l’importante principio fondamentale: il suolo libero è una risorsa non riproducibile da preservare e tutelare nelle funzioni produttive e paesaggistico ambientali, e prima di trasformarlo si deve accertare se siano praticabili soluzioni alternative.
E’ necessario che in tal senso la legge esprima procedure univoche di computo e monitoraggio, evitando che opere di grande impatto, fossero di interesse generale come le infrastrutture, siano sottratte a bilanci e valutazioni di sostenibilità come è purtroppo troppe volte accaduto, o che deroghe permissive riducano la portata di un provvedimento quanto mai urgente. E’ anche importante che la legge sia in grado di responsabilizzare tutti gli attori delle trasformazioni territoriali, definendo la necessità di verificare nessi oggettivi tra bisogni e previsioni di sviluppo, e introduca misure disincentivanti e di compensazione ecologica per gli interventi di trasformazione, e al contrario di incentivo al riuso, al fine di rendere sempre meno conveniente l’edificazione su suoli liberi.
Finora non abbiamo avuto segnali in tal senso e va tenuto ben presente che consumare il suolo non significa solo edificare. La viabilità stradale comporta un consumo relativamente modesto ma gli oneri indotti, sociali e sanitari, sono oggi ormai inconcepibili. E non mi riferisco solo alle varie gronde, tangenziali, tangenzialine e bretelle in corso di realizzazione, ma anche alla viabilità ordinaria che dev’essere adeguata allorché viene realizzato un complesso suscettibile di creare anomali afflussi veicolari.KL Cesec CV 2014.03.04 Megastore cineseKL Cesec CV 2014.03.04 CineseUn esempio, giusto per chiarire: lungo la strada che collega Argate con Carugate, c’è l’area dismessa dall’industria chimica Uquifa, che ha delocalizzato licenziando 80 lavoratori. In quest’area, quindi senza apparente consumo di suolo, sono in corso i lavori per realizzare entro il 2015 il megastore cinese all’ingrosso più grande d’Europa, esteso su 45.000 metri quadri oltre a parcheggi e piazzali di manovra, che raggrupperà 220 attività commerciali Made in China, negozi, ristoranti, bar, parrucchieri e, naturalmente, troiai camuffati da centri massaggi (sfido chiunque a dirmi che non sono troiai).
L’ostruzionismo, in verità non particolarmente barricadiero, espresso dalla comunità locale è stato rintuzzato dall’amministrazione comunale, alla quale andranno 12 milioni di euro di oneri di urbanizzazione, che verranno investiti in lavori pubblici, a partire dall’edificazione di una nuova scuola materna e alla riqualificazione di varie zone della città. Tutto ha un prezzo, per chi è in vendita.

ACS

https://secure.avaaz.org/it/petition/Ferma_la_distruzione_delle_Alpi_Apuane/?pv=47

Fattorie didattiche: da dove si comincia?

Premessa, noiosa ma necessaria:
“Carletto, cosa farai da grande?”
“L’ecovillaggista, papà”
“Allora molla quegli strafatti che frequenti a vai in montagna per tre anni. All’università”.
Rispondiamo, per puro divertimento, a due email che ci sono pervenute a seguito dell’articolo intitolato Percorsi per ecovillaggisti. Formativi? pubblicato oggi su questo blog e che ci accusano di essere settari e di volerci appropriare dell’ecosostenibilità per traghettarla verso freddi lidi imprenditoriali e finanziari.
A parte il fatto che ci vengono attribuiti poteri ben lontani dalle nostre modeste facoltà – roba che nemmeno con i riti Woodoo – probabilmente a differenza di chi ci scrive sappiamo invece bene, quanto “l’interesse dell’imprenditore non sempre coincide con quello pubblico, e pertanto bisogna guardarsi dal seguirlo ciecamente; le proposte di legge che vi si ispirano vengono da una categoria di persone che sono istintivamente portate a ingannare e opprimere i lavoratori, e che di fatto molto spesso li ingannano e li opprimono”. No, non l’ha scritta Marx questa frase, ma un tranquillo scozzese che si chiamava Adam Smith nel suo libro Natura e cause della ricchezza delle Nazioni, pubblicato nel 1776.
Quindi, ribadiamo con forza il nostro pensiero che condanna il dilettantismo camuffato da alternativo perché oggi, ed ancor più in un futuro niente affatto lontano, ci saranno due sole alternative: mangiare o morire di fame. Il resto sono chiacchiere, fumo o, come abbiamo scritto nell’articolo richiamato, fuffa.
Bene, ciò premesso per doverosa risposta, a nostro avviso gli ecovillaggi si studiano all’università, e non tra danze,cerchi più o meno sacri e scambi di massaggi reiki. Poi ciascuno è libero di illudersi come preferisce, ma non venga a dare lezioni quando avrebbe invece bisogno di apprenderne.KL Cesec CV 2014.02.21 Edolo neveE passiamo alle cose serie. Fattorie didattiche:da dove si comincia?
Pochi sanno che presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano è stato istituito il corso di laurea triennale in Valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano, caratterizzato da una notevole particolarità sancita dal motto: la montagna si studia in montagna. InfattI l’ateneo ha sede a Edolo, in Valle Camonica.KL Cesec CV 2014.02.21 Università MontagnaPer il nostro Paese la montagna rappresenta una parte ampiamente significativa del territorio, che in passato contribuiva molto più che ai giorni nostri all’economia ed al sostentamento della popolazione.
Sappiamo bene come scelte economiche e politiche abbiano gradualmente trascurato queste aree comportando gravi conseguenze sociali e di degrado ambientale.
Oggi il territorio montano si presta ben più che in passato alle attività  agro-forestali, alla zootecnia di qualità, alle produzioni artigianali, alla protezione dell’ambiente ed al turismo in un contesto in grado di garantire una migliore qualità di vita per chi sceglie di operare nel settore.
Il mare e la montagna non tradiscono ma sono, semplicemente, severe maestre: le cronache traboccano di leggerezze pagate con la vita. Ed anche un notevole impegno economico e di lavoro non può essere improvvisato, soprattutto in un territorio difficile come quello montano. Ma occorrono dedizione, esperienza e prima ancora una seria formazione. Per questa ragione è stato istituito il corso di laurea in valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano.
Martedì 25 febbraio con inizio alle ore 15:30 presso l’Aula Magna dell’università si terrà un incontro sul tema: Le fattorie didattiche: da dove si comincia?
Relatore sarà Valentino Bonomi dell’ Azienda Agricola S. Faustino, che spiegherà le opportunità legate all’apertura di una fattoria didattica. Per partecipare è necessario accreditarsi sul sito della Facoltà www.valmont.unimi.it.

Malleus

Milano: Per il diritto all’acqua, convegno promosso dal Forum Italiano Movimenti per l’Acqua

KL-Cesec VedovellaMilano: domani 18 gennaio dalle ore 14:30 alle 18:30 presso la sala convegni della sede provinciale ACLI in via Della Signora 3 avrà luogo il convegno Per il diritto all’acqua, promosso dal Forum Italiano Movimenti per l’Acqua e dedicato alla costituzionalizzazione del diritto all’acqua mediante la piena attuazione dei referendum del 2011. Durante i lavori, che prevedono di concludersi con un dibattito pubblico, si parlerà anche di un nuovo e legittimo sistema tariffario oltre che delle forme di finanziamento del servizio idrico.
Secondo gli organizzatori: “oggi, con l’approfondimento della crisi economica e sociale, il tema del diritto all’accesso all’acqua torna ad essere di stringente attualità anche in Italia. L’applicazione dei referendum, oltre ad essere elemento sostanziale del rispetto della volontà popolare, è un primo passo fondamentale nella direzione della piena realizzazione di tale diritto.
Per questo risulta decisivo avviare la discussione parlamentare e approvare la legge d’iniziativa popolare “Principi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque e disposizioni per la ripubblicizzazione del servizio idrico” e constestualmente ridefinire un sistema di finanziamento del servizio idrico integrato che utilizzi, oltre alla leva tariffaria, anche la fiscalità generale e la finanza pubblica“.
Il convegno si propone pertanto da una parte l’obiettivo di denunciare come il diritto all’accesso all’acqua sia, anche in Italia, messo in discussione a partire da un sistema tariffario illegittimo e da un sistema di finanziamento del servizio idrico non equo e insostenibile e, dall’altra, di avviare un ragionamento sulla costituzionalizzazione di tale diritto.
Previo saluto di un rappresentante del Comune di Milano e del Comitato Milanese Acqua Pubblica, al convegno interverranno:
Emilio Molinari, presidente del Comitato Italiano del Contratto Mondiale dell’Acqua, sul tema:
Il diritto all’acqua come battaglia globale
Corrado Oddi, del Coordinamento nazionale Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, sul tema:
Contro il sistema tariffario dell’AEEG, per il riconsocimento dell’esito referendario
Marco Bersani, giornalista e scrittore autore fra gli altri di Acqua in movimento, ripubblicizzare un bene comune e CatasTroika, le privatizzazioni che hanno ucciso la società, sul tema:
Il ruolo della finanza pubblica nel diritto all’acquaCome raggiungere il convegno

Case di carta e uomini di cartone

Nonostante la crisi, Milano rimane l’unica città italiana che stenti a riconoscere, se la lasci anche solo per qualche anno. A parte quartieri ingessati come Brera e i Navigli ridotti al rango di luna-park è tutto un demolire e ricostruire, un riqualificare, un sintetizzare declinando, contaminando e via cementificando.
Non è raro e non è ignoto come certe imponenti operazioni immobiliari servano solo a creare le premesse per una finanza di carta, avulsa dal contesto delle reali necessità urbane e finalizzata ad una riqualificazione patrimoniale interbancaria fittizia, mentre in aree non necessariamente periferiche languono, a rievocare immagini da dopo-bomba, scheletri che  avrebbero dovuto costituire le riqualificazioni di dieci, venti, venticinque, trent’anni fa.Cesec - Pin Lake ApocalypseMentre tanta gente dorme per strada o in macchina, di edifici vuoti e sovente mai abitati a Milano non ne mancano. E potrebbero essere riqualificati, se non con poca spesa visto il degrado al quale tempo ed incuria li hanno assoggettati, almeno per evitare di sottrarre ulteriore spazio alla superficie cittadina. E questo, oltre a far tornare a lavorare l’industria delle costruzioni in un contesto diverso da quello tutt’altro che ecosostenibile che conosciamo, contribuirebbe in modo sostanziale a risolvere problemi di degrado urbano.
Beninteso: per ecosostenibile non intendiamo solo polveri sottili, amianto, anidride carbonica: Anche certa finanza nuoce gravemente alla salute.
In altri luoghi del pianeta, per esempio negli Usa, se non siamo alla casa usa e getta poco ci manca. Le imprese edili sono incredibilmente tornate a lavorare in città zeppe di case invendute, dalla California meridionale a Las Vegas, da Phoenix in Arizona all’estremo Nord-Ovest di Seattle.
La ragione è semplice: nessuno vuole andare a vivere in case disabitate da tempo, miserevoli in quanto bisognose di restauri, in quartieri ormai deserti e conseguentemente insicuri e socialmente degradati. Quindi, con sano pragmatismo, meglio ripartire da zero: giù tutto e ricostruire sulle medesime aree case nuove meno costose, in quartieri che tornano a vivere, adottando tecniche costruttive più economiche e con maggiore attenzione al risparmio energetico.
E le abitazioni sfitte che ingolfano il mercato immobiliare restano sfitte o invendute e, in casi che vanno facendosi sempre più frequenti, cominciano a essere demolite da banche e assicurazioni che ne sono divenute proprietarie dopo aver cacciato i loro debitori ormai insolventi. Si è infine scoperto che in molti casi è più conveniente azzerare un valore patrimoniale e assumersi anche i costi di demolizione piuttosto che continuare a spendere soldi per i continui interventi di manutenzione – tetti da restaurare, alberi da potare, giardini da tenere in ordine, superfici esterne di legno da verniciare di frequente – necessari per mantenere la proprietà sul mercato in condizioni presentabili, ma con la prospettiva di non riuscire, comunque, a venderla per anni.
E così, da Chicago a Cleveland, in Ohio, le demolizioni di case che ormai hanno un valore minimo e che nessuno vuole sono diventate assai frequenti. Lo Stato col maggior numero di case rase al suolo è il Michigan, alle prese con l’esodo di una parte della popolazione, rimasta senza lavoro per la profondissima crisi del sistema industriale. La città di Detroit ha appena avviato un programma di demolizione di 450 edifici residenziali. Molti ritengono che sia solo l’inizio, visto che nell’area urbana ci sono già 33 mila case sfitte e altre 50 mila stanno per diventarlo, visto che i proprietari hanno fatto default sul mutuo. Intanto città devastate dalla crisi dell’auto come Flint (quella di Roger & Me, il film di Michael Moore sulla prima crisi della General Motors) usano i fondi dello stimolo fiscale, i sostegni all’economia varati da Obama subito dopo il suo insediamento alla Casa Bianca all’inizio del 2009, proprio per fare a pezzi le case ritenute non più abitabili.Cesec - Environment post ApocalypseTorniamo  a casa nostra, dove da sempre vige il detto: se riparte l’immobiliare riparte l’Italia. Si, forse in termini di Pil, non certo in termini di qualità della vita. Questione di opinioni…
Da noi quasi l’80% dei cittadini è proprietario della casa in cui vive prevalentemente e ben 1.400.000 sono i lavoratori che operano a vario titolo nel settore immobiliare. Parliamo di quelli censiti, è ovvio, non di quelli che se gli capita un incidente sul lavoro il titolare dell’impresa dà loro fuoco o tenta di far credere che siano finiti sotto al tram…
A differenza di altri paesi dov’è diffusa la grande proprietà immobiliare e nonostante che banche, istituti religiosi, previdenziali ed assicurativi detengano cospicui patrimoni, da noi i quasi 4.500 miliardi di valore delle abitazioni private svolgono un ruolo fondamentale per il benessere e la stabilità dei nuclei familiari, ed è innegabile che la proprietà immobiliare diffusa abbia prodotto ricchezza per la maggioranza dei cittadini, contribuendo a suo modo al formarsi di un capitalismo popolare, rimasto immune nel tempo dalle crisi prodotte dall’eccessiva finanziarizzazione dei mercati e che nel contempo ha garantito, con la propria patrimonializzazione, una parte del debito pubblico nazionale.
Per un privato, per una famiglia, investire ora in immobili con l’idea di metterli a reddito non è difficile, è impossibile. A parte la difficoltà di accedere al credito per l’ottenimento di mutui, esiste un concreto rischio credito o d’impresa o comunque vogliamo chiamarlo, vale a dire la niente affatto aleatoria possibilità che l’inquilino non paghi l’affitto. Agire per via giudiziaria significa, oltre che sostenere spese giudiziarie e legali, mettere una croce sopra al mancato guadagno sino all’esecuzione dello sfratto: chi vive a Modena, Trento o Monza può mettere in preventivo dai 9 ai 18 mesi di sofferenza, mentre chi vive a Milano o in altre grandi città del Nord e del Centro può mettersi il cuore in pace per tre-quattro anni. Lasciamo perdere i tempi delle città del Sud…
Oltre a questo, tra i fattori che stanno allontanando gli italiani dall’investimento immobiliare si annoverano l’alta tassazione del bene-casa, che in questi ultimi tempi è diventata la più alta d’Europa e l’erosione del valore dei beni immobili, anch’essa prevalentemente causata da una modalità di tassazione applicata in forma patrimoniale e non reddituale.
Nonostante questo quadro a tinte fosche l’investimento immobiliare rimane per gli italiani un faro nella crisi, che illumina tra marosi, secche e  scogli affioranti la navigazione notturna delle famiglie, che vorrebbero ma non riescono più a comprar casa.
Ad ogni analisi trimestrale le compravendite sprofondano, l’andamento delle variazioni dei passaggi di proprietà è sempre più negativo: il calo è più accentuato nel Nord Est e nel Nord Ovest (rispettivamente -28,5 e -26,7%). La ragione, a dar retta agli ultimi dati del Crif, starebbe nell’erogazione da parte degli istituti di credito di ipoteche immobiliari a garanzia di mutui calata di oltre il 45% poiché le banche, adottando criteri sempre più restrittivi, hanno praticamente dimezzato l’erogazione di mutui. Tant’è vero che molti clienti interessati a comprare casa, per evitare l’umiliazione di un rifiuto alla concessione del mutuo, hanno smesso di cercare, sperando in tempi migliori.
Quando quel genio carismatico il cui nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan Drago, intervenne a favore di un allentamento della stretta creditizia, soprattutto nei confronti delle famiglie e delle piccole aziende, ottenne che numerose banche iniziassero da quel momento a chiedere, oltre a tutto il resto, anche il certificato Inps, e certune legate al mondo cooperativo persino le attestazioni delle tessere fedeltà dalle quali desumere, attraverso l’analisi degli acquisti, il tenore di vita dei mutuandi. Non ci è giunta notizia di banche che abbiano chiesto il tema natale e la foto dell’aura… Insomma, il tutto nel classico stile delle banche che non vogliono concedere mutui.
Del resto, non più tardi di pochi giorni fa un banchiere intervistato, risentitosi per le numerose critiche che gli giungevano in quanto rappresentante del sistema-credito, ha reagito attaccando a propria volta le critiche e sostenendo che le banche comprando i Btp stanno salvando l’Italia. Certo, con i miliardi di Euro avuti dalla Bce all’1% li compreremmo anche noi i Btp, ma avremmo il pudore di non qualificarci come salvatori della patria…Cesec - Casetta di cartaBene, alla fine di questa chiacchierata, la nostra opinione non solo rimane sempre la stessa, ma anzi si rafforza: è il momento di vedere le cose da un’altra prospettiva. Affermava lo scrittore e psichiatra Mario Tobino: per comprendere i matti devi ragionare da matto. Ecco, chi si vuole salvare per sopravvivere deve cominciare a ragionare da matto. Matto, non stupido.
I matti sono quelli fuori dal coro. Sono quelli che pensano che possa esistere la solidarietà, che si possano abbattere i costi, che si possa vivere ad un ritmo rallentato all’insegna di una decrescita felice, che si possa essere autosufficienti ed ecosostenibili. Per l’ambiente e per se stessi. Sono quelli che non cedono alle lusinghe delle notizie artefatte messe in giro a bella posta. Sono quelli che credono nel potere di una parola, anzi di due: cohousing ed autocostruzione.
Ma badando bene di non lasciarsi sedurre dalle sirene dei carrozzoni pubblici che fanno luccicare cooperative sociali ed agevolazioni finanziarie. Purtroppo è meglio un bagno nell’acqua fredda a dura della realtà: e la realtà si chiama iniziativa privata.

Malleus

Mosè salvato dalle acque. E le acque, chi le salva?

 Presso il museo del Louvre è conservata una diorite dell’altezza di circa mezzo metro detta la Stele della vittoria di Sargon, in accadico Sharru-kin, che significa re legittimo.
Fondatore della dinastia di Akkad e grande conquistatore  vissuto tra il XXIV e il XXIII secolo a.C. a lui vennero dedicate queste parole: Sono Sargon, non conobbi mio padre, mia madre era una sacerdotessa, mi concepì e mi dette alla luce in segreto. Mi mise in una cesta di giunchi e sigillò il coperchio con del bitume. Mi depose sul fiume che non mi sommerse ma mi sospinse fino all’irrigatore Aqqi, che mi accolse come un figlio, mi allevò e fece di me un frutticoltore.
La vicenda di Sargon è praticamente identica a quella di altre due figure di salvati dalle acque tra il mito e la storia, nella cultura occidentale e cristiana molto note: Mosè e Romolo.
Sargon era figlio di una sacerdotessa, come Romolo lo era della vestale Rea Silvia: entrambe avevano fatto voto di castità e per questa ragione partorirono segretamente.
Sargon e Romolo ufficialmente non conobbero il padre ed entrambi, ed in questo la leggenda li accomuna a Mosè, vennero abbandonati in un fiume dentro una cesta impermeabilizzata con bitume.
Diversa la vicenda di Mosè, il cui nome deriverebbe dalla radice משה che starebbe a significare colui che è stato estratto dall’acqua: salvato nientemeno che dalla figlia del faraone divenne pastore dopo aver commesso un omicidio che lo costrinse alla fuga.
In queste tre vicende l’acqua, se non come elemento di potenziale morte, viene comunque vista come veicolo di allontanamento, occultamento, separazione e, indirettamente, trasformazione e rinascita ad una nuova vita.Cesec - Francis Danby DiluvioL’acqua come minaccia, addirittura come castigo divino che è anche purificazione, la troviamo nel diluvio universale e ancora, sempre come elemento minaccioso, da dominare e trasformare, nelle vicende di Gesù che cammina sull’acqua o che la muta in vino. E, naturalmente, non poteva mancare nell’Apocalisse, nonché nelle attuali vicende legate alle correnti migratorie destinate, che lo si voglia o meno, ad introdurre un profondo cambiamento nei costumi della nostra società.Cesec - Salvataggio nel MediterraneoMa l’acqua è vista anche come elemento purificatore per eccellenza: nel battesimo cristiano e nelle abluzioni ebraiche, islamiche, induiste.
L’acqua vista infine come elemento da sfidare: da Ulisse a navigatori come Vespucci, Magellano, Colombo, Cook per citarne solo alcuni.
Il fuoco lo fermi l’acqua no, recita un antico proverbio a significarne l’inarrestabile potenza …
Anche le nostre terre, nel loro piccolo, sono collegate a miti legati all’acqua. Valga per tutte la leggenda di san Gerardo dei Tintori, il co-patrono di Monza, fondatore nel 1174 di uno dei più antichi ospedali italiani investendovi tutta la fortuna ereditata dal padre e del quale si racconta che abbia arrestato una piena del fiume Lambro, salvando così l’ospedale dall’inondazione.Cesec - Sauvé des EauxAbbiamo sin qui accennato, senza nessuna pretesa di completezza, a note vicende per dire che, se miti e leggende parlano di salvezza dalle acque, oggi è giunto il momento di salvare l’acqua.
Acqua: un bene prezioso tutt’altro che inesauribile, sempre meno puro ed al tempo stesso sempre più prezioso per l’esistenza umana. L’acqua sempre più oggetto di mire speculative, dalle quali – ed è questo il punto – dev’essere salvata.
Stiamo assistendo ad una virata nelle politiche dell’alimentazione mondiale tendente al monopolio: dei semi, delle coltivazioni ed oggi anche dell’acqua. Detto in altre parole: qualcuno ha deciso di decidere chi avrà il diritto di nutrirsi e dissetarsi, e chi no. E l’asservimento alimentare è peggio delle peggiori carestie: porta alla schiavitù.
Per questa ragione noi, nella modestia delle nostre potenzialità o, se preferite, in una logica di nicchia che altro non è se non consapevolezza di, giustappunto come si suol dire, in quante spanne d’acqua possiamo muoverci,  siamo attivi nell’individuazione di fonti e bacini per fare in modo, attraverso opportuni strumenti finanziari e societari, che l’acqua sia di proprietà dei diretti utilizzatori, vale a dire di coloro che, in un’area territorialmente delimitata, in un comprensiorio, in un contesto locale hanno interesse diretto a fruire della loro acqua.
Se il nostro sogno, progetto, chiamatelo come volete, in ogni caso non utopia, si espanderà a macchia d’olio o a macchia di leopardo non lo sappiamo. In fondo nemmeno ci interessa: quello che ci preme è agire, presto, bene e concretamente nell’interesse di tutti.
Compriamo l’acqua per salvare l’acqua, è uno dei nostri slogan. Con la collaborazione di tutti coloro che sentono l’esigenza di salvaguardare il proprio futuro attraverso un profondo lavoro, è il caso di dirlo, sul qui-e-ora.

Land Grabbing e vergini dai candidi manti

Oltre il non profit, c’è un settore che punta a coniugare reddito, etica e sostenibilità. L’articolo, pubblicato dal settimanale Il Mondo del 22 novembre con un sottotitolo dal sapore vagamente inquietante di slogan: Siamo utili, e facciamo utili ci fornisce lo spunto per parlare di un argomento che da gran tempo, in particolare da quando a Milano ed in altre città italiane si è tenuto il Forum della finanza sostenibile, è nelle nostre corde. Vale a dire, quando la finanza dai denti a sciabola indossa l’abito di scena etico e solidale. Che lor signori, come scriveva l’indimenticato Fortebraccio, facciano utili è pleonastico. Se siano utili è altrettanto induscutibile: in questo scritto cercheremo di portare il nostro contributo per stabilire a chi siano utili.
L’articolo celebra la finanza buona, affermando che in America è ormai una realtà mentre in Europa sta muovendo i primi passi. Vero: titoli tossici, dark pool, speculazione non smettono di essere sotto i riflettori. ma finalmente l’attenzione di istituzioni internazionali e banche d’affari sembra rivolgersi al cosiddetto impact investing, vale a dire gli investimenti che pur generando profitti hanno effetti positivi sulla società e sull’ambiente.
Apparentemente un ottimo segnale, generato dalla maturata consapevolezza dei rischi ecosociali che corre il nostro pianeta: se ne discute, se ne scrive sui giornali, se ne traggono dibattiti e trasmissioni televisive. Insomma, l’argomento è cool e, come tutte le cose trendy non poteva non attirare l’attenzione della finanza. La gente sembra sempre più orientata ad investire i propri risparmi in banche etiche, cohousing ecosostenibili, gruppi di acquisto solidale. Addirittura in autocostruzione edilizia coresidenziale o in attività di microcredito che si svolgono fra privati scavalcando le istituzioni creditizie: la legge lo consente, ma la finanza tradizionale o fa buon viso a cattivo gioco e lascia perdere o si veste da ecosostenibile nonché solidale per non lasciarsi sfuggire il pallino. E il boccone.
Naturalmente non può intervenire subito a succhiare da questo nuovo capezzolo, per una ragione d’immagine. Checché se ne dica anche la peggiore finanza abbisogna di consenso per non sembrare onnivora, bulimica, senza ritegno, accentratrice. Però la finanza, quella vera, è come la chiesa: sa e può aspettare. E allora prende il giro largo: inizia a fare le cose in grande, coinvolgendo investitori istituzionali, governi, creando movimenti di opinione attraverso i media. Non dimentichiamo a chi appartengono, prevalentemente, i mezzi di informazione.
Non stiamo farneticando: ciò che scriviamo lo insegnano in tutti i corsi universitari di sociologia, psicologia delle masse, e naturalmente economia.
Fermo restando che, come affermiamo spesso, l’ultima conversione di cui abbiamo avuto notizia è quella dell’Innominato, ecco che dall’ultimo G8 è scaturita l’istituzione di una task force (duro a morire il vizio di adottare termini di sapore militare, guerriero, combattivo…) riunitasi in ottobre per fornire indicazioni operative e di policy sulla regolamentazione dei Social Impact Investment, mentre dal canto suo l’Ocse sta inventariando tutte le esperienze mondiali per un report che sarà diffuso nel 2014. Non da meno è il Consiglio Europeo, che con un apposito regolamento ha introdotto un passaporto per i fondi che investono almeno il 70% in imprese sociali affinché i gestori che scelgono di aderire al regime EUSEF, European Social Entrepreneurship Funds, fondi per l’imprenditorialità sociale, possano commercializzarli liberamente in tutta l’Unione. Piatto ricco mi ci ficco, suol dirsi… E infatti alla nuova corsa all’oro con il vestitino eticosolidale non poteva naturalmente mancare la BEI, Banca Europea per gli Investimenti, scesa in campo lanciando attraverso il Fondo Europeo per gli Investimenti il SIA, Social Impact Accelerator, fondo di fondi in inedita partnership con Crédit Coopératif e Deutsche Bank.

Primo cameo, ovvero di come giovi rammentare che il lupo, anzi der Wolf, das Haar verliert
… La banca tedesca è stata condannata nel settembre 2012 dal giudice milanese Oscar Magi alla confisca di beni per 88 milioni di Euro, in concorso con Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank per la truffa sui derivati stipulati dal Comune di Milano nel 2005.
A volte ritornano… ed ecco che proprio l’elvetica Ubs ha istituito in ottobre il suo primo fondo impact dedicato a investimenti in piccole e medie imprese nei mercati emergenti, che avrebbe già raccolto oltre 50 milioni di franchi e considera settori target sanità, istruzione, accesso al credito, infrastrutture di base, sviluppo agricolo.
Quanto a Jp Morgan, le sue proiezioni affermano che nel 2023 il giro d’affari dell’impact investing assommerà a 400 milioni di dollari, solo negli Usa.

Secondo cameo, ovvero della finanza buona…
… quella che in America è ormai una realtà, e di come gli squali si mangiarono una bella idea in difficoltà: c’era una volta in Gran Bretagna… la Co-operative Bank, il più grande gruppo mutualistico britannico fondato nel 1844 dall’associazione di mutuo soccorso Rochdale Pioneers e forte di quasi 5 milioni di clienti, ma con un buco in bilancio da 1,5 miliardi di sterline. L’anno scorso due hedge fund americani hanno costretto la banca britannica a cedere il 75% del pacchetto azionario firmando un accordo che ha di fatto detto addio all’etica e spianato la via al licenziamento di migliaia dei 10mila dipendenti. Nell’occasione Dominic Hooki, segretario generale del sindacato Unite the Union, ha dichiarato: E’ un giorno tragico per il paese ed il quotidiano The Guardian ha commentato: Da oggi i cittadini hanno  minori possibilità di scelta e il paese si ritrova con un’altra banca che perseguirà gli interessi degli azionisti invece di provare a migliorare il settore del credito, ed anche il governo ne esce sconfitto: era stato proprio Cameron a scommettere sulle banche cooperative come possibile alternativa sostenibile al sistema bancario tradizionale, spesso accusato di fare affari alle spalle dei cittadini in difficoltà.

Considerato che the Venture must go on
… torniamo a parlare del nuovo che avanza. Anche da noi molto si muove, ed ecco l’assist dello sdoganamento attuato dal tempio delle scienze economiche mainstream: poteva mai mancare l’ennesimo osservatorio? A colmare la lacuna ci ha pensato la Sda Bocconi inaugurando l’Osservatorio Impact Investing, nella cui executive room siedono antesignani del venture capital sociale, docenti di studi giuridici ed esperti di impact finance.
Non facciamo pubblicità e non tiriamo la volata a nessuno perciò non riferiamo né nomi né marchi, chi vuole può leggere l’articolo citato in premessa o servirsi di Google. Uno di questi fondi etici viene citato ripetutamente poiché, dopo sette anni di attività e 13 investimenti in portafoglio per complessivi 7 milioni, ha appena ceduto una società di housing sociale al socio operativo, una cooperativa, e intanto si sta preparando l’uscita da due cooperative sociali. Un’operazione finanziaria in piena regola che si avvale indirettamente del meccanismo cooperativistico, e siamo certi che le cooperative utilizzatrici finali sapranno fare uso adeguato dell’esperienza, del patrimonio e dell’autonomia conseguiti.
Intanto la Fondazione Giordano dell’Amore e BNL-Bnp Paribas hanno deciso di partecipare con Crt e Fondo europeo per gli investimenti ad un’iniziativa da 18 milioni di euro per lanciare il primo Microcredit Bond d’Europa, diffuso per ora solo tra fondazioni, family office e privati con grandi patrimoni e, quando inizieranno ad emergere i primi casi di successo, anche tra i gestori di fondi, nella speranza che nel frattempo giunga anche in italia una parte delle risorse del Social impact Accelerator lanciato dalla Bei.

Una menzione particolare merita invece la Fondazione Acra
… nota per promuovere lo sviluppo nei Paesi poveri attraverso la diffusione di cognizioni tecniche e competenze progettuali, particolarmente nel settore agrario. L’anno scorso ha dato vita con Altromercato, Fondazione Fem e Microventures, alla Fondazione Opes che ha lanciato Opes Impact Fund, primo veicolo italiano che, individuando come target le imprese sociali attive nei Paesi in via di sviluppo, ha già raccolto 2,6 milioni di euro e fatto i primi investimenti in due imprese sociali in Kenya, contando di attuarne altrettanti entro fine anno per partire nel 2014 con una massiccia campagna di fund raising.
L’attività di Opes è degna di nota in quanto raccoglie mezzi a titolo di dono e non puntando a rendimenti di mercato ma esclusivamente a recuperare quanto investito per utilizzarlo in altre iniziative, facendo il possibile perché non accada quanto di cui stiamo per parlare nel nostro

Terzo cameo, ovvero di come in Africa il colonialismo non sia morto…
… e la corsa alla terra continui dietro il paravento della solidarietà: gli investitori cercano di convincere le popolazioni locali – e l’opinione pubblica mondiale – che i progetti favoriscono il benessere e riducono la povertà. E invece, almeno secondo quanto afferma Oxfam, rete di organizzazioni non governative: il 60 per cento dei soggetti privati che comprano porzioni di terra ha come obiettivo esportare tutto quello che produce. Secondo un’indagine effettuata dal francese Cirad, Centre Internationaux de Recherche Agriculture et Développement, la metà delle coltivazioni avviate non produce cibo bensì prevalentemente biocarburanti. Considerando infine che le terre sono cedute a prezzi ridicoli, vale a dire tra i 70 centesimi di dollaro ed i 100 dollari annui per ettaro con contratti di durata cinquantennale o centennale, spesso versati direttamente nei conti delle élite governative, non rimane molto per sfamare le popolazioni locali.Terra Africa 001Le terre acquisite dagli investitori stranieri sono talvolta marginali e disabitate anche se potenzialmente produttive, ma in altri casi sono fertili ed abitate da comunità rurali che, quando viene accordata la concessione, devono cedere il posto all’investitore dando luogo al fenomeno descritto con il termine vagamente burocratico di displacement, trasferimento. Detto in altri termini, vengono deportate.
Stime sul numero di displacements, ovviamente, nessuna. Ma storie drammatiche tante, specialmente a carico delle comunità di quelle aree ambite dalle multinazionali del carbone o di altre risorse minerarie che ottengono diritti di estrazione su milioni di ettari, causando il trasferimento di migliaia di famiglie in zone non infrequentemente prive di accesso al cibo e all’acqua.
In tutto il mondo si parla di oltre 900 contratti transnazionali firmati tra governi e investitori, che spesso millantano promesse di sviluppo e solidarietà sociale, per la cessione di terre, per un totale di oltre 40 milioni di ettari, fenomeno che il mondo accademico definisce con l’espressione gesuitica di acquisizione di terre su larga scala, mentre gli investitori preferiscono locuzioni come opportunità di sviluppo o prospettiva win-win. Quei tipi stravaganti che noi definiamo Società Civile lo chiamano invece con il nome che gli spetta: land grabbing, accaparramento delle terre.

E qui cominciamo a fare un po’ di conti
… se paghiamo il terreno 100 dollari per ettaro anziché 1.000 abbiamo già maturato una plusvalenza di 900 dollari senza nessuno sforzo, e l’area nel computo dei costi gestionali incide per il 2 anziché per il 20%. Ai risparmiatori possiamo anche accordare un bel 3% annuo di interesse sui capitali investiti, affermando: visto che anche la finanza etica può garantire ottimi rendimenti? I numeri sono inventati, ma il principio è chiarissimo. E passiamo al

Quarto cameo: il Mozambico non esiste.
L’affermazione, pronunciata con intento provocatorio il 4 giugno di quest’anno al festival dell’economia di Trento dal sociologo mozambicano e docente all’Università di Basilea Elisio Macamo, è la fotografia dell’Africa. Le sorti di Paesi come il Mozambico, dipendenti dagli aiuti esterni per almeno due terzi del bilancio nazionale, sono legate al rapporto di sudditanza della società rispetto agli agenti dello sviluppo: cooperative, ong, onlus e via enumerando. Chi organizza gli interventi umanitari detta legge ed i parlamenti non discutono quello che viene deciso dai gestori dei fondi per lo sviluppo.
In sostanza, oggi in buona parte dell’Africa subsahariana un’idea o un’iniziativa assumono lo status di verità solo se legate agli aiuti allo sviluppo.
Intanto i contadini di un villaggio che ai tempi dei colonizzatori portoghesi si chiamava João Belo affermano: Stavamo meglio prima che arrivassero i cinesi. In questa zona sulla rive del fiume Limpopo 20mila ettari di risaie hanno preso il posto delle machambas, i campi coltivati con metodi tradizionali: i cinesi sono arrivati, hanno rimosso i campi, drenato i canali d’acqua e occupato le terre.

Il crescente interesse per l’acquisto di porzioni di terra
… è dettato da problemi estremamente attuali: aumento della popolazione mondiale e crisi dei prezzi degli alimenti, fenomeni che hanno condotto alcuni paesi – soprattutto quelli arabi che non dispongono di aree coltivabili – ad acquisire terre per rafforzare la loro sicurezza alimentare. Noi non siamo da meno: il timore legato al riscaldamento globale ha motivato le politiche sulle energie rinnovabili di Stati Uniti e Unione Europea, facendo conseguentemente crescere la domanda di terre da destinare alla produzione di biocarburanti. Se, infine, stati come il Brasile rovinano l’ambiente di casa propria per sostenere lo sviluppo, altri paesi emergenti come l’India e la Cina soddisfano la crescente fame di materie prime acquisendo vaste superfici di terra da destinare all’esplorazione e all’estrazione mineraria.
Al Forum sulla finanza solidale abbiamo sentito un intervento esilarante: si parlava di quanto la Cina fosse avanti sotto il profilo della tutela ambientale del territorio. Del proprio.
Parliamoci chiaro: quando si citano le fonti rinnovabili si intende dire che la quantità totale di quella fonte non cambia significativamente durante il suo uso. Per esempio, se abbiamo un pollaio le cose vanno bene finché mangiamo al massimo tante uova quante le nostre galline sono capaci di produrre. Se ogni giorno mangiamo 10 uova e le nostre galline ne fanno 8, i conti non possono tornare.
Se usiamo legna per scaldarci la casa, la risorsa è rinnovabile solo se quella che usiamo viene rigenerata nel tempo durante il quale la bruciamo.
Lo stesso discorso vale per carbone e petrolio che hanno impiegato milioni di anni per formarsi, ma il ritmo con cui vengono utilizzati è enormemente più veloce della loro formazione. L’uranio invece non è rinnovabile: la sua presenza sul pianeta è modesta rispetto alle esigenze, e non si rigenera in nessun modo.
Le fonti rinnovabili, quelle vere, sono quelle che seguono i cicli della natura: acqua, vento, maree. Oppure sono talmente abbondanti che nessun consumo può spaventare. Il sole continuerà ad inviare la sua luce e le sue onde elettromagnetiche anche dopo che la Terra si sarà volatilizzata. Cosa che succederà, se nel frattempo non combiniamo disastri, tra non meno di  4 o 5 miliardi di anni.
Nel mondo l’80% dell’energia viene prodotta per il 35% con petrolio, per il 25% con carbone, per il 21% con gas, per il 10% con biomasse e per il 6,5% con energia nucleare, mentre l’idroelettrico e le nuove rinnovabili rappresentano appena rispettivamente il 2 e l’1%, pur essendo tuttavia in crescita costante nell’ultimo triennio.
Energia e cibo, i bisogni primari sui quali si basa l’attuale società che non cessa di pensare in termini di sviluppo. E questo sviluppo non può che essere supportato da risorse finanziarie.Cesec - Congo bambino soldatoFinito il tempo delle colonie, gli stati indipendenti sorti a partire dal 1948 quando non rimangono legati a doppio filo agli ex-coloni sono oggetto delle attenzioni di altri corteggiatori, che magari millantano ragioni umanitarie, di libertà dall’oppressione di tiranniche dittature, di investimenti per l’energia, la sanità, la cultura. Giusto di passaggio, non dimentichiamo la miriade di microconflitti, micro ma non per questo meno sanguinosi e feroci, che da oltre un cinquantennio affliggono l’Africa con il vero fine dell’accaparramento di legname e frutta pregiati, petrolio, uranio, coltan, oro, cadmio, diamanti… dobbiamo continuare l’elenco?

E’ innegabile che gli investimenti portano lavoro
… attraverso l’assunzione di manodopera locale ma, comunque si decida di chiamarla, la corsa alla terra comporta conseguenze che si ripercuotono sulla vita quotidiana delle comunità, influenzano gli equilibri geopolitici dei paesi e persino l’ecosistema.
Gli investimenti potrebbero essere un fatto positivo per le comunità rurali ma, come afferma Gisela Zunguze di Justiça ambiental, organizzazione non governativa mozambicana per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità locali: L’articolo 109 della costituzione mozambicana sancisce che l’uso della terra spetta al popolo e prevede che si svolgano tre consultazioni popolari per decidere le modalità di trasferimento della terra a un investitore privato. Ma le consultazioni non sempre avvengono come dovrebbero, perché non coinvolgono le comunità nel processo decisionale.

Pochi ma virtuosi
… per esempio il caso di Michele Sammartini, imprenditore italiano titolare di una grande azienda agricola in Mozambico, che accosta l’agricoltura industriale all’immagine di un’astronave che atterra in villaggi abituati ai ritmi lenti del modello di sussistenza, affermando come i progetti irrompano nelle tradizioni locali sconvolgendo la vita delle persone ma fornendo l’opportunità, in una visione illuminata, di portare qualcosa dando alle persone gli strumenti tecnici affinché un giorno possano farcela da soli. Un approccio non semplice e dagli effetti non immediati, che ha però permesso alla sua azienda di non venire mai contestata dalle popolazioni locali.

Ma gli anelli deboli nella catena degli investimenti…
… sono spesso i governi locali, che dovrebbero mediare tra le organizzazioni investitrici e la popolazione, limitando gli effetti negativi ed imponendo misure di controllo a tutela delle comunità locali. Ma ciò avviene raramente, e non è un caso se gran parte delle acquisizioni di terre è concentrato in Paesi che registrano indici di corruzione preoccupanti. E questo rischia di compromettere il valore dei progetti di investimento solidale. A meno che l’investimento non riponga parte della propria forza proprio in quell’atout.
Resta il fatto che, come sostiene la Banca Mondiale, nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di persone in più da sfamare, e per riuscire a soddisfare i loro bisogni sarà necessario aumentare del 70 per cento la produzione agricola globale. Un ragionamento che si sostanzia nello slogan feed the world, ripreso da colossi del settore alimentare come Monsanto e Cargill. Ma se la Fao rileva una crescita della domanda globale di alimenti dovuta all’aumento demografico, Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione spiega: è vero anche che oggi si produce una quantità di cibo sufficiente a sfamare 12 miliardi di persone, a fronte di una popolazione mondiale di 7 miliardi.
A mancare quindi non è il cibo ma una distribuzione efficiente e il reddito per accedere alle risorse. A parte gli sprechi denunciati da Vandana Shiva e dei quali anche noi abbiamo già parlato a suo tempo.
Intanto, in attesa di regole internazionali il land grabbing da parte delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo continua a devastare la terra africana mentre i prezzi dei prodotti alimentari salgono e la domanda di biocarburanti cresce.
E la finanza, anche quella che si autopromuove etica  non fa altro che investire in queste risorse. Ma noi crediamo che non possa farlo in modo etico finché il contesto è tutt’altro che etico. Come la mettiamo quindi? Quali sono pertanto le risorse sulle quali va ad investire? Ed in quale modo? Stiamo per assistere ad una nuova ondata di Pilgrim Financial Fathers che, armati di sola incrollabile fede ecosolidale andranno incontro ai Kalashnikov dei mercenari o, come si dice farisaicamente, contractors assoldati per difendere i privilegi delle multinazionali? Delle stesse multinazionali che loro stessi hanno sinora finanziato e delle quali possiedono pacchetti azionari rilevanti?

In attesa di un’eventuale risposta, che presumibilmente non giungerà mai, cambiamo argomento.
Non ci appare chiaro il progetto illustrato nelle scorse settimane dalla Uman Foundation di Giovanna Melandri, nota per avere affermato in un’intervista a Panorama: Lo prenderò da settembre-ottobre in riferimento allo stipendio in qualità di presidente del Maxxi, per mettere fine alle polemiche su una nomina considerata politica e senza la necessaria esperienza per gestire un museo, e specificando: Nell’ottobre 2012, quando ho accettato l’incarico, sapevo che il Maxxi era una fondazione e che in base alla legge Tremonti avrei prestato la mia opera gratuitamente. Legge sbagliatissima, me lo si lasci dire, perché la cultura ha bisogno di grandi manager, e questi vanno pagati (accatitipì://www.huffingtonpost.it/2013/07/27/giovanna-melandri-stipendio_n_3662698.html – Giovanna Melandri non lavorerà più gratis per il Maxxi. Arriva lo stipendio).”
L’ex ministro Pd ai beni culturali ha messo sul tavolo la proposta di un SIB, Social Impact Bond, per il reinserimento dei detenuti sul modello di quello lanciato dal governo britannico nel 2010, che consiste nel raccogliere capitali privati con i quali finanziare un percorso di avviamento al lavoro dopo l’uscita dal carcere. Viene dichiarato che il ritorno finanziario è proporzionale alla riduzione del tasso di recidività ma, escludendo interventi come quello della fatina dei dentini, pur con tutta la nostra buona volontà non siamo riusciti a capire come funzioni. Forse un giorno qualcuno ci illuminerà.
E per concludere in bellezza non ci resta che collocare in pista tra le new entry, ma più che altro old-entry rifatte, della finanza sostenibile anche l’ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, appellata il 13 maggio 2011 da Vittorio Malagutti su Il Fatto Quotidiano la manager con il buco intorno, in ragione della sua Securfin Holding che perse 11 milioni nel 2006, 112 milioni l’anno successivo, 45 nel 2008 ed altri 20 nel 2009, nonché famosa per essere scesa in corteo insieme ai milanesi per protestare contro la criminalità e gridando slogan contro il sindaco; essendosi accorta che era lei il sindaco prese ad inveire contro se stessa (accatitipì://www.nonciclopedia.wikia.com/wiki/Letizia_Moratti). Ovviamente la citiamo funzionalmente al rilancio della Fondazione San Patrignano, che com’è ben noto della solidarietà sociale ha fatto il proprio vessillo ben prima che il barone Karl von Drais inventasse quanto lo consegnò alla Storia, ed è praticamente in odore di santità: opererà ancora più all’insegna di un profilo etico e solidale.
E, dopo il caffè, torniamo al Forum per la finanza sostenibile, dove due esponenti di MainStreet Partners, boutique londinese indipendente di consulenza, hanno spiegato a Ceo di fondazioni non profit ed a private banker come strutturare un portafoglio ad alto impatto sociale e come coinvolgere anche la massa dei piccoli investitori – quelli che un tempo erano chiamati parco buoi – coniugando la ricerca di stabilità del portafoglio e di ottimizzazione del rapporto rischio/rendimento con considerazioni e obiettivi di carattere etico, sociale e ambientale. Giusto! ma dopo il caffè arriva il conto: saranno come sempre i piccoli investitori a pagarlo?
Ok, chiaro il concetto del land grabbing ma… e le vergini dai candidi manti di cui al titolo? Boh, fate voi.
Potremmo considerare concluso qui il nostro scritto ma, per dovere di completezza, parliamo brevissimamente di microcredito: almeno questa è un’esperienza positiva che ci consente di ritrovare il sorriso. Su questo fronte annoveriamo le attività di Fondazione Cariplo, il cui fondo di fondi Microfinanza 1 ha raccolto nel 2012 ben 84 milioni, e del consorzio Etimos, promotore di Etimos Global Microfinance Debt, fondo chiuso di debito che eroga mutui commerciali a istituzioni di microfinanza e cooperative di produzione.

Alberto C. Steiner