CESEC, Centro Studi Ecosostenibili: chi siamo

Per una volta parliamo di noi, spendendo solo poche parole. Anzitutto siamo una microstruttura, perché l’interlocutore abbia risposte immediate e certe direttamente da chi possiede le facoltà decisionali. Questo ci consente la massima efficacia.CC 2016.06.28 Chi siamoProgettiamo il recupero strutturale e funzionale di realtà territoriali dismesse e, più in particolare, in stato di pregiudizio finanziario: aziende agricole, terreni, edifici rurali, borghi abbandonati per riportarli a nuova vita impiantandovi attività agrosilvopastorali, di trasformazione agroalimentare, artigianali, ricettive, didattiche, residenziali attuate preferibilmente secondo la formula del cohousing. Crediamo nella comunità ma non nella comune.
Attenti al rispetto del territorio ed alle sue tradizioni, relativamente ai recuperi edilizi poniamo particolare cura nell’utilizzo di materiali locali e naturali quali, per esempio, paglia e terra cruda, calce e pozzolana, beole, carpenterie in legno ed infissi e serramenti certificati non trattati con agenti chimici.
Attenti all’impatto ambientale privilegiamo l’utilizzo di energie a bassa intensità e rinnovabili: fotovoltaica e idraulica, recupero delle acque piovane e riutilizzo di quelle domestiche, minimizzazione degli sprechi anche attraverso il riutilizzo dei rifiuti.
Ove possibile tendiamo a non installare impianti di riscaldamento, diversamente ci atteniamo alle specifiche note come KlimaHaus, fissate originariamente dalla Provincia di Bolzano con il DPGP 34 del 29 settembre 2004 e che fissano in Classe A un valore di fabbisogno energetico per riscaldare efficacemente per un anno la superficie di 1 m² ≤30 kWh/m²a (parametrate a 3 litri/m² di gasolio), e in Classe Gold ≤10 kWh/m²a (1 litro/m²).
Attenti alle istanze sociali tendiamo ad insediare, nelle strutture oggetto di recupero, quote residenziali e lavorative destinate a soggetti deboli o portatori di disagio sociale, non come attività caritativa bensì creando realtà in grado di autoalimentarsi finanziariamente.
Crediamo che l’ecosostenibilità e l’iniziativa privata possano sostenersi vicendevolmente e che siano anzi maggiormente efficaci senza etichette o sponsor politici; per tale ragione la nostra attività si sviluppa preferibilmente grazie al ricorso a risorse finanziarie private: business angels e investitori ai quali, nel medio periodo, siamo in grado di riconoscere remunerazioni adeguate.
La nostra esperienza lavorativa specifica data da oltre un ventennio e attraverso le nostre sedi operative di Milano e Verona siamo attivi nel Nord e Centro Italia.

Alberto C. Steiner

E il Maestro disse: in Real Estate we trust

Fu un’operazione immobiliare condotta magistralmente. La leggenda dice che grazie ad uno dei soci fondatori, di famiglia benestante, che monetizzò un prezioso dipinto presso Sotheby’s, fu possibile acquistare alla fine degli anni ’90 un vasto appezzamento di terreno sulle colline dell’entroterra romagnolo recuperando gli edifci e creando un centro di meditazione che aveva tutte le caratteristiche del resort di lusso: ristorante, pizzerie, lounge bar, discoteca, piscine. Oltre agli spazi dedicati alla meditazione beninteso.
Il lavoro svolto da volontari che, in cambio della propria opera godevano di vitto, alloggio, argent de poche ed accesso alle meditazioni contribuì a contenere i costi, i programmi interessanti e l’apertura del centro anche ad esterni mantennero alto il fatturato.CC 2016.02.17 in Real Estate we trust 001Oggi il complesso chiude: necessità strutturali alle quali non è possibile far fronte, insostenibilità dei costi, difficoltà di reperire woofers faranno sì che a primavera, in luogo della riapertura, verrà celebrata una festa di addio e il sito verrà definitivamente trasformato in un luogo di ricettività alberghiera con una quota di superficie pensata per una residenza in cohousing e per attività collaterali di stampo editoriale, formativo ed artigianale.
Mi dispiace. Perché era un posto bellissimo e perché uno dei fondatori mi piaceva molto: era un vero e proprio zanza, un furbacchione come si dice a Milano, ma sincero. Con i suoi baffetti da sparviero ed il suo sguardo da tombeur de femmes ti diceva che ti stava fregando, e te lo diceva con chiarezza. Stava a te decidere se credere o meno a ciò che lui si divertiva a proporre, compresi i costosissimi corsi della light impulsive university of love che si era inventato, riconosciuta da se stessa e, si vabbè, dal solito Sicool e da Conacreis….
Tra la fine del 2015 e l’inizio di questo 2016 circostanze legate alla mia professione mi hanno condotto ad interessarmi di immobili circostanti i più affermati centri di meditazione della Penisola: sino a non molti anni fa c’era la corsa all’accaparramento di case vicine allo spirito ed all’energia del Maestro, chiunque egli fosse.
Non infrequentemente il maestro in questione, previdente e – oh poppacco, illuminato! – aveva fatto incetta di edifici e terreni, normalmente rurali, vicini al centro. Spesso veri e propri ruderi ma i cui prezzi subivano un’impennata grazie alle richieste ed agli scambi tra adepti. Ristrutturazione e arredamento erano spesso pilotati attraverso imprese di altri confratelli, sodali, correligionari o come li vogliamo chiamare. E il bisnèss era assicurato, portando non infrequentemente benefici anche all’indotto degli immobili e delle attività sul territorio, quelle gestite da coloro che i meditazionisti militanti definiscono i normali.
Oggi, come cantava Battisti, tutto questo non c’è più: gli scambi immobiliari languono, nessuno riesce a vendere immobili spesso infognati in boschi privi di servizi e comode vie d’accesso. E quindi ciao.CC 2016.02.17 in Real Estate we trust 002Mi limito ad enumerare i casi della cittadella di Cisternino, l’ashram aperto negli anni Settanta da Lisetta Carmi in valle d’Itria, nel nome del maestro Babaji che in India l’aveva fulminata: “Ci occorrono mano d’opera, risorse economiche. Benvenuto chiunque voglia aiutare per le ristrutturazioni e con donazioni in denaro” dichiarava nel febbraio 2015 alla Gazzetta del Mezzogiorno.
O quello della comunità di Damanhur, a Baldissero Canavese: deceduto il fondatore e dominus sta facendo la fine della Jugoslavia del dopo Tito.
O il villaggio Hare Krishna di Medolago, nella Bassa Bergamasca, per non parlare di Ananda, il centro vicino Assisi creato dai seguaci di Paramahansa Yogananda.
O il centro di Osho a Miasto, o l’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia, per finire con l’Albagnano Healing Meditation fondato nel 1999 dal Lama tibetano Gangchen Rinpoche, affacciato sul Lago Maggiore in provincia di Verbania.CC 2016.02.17 in Real Estate we trust 003Anche in ambito urbano si assisteva, sino a non molti anni fa, al fenomeno di chi acquistava casa in prossimità del centro di meditazione: a Milano presso due centri di Osho, a Firenze gravitando attorno ad una delegazione della comunità di Damanhur, a Roma nei pressi di numerose congreghe.
Intendiamoci: il fenomeno era presente anche a San Giovanni Rotondo o alla Verna, per citare solo due fra i maggiori luoghi di aggregazione della fede cattolica.
Le motivazioni sono diverse, ciascuna connotata da un’impronta personale, e non sta a me fare sociologia d’accatto. Io mi limito ad evidenziare un fenomeno immobiliare e, lo ammetto, non senza un lieve sorrisino sardonico.
Ma le mie considerazioni personali sono fatti miei. Per quanto mi consta, in questo ambito ho progettato con successo, alcuni anni fa, la ristrutturazione finanziaria ed immobiliare di un complesso mistico sciamanico in provincia di Verona che stava andando alla malora in ragione delle manie di grandezza delle titolari; ho sudato le proverbiali sette camicie per ottenere mille euro di fondo spese in luogo delle diecimila che a chiunque altro avrei fatturato per il progetto di recupero di un centro milanese: ma i suoi promotori erano convinti che cemento, infissi, scossaline ed oneri di urbanizzazione potessero essere pagati attraverso l’infusione dello spirito del Maestro ed ovviamente non si è combinato nulla; ho proposto il recupero di un appezzamento nell’Alessandrino e fui guardato con malcelato disprezzo quando spiegai che intendevo solo svolgere il mio ruolo di progfessionista ma non partecipare: è stato bello, teniamoci in contatto, chiamo io. Queste tre esperienze mi sono state sufficienti.
Un caso a parte, assolutamente controcorrente proprio perché non promana dall’energia mistica od estatica di qualche guru bensì dall’unione di risorse laiche in un ambito olistico marcato da profonda professionalità, si trova in provincia di Piacenza: ecovillaggio, cohousing, centro di formazione senza la pretesa di fornire lauree od attestati di dubbia efficacia, complesso agrituristico di notevole qualità, vasto appezzamento coltivato all’insegna della concretezza e della cultura del lavoro. E questo è quanto. Peace&love.

Alberto C. Steiner

Ecososteniblità dell’anima: servono ingegneri per progettare sogni

Ha scritto Franco Arminio, nel suo Geografia commossa dell’Italia interna: “Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.
Attenzione a chi cade, attenzione al sole che nasce e che muore, attenzione ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.”CC 2014.04.30 Rinascere 001Questa frase mi ha indotto a rileggere l’articolo Solo attraverso profondi cambiamenti individuali il nostro Paese potrà rinascere, che pubblicai il 30 aprile 2014 su queste pagine (visionabile qui) poiché riconsiderandolo alla luce di mutamenti che non avvengono, di iniziative delle quali tanto si parla ma che sono costantemente al palo e di quella truffaldina bruttura dell’Expo 2015 mi è parso più che mai di viva attualità.
L’articolo nacque sulla scia di interessanti scritti pubblicati in quel periodo dal sito partner Consulenza Finanziaria argomentando di competitività estera e di malcostume delle aziende nostrane, oltre che di gestione del credito bancario.
Oggi più che mai il mondo, visto dal nostro Paese, appare immenso e pauroso perché i suoi equilibri stanno mutando ad una velocità inaudita, e nello scenario sono entrati di prepotenza nuovi protagonisti ben più grandi di noi, alterando antichi equilibri e stravolgendo gerarchie di potere che si credevano consolidate.
Questioni mai incontrate prima chiedono una soluzione, ma le opportunità di cambiamento vengono percepite come pericoli.
È già accaduto: per provincialismo, miopia e furbizia, quando non malafede, degli attori politici ed imprenditoriali nostrani l’Italia è arrivata impreparata alle grandi svolte, perdendo tempo prezioso. Ed anche oggi, se non saremo pronti ad intuire gli scenari del futuro, se non sapremo valutare la direzione del cambiamento nelle tendenze di lungo periodo, rischieremo di prendere una volta di più le decisioni sbagliate. Pagandole a caro prezzo.
Basti pensare che invasione è il termine più usato dagli attuali predicatori dell’Apocalisse: invasione di immigrati clandestini, di prodotti cinesi, di capitali stranieri che ci colonizzano. E non ci accorgiamo che tutto ciò che temiamo è in realtà già accaduto.
Intendiamoci: di fronte ad ogni cambiamento la paura è legittima perché le grandi novità spaventano, possono nascondere delle incognite ed il riflesso automatico ingenera un meccanismo di difesa. Oppure nega il cambiamento.
Per comprendere qualsiasi accadimento attribuendogli l’esatta misura è indispensabile non solo mutare prospettiva, ma anche osservare con distacco come l’oggetto delle nostre attenzioni risuoni dentro di noi comprendendo quali nodi da sciogliere e persino quali antiche ferite faccia vibrare. Solo così è possibile identificare la natura dei presunti pericoli che ci minacciano, stabilire se il modo per difenderci sia l’attacco – che non sempre è la miglior difesa – oppure il lasciarci morbidamente andare, per vincere la sfida senza accontentarci semplicemente di limitare i danni. Vale a dire per vivere piuttosto che accontentarci di sopravvivere.
Esistono anche da noi imprenditori illuminati: sono quelli che spesso non fanno notizia e che insieme con i più attenti osservatori possono tentare di rispondere con sano pragmatismo alle domande offrendo punti di vista nuovi e proprio per questo rivoluzionari.
Ma le scelte da fare non riguardano solo governi, classi imprenditoriali e dirigenti bensì primariamente la vita quotidiana di tutti noi: nel segno di un’Energia nuova e pulita sono tante le riforme dal basso che ciascuno di noi può avviare da subito, e costituiscono un antidoto alla lagnanza, alla rassegnazione, al senso di impotenza che non è mai nelle cose ma dentro di noi. Sono quell’impotenza, quella rassegnazione che respiriamo oggi in Italia nell’attesa sempre delusa di grandi cambiamenti, svolte, catarsi collettive, rinascite nazionali. Che dovrebbe essere sempre qualcun altro ad attuare.
Siamo invece noi che con maturata consapevolezza, impegno civile, consumi responsabili, dobbiamo incamminarci alla ricerca del nostro destino per costruire il nostro futuro. Detto in altri termini: è solo attraverso una profonda revisione dei nostri modelli produttivi, di consumo, sociali, interiori che possiamo agire per scuotere i sistemi politico e produttivo.
Ma se continuiamo a lamentarci attribuendo a chicchessia la responsabilità dei nostri fallimenti e del nostro non andare avanti, non solo resteremo al palo, ma inevitabilmente ci attende una regressione: economica, sociale, delle coscienze, intellettiva.Cesec-CondiVivere-2014.10.07-Medioevo-prossimo-venturoNon ci sono alternative: o ci risvegliamo dal sonno aprendoci ad un nuovo approccio alla qualità della vita, che presupponga un mondo nel quale il punto di riferimento non sia più il pil bensì la decrescita più o meno felice, o siamo dei morti che vagano in paesi dei balocchi, in realtà cimiteri alla portata di chiunque abbia occhi per vedere e cuore per sentire: autobus e metropolitane, centri commerciali, installazioni pseudoculturali di plastica.
Si dice che un intento individuale e decentrato non possa nulla ma non è affatto vero: dai gesti che ciascuno di noi compie ogni giorno possono nascere gli innumerevoli stimoli destinati a mutare il gradiente energetico in grado di sospingere il nostro Paese, e le nostre anime, verso l’ormai indifferibile cambiamento.Cesec-CondiVivere 2014.10.17 Appennino modenese vista suggestivaAltrimenti ci attende quello che da anni chiamo il medioevo prossimo venturo, che non considero una calamità ma un’opportunità ed al quale mi sto felicemente preparando attraverso la progettazione ecosostenibile di luoghi destinati ad accogliere piccole comunità il più possibile autosufficienti.

Alberto C. Steiner

Hortus Urbis. Ma anche su terrazzi e balconi è boom.

Saranno anche grossolane, le incubatrici del nostro orto sul terrazzo, ma intanto da novembre ad oggi l’insalata è al quinto taglio. Ed ora abbiamo messo a dimora fragole, aromatiche, piselli e pomodori.Cesec-CondiVivere 2015.03.24 Orti urbani 002A quanto pare siamo nella media, perché sembra che sia il momento dell’orto. Secondo un’indagine condotta da Coldiretti e Censis il 46 per cento degli italiani accudisce spazi verdi nei giardini e su terrazzi e balconi. Lo fanno perché desiderano mangiare prodotti sani e genuini, per passione e per risparmiare.
Parlo quindi nuovamente di orto urbano, un mezzo piacevole e visibile per permettere la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, attuato grazie a scelte urbanistiche che vincolano suoli altrimenti destinati a cadere o nelle mani della speculazione edilizia o nel nulla contribuendo al degrado del paesaggio.
Per creare un orto urbano basta poco, e non servono progetti di archistar vere o presunte, come quello attuato a Firenze dove Comune e Coldiretti hanno firmato uno scenografico Community Garden nella zona di Borgo Pitti, in pieno centro della città. Per creare un orto servono la vanga e la camicia bagnata di sudore sulla schiena, non il CAd o il rendering.Cesec-CondiVivere 2015.03.24 Orti urbani 001Non dimentichiamo che nel nostro passato c’erano gli orti di guerra: spazi urbani accuditi dai cittadini e privi di qualsiasi delimitazione, recinzione o lucchetto.
L’orto privato assomma l’attenzione alla qualità del cibo, per intenderci quella che orienta buona parte delle scelte per la spesa, cura per l’ambiente attraverso un riappropriarsi di spazi altrimenti inoperosi e suscettibili di degrado ambientale e sociale, la riduzione dei costi di approvvigionamento alimentare e la soddisfazione dell’autoproduzione.
Anche il fisco è favorevole: grazie agli incentivi fiscali che possono arrivare al 65% di detrazione Irpef, i cittadini che devono ristrutturare il terrazzo possono optare per il giardino pensile: ambiente migliore, isolamento termico naturale e minori infiltrazioni di acqua piovana e possibilità di servire in tavola frutta e verdura prodotte in casa.
Se in anni recenti l’orto individuale ha segnato un salto di qualità, da hobby di una minoranza a stile di vita sempre più diffuso, l’orto urbano costituisce una vera e propria rivoluzione verde che nasce al confine tra le decisioni pubbliche e le azioni private. Dati in affidamento gratuito o in comodato ad associazioni o gruppi di cittadini, o addirittura acquistati attraverso lo strumento del GAT, Gruppo Acquisto Terreni, si sono triplicati nell’ultim biennio passando da una superficie complessiva di 1,1 milioni di metri quadrati a 3,3 milioni. Un boom favorito dai bandi dei comuni, per dovere di cronaca emessi nell’81 per cento dei casi nel Centro-Nord, e da un’idea più evoluta, concreta e meno ideologica della cittadinanza attiva. Se a Roma sono stati censiti ben 150 appezzamenti, a Bologna un bando per l’assegnazione di 108 piccoli lotti di terreno di proprietà comunale ha visto candidarsi oltre duemila famiglie.Cesec-CondiVivere 2015.03.24 Orti urbani 003Non trascurabile, inoltre, il fatto che gli spazi dell’orto urbano non vengono sottratti solo all’incuria, ma anche al controllo della microcriminalità che spesso li utilizza per spaccio ed altre attività illecite, costituendo una forma morbida di controllo del territorio.
Tornati ad essere luoghi della comunità gli orti cittadini possono addirittura diventare strumenti di politica urbanistica: modificano l’aspetto del territorio e la stessa geografia urbana, e ove adeguatamente curati contribuiscono ad attenuare l’effetto di squallore che siamo abituati a percepire approssimandoci ai grandi centri urbani, in treno o in autostrada.
Gli orti urbani costituiscono inoltre una potenziale leva per creare lavoro in uno dei pochi settori, appunto l’agricoltura, dove il trend dell’occupazione in Italia è decisamente di segno positivo.
E poi c’è l’adozione di aree verdi, parti di giardini che vengono curati dai privati anche attraverso sponsorizzazioni, con un doppio vantaggio per le amministrazioni comunali: risparmio sui costi per la manutenzione del verde e certezza di protezione del territorio. Padova e Casale Monferrato hanno deciso di ringraziare i cittadini che si occupano a proprie spese di giardini pubblici o alberi di strada con uno sconto sulla tassa per i rifiuti.
E per avere la certezza che non costituiscano solo un diletto ecochic, basta pensare che ai tavoli del breakfast del Waldorf Astoria, albergo sito in uno degli edifici-simbolo di New York, ogni mattina si serve il miele fatto in casa, ovvero sul tetto, grazie a una delibera municipale che ha ammesso l’apicoltura urbana. Sempre a New York i tetti dei grattacieli di grandi società o di istituzioni pubbliche, dalla Bank of America al Whitney Museum of Art, sono diventati orti.Cesec-CondiVivere 2015.03.24 Orti urbani 004E nelle scuole, perché no? Li chiamano Orti in Condotta, MiColtivo, Ortogonale: di fatto nelle scuole italiane si sta sperimento questo strumento di didattica ambientale. Scorrendo la lista degli orti scolastici che fanno capo al movimento Slow Food se ne contano 500, alcuni dei quali contribuiscono a coprire una parte delle forniture per la mensa, ed altri che arrivano a coltivare addirittura sette ettari, come la Principe di Piemonte a Roma.

Alberto C. Steiner

Medioevo prossimo venturo? È già arrivato

Partiamo da una premessa dal sapore filosofico anche se, argomentando di sopravvivenza, c’è ben poco spazio per la filosofia: la filosofia va bene quando si ha la pancia piena e a noi piace il fare, non le chiacchiere.Cesec-CondiVivere 2015.03.20 Medioevo prossimo venturo 001Come nel Medioevo, vediamo i primi segni di incastellamento: luoghi sicuri cinti da mura, nella versione moderna con portineria, sensori anti-intrusione e telecamere, villette circondate da mura (a quando il fossato con i coccodrilli?), pubblicizzate come luogo di assoluta tranquillita’ e sicurezza, luoghi in realtà niente affatto inespugnabili sorti in ossequio ad una mentalita’ chiusa che ha sviluppato il marketing della paura, chiusi come prigioni, ma in realtà solo prigioni dell’anima.
Quello che da tempo andiamo propugnando non è un concetto di isolamento, bensì di comunità, e niente affatto chiusa o isolata. Semplicemente una comunità dove le menti ed i cuori non sono stati messi all’ammasso. Comunità orgogliose della propria identità, libere dalla paura, aperte a chiunque nell’ambito del reciproco rispetto, pensate per essere libere dai condizionamenti mediatici, i cui abitanti amano se stessi e quindi il mondo.
Sembra che sia destino di ogni cultura umana seguire un percorso ciclico, da una fase iniziale di novità, espansiva e innovativa, ad una fase di assestamento per poi giungere alla fase terminale di disgregazione, arroccamento su idee ormai svuotate del contenuto, chiusura verso il mondo, individualismo, solo più un fantasma, parodia di se stesso, destinato ineluttabilmente a crollare, spazzato via come un fragile gigante di argilla.Cesec-CondiVivere 2015.03.20 Medioevo prossimo venturo 002Prendiamo per esempio il caso italiano: in soli quattro lustri, il cosiddetto governo è diventato la parodia di se stesso, arroccato contro un nemico esterno che non è mai esistito ma solo creato ad arte per distogliere l’attenzione, contro un fantomatico partito eversivo dei magistrati, contro quei comunisti che sono in realtà, come sempre sono stati, solo scarti di sacrestia.
Le frasi d’ordine ripetute incessantemente come dei mantra sono: “Non si puo’ contraddire la volontà popolare”, come se quella massa ormai amorfa e istupidita chiamata popolo fosse in grado di esprimere un parere autonomo, ma questa è la truffa mistificatrice di tutte le cosiddette democrazie… Altra frase topica: “Bisogna pensare a lavorare”, e infatti oggi un giovane su cinque è disoccupato…, e per finire: “Bisogna fare le riforme”.
Nel Medioevo il sovrano era investito della sovranita’ in quanto eletto da dio, ovvero incoronato dal suo rappresentante in terra, il papa. Ma oggi, dove il valore alto della cultura non è certamente un dio sia pure in versione trascendente, bensì il Popolo, ecco che l’investitura ovvero il voto degli elettori assume la stessa valenza simbolica.
Ma in una piccola comunità questo voto non serve a delegare, ma solo a stabilire chi gode della fiducia e si assume una responsabilità. In altre parole chi fa che cosa, sotto il diretto controllo degli altri membri della comunità stessa, a loro volta singolarmente responsabili di un aspetto della vita sociale. Incapaci o truffaldini non verrebbero puniti semplicemente non rinnovando loro la fiducia ma verrebbero estromessi dalla comunità, senza trascurare la rifusione del danno. Legge tribale? E perché no?
Ferma restando la massima libertà, il libero arbitrio responsabile di ciascun individuo, in ossequio alla nota massima di Aleister Crowley: “Fai ciò che vuoi sarà tutta la legge” con il corollario spesso volutamente dimenticato: “Amore è la legge, amore sotto la volontà”.
Quindi, non solo il sovrano non è infallibile, ma spesso – almeno dalle nostre parti – è nudo. E, sempre dalle nostre parti, vige il concetto della massima libertà. Ma libertà non significa affatto lassismo, permessivismo, fa cio’ che vuoi, né tantomeno Peace&Love a prescindere.

ACS

Segni particolari: Cohouser

Il cohousing è la storia di un’utopia diventata realtà. Ha a che fare con il vivere insieme condividendo spazi e servizi con i vicini di casa: lavanderia e stireria, ludoteca, biblioteca, orto, giardino, palestra, mezzi di trasporto e chi più ne ha più ne metta pur mantenendo la dimensione privata nel proprio appartamento.Cesec-CondiVivere 2014.11.21 Identikit Cohouser 001L’idea non è così nuova per chi ha vissuto la ventata degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, ma le neotribù attuali non sono certamente formate né da nipoti dei Figli dei Fiori né da idealisti newage che praticano comunione dei beni, amore libero con chitarre e cannoni, piuttosto da un panorama eterogeneo di single giovani e meno giovani, coppie senza figli e famiglie più o meno numerose, anziani in cerca di socialità.
E non si chiamano più comune o casa collettiva ma Cohousing, che sta a significare, per l’appunto, abitare insieme in modo organizzato, vivendo in edifici pensati o recuperati per più nuclei, scegliendosi i vicini di casa.Cesec-CondiVivere 2014.11.21 Identikit Cohouser 002Si abbattono i costi fissi di alcune aree perché uso e proprietà sono ripartiti su più persone, la convivenza intergenerazionale è facilitata e sono favoriti gli scambi di vicinato.
Altro valore forte il basso impatto: gli edifici sono pensati per consumare poco o addirittura pochissimo attraverso tecniche costruttive o ricostruttive che vanno sotto la denominazione di casa clima, casa passiva, bioarchitettura.
Abitare in cohousing vuol dire molte cose, una in particolare: ritrovarsi tra persone interessate a un modo comune di concepire la vita a partire dalla dimensione quotidiana; ogni gruppo fa storia a sè e il percorso intrapreso è sempre su misura.
Il cohousing è spesso anche ecovillaggio, e tante sono le ragioni per viverci, e non certamente protesta verso il sistema, sogno romantico, utopia ma, più semplicemente, una scelta razionale motivata a dare priorità nella propria vita ad aspetti quali il senso di comunità, l’ecologia, una dimensione più spirituale.
L’idea non è né recente né innovativa trattandosi della naturale evoluzione del villaggio tradizionale, dove l’essere umano durante gran parte della sua storia ha vissuto in armonia con la natura, non consapevolmente ma in quanto ciò rappresentava l’unica possibilità. L’ecovillaggio odierno è una comunità intenzionale di persone pienamente consapevoli di vivere remando in direzione contraria alla spinta degli ultimi bagliori della società consumista e indifferente alla violenza perpetrata nei confronti della Natura. Il sentimento di appartenenza ad una comunità viene da lontano, è innato nella natura umana. Per certi aspetti, non ci stancheremo mai di dirlo, gli abitanti di un ecovillaggio si preparano ad affrontare il medioevo prossimo venturo.Cesec-CondiVivere 2014.11.21 Identikit Cohouser 004La tecnologia, l’organizzazione sociale, la nascita delle metropoli, la corsa verso il successo individuale han dato l’illusione che il nuovo essere umano non avesse più bisogno dell’appoggio di una comunità, creando la spinta verso una vita sempre più individualista e solitaria. Evoluzione ben rappresentata dall’anonimo palazzone cittadino, dove un numero svariato di vite sono rinchiuse tra queste mura, cercando una nicchia di intimità dietro spesse porte blindate di appartamenti tutti uguali, ignorando completamente l’esistenza di vicini sovente visti solo come una molestia. La vita di comunità è l’opposto, è il compromesso di vivere in un gruppo, di solito non troppo numeroso in modo che tutti i membri si conoscano personalmente.
Alcuni ecovillaggi praticano la comunione dei beni, ma la vera essenza di comunità, più che nell’ottimizzazione dei beni materiali che ovviamente è ricercata, è esaltata nell’appoggio reciproco.
Un gruppo su cui contare vuol dire migliorare la qualità di vita, per esempio attraverso la cura condivisa dei bambini, la possibilità di facilitare e rendere più attraenti lavori comunitari, la creazioni di posti di lavoro all’interno della comunità. Inoltre la vita comunitaria è un costante stimolo alla crescita personale, poiché persone a stretto contatto quotidiano sono obbligate a confrontarsi su scelte in comune, a discutere, a parlare apertamente dei problemi che invariabilmente sorgono e questo migliora la comunicazione con gli altri e con se stessi ed aiuta a vedere con più chiarezza il nostro misterioso mondo inconscio. L’armonia della vita comunitaria si ripercuote conseguentemente nella cura dell’ambiente circostante. La concezione di tutela ambientale si attua prevalentemente tentando di produrre la maggior parte del cibo che si consuma, coltivando orti vicino alle case, affidandosi a energie rinnovabili, riducendo i consumi e limitando l’utilizzo delle automobili.
Pensiamo solo ai bambini, che in un ecovillaggio possono trascorrere le giornate scorrazzando per strade prive di auto, giocando nei giardini comuni, senza necessità della miriade di giochi che popolano la vita dei bambini cresciuti negli appartamenti.
Infine la spiritualità, che racchiude aspetti controversi in quanto storicamente fraintesa con la religione. La spiritualità è ben altro: accompagna in modo naturale il rallentamento dei ritmi e il contatto con la natura, poiché il materialismo non è sufficiente a saziare l’innata curiosità dell’essere umano.Cesec-CondiVivere 2014.11.21 Identikit Cohouser 003Il movimento degli ecovillaggi, infine, si associa spesso ad altri movimenti quali la permacultura o la decrescita, termini che in tanta gente evocano scenari di ristrettezze, di ritorno all’età della pietra e di rinuncia. Nulla di tutto ciò, significa semplicemente ricercare il benessere attraverso forme che prediligono l’armonia con la natura e l’ambiente, senza escludere il ricorso a risorse tecnologiche, a condizione che non siano impattanti o invasive.

Alberto C. Steiner

EVA, un tripudio di profumi e colori dorati

Ottobre, nella Conca Aquilana, è il mese dello zafferano: uno strepitoso spettacolo di colori, odori, sapori, ed ora anche di saperi manuali attraverso il recupero della conoscenza che molti anziani hanno messo a disposizione.
Accade a EVA, l’Eco Villaggio Autocostruito dai cittadini di Pescomaggiore dopo il terremoto, stanchi di ascoltare chiacchiere ed aspettare aiuti che non arrivano. Con l’antichissima tecnica della terra cruda, del legno e della paglia che ci vede sostenitori hanno dato vita ad un esempio civico senza precedenti, utilizzando le risorse presenti sul territorio per autocostruirsi le abitazioni grazie alla loro buona volontà, ma anche a volontari che arrivano da altre parti d’Italia e d’Europa vivendo un’esperienza umana che cambierà loro per sempre la vita.Cesec-CondiVivere 2014.10.26 EVA Abruzzo 005Cesec-CondiVivere 2014.10.26 EVA Abruzzo 002Cesec-CondiVivere 2014.10.26 EVA Abruzzo 004Cesec-CondiVivere 2014.10.26 EVA Abruzzo 003Cesec-CondiVivere 2014.10.26 EVA Abruzzo 001Proponiamo qui una piccola galleria fotografica, tratta dalla pagina Facebook di EVA, come premessa ad un articolo che stiamo preparando avvalendoci anche delle conoscenze di Andrea Bertaglio, autore di Generazione decrescente edito da L’età dell’acquario, ed esperto che ha lavorato in Germania presso il Centre on Sustainable Consumption and Production, nato dalla collaborazione tra Wuppertal Institut für Klima, Umwelt, Energie e Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente.

ACS

Progettare cohousing con uno sguardo all’eremo di Camaldoli

Far rivivere il territorio realizzando nuclei abitativi in cohousing ottenuti recuperando alcuni dei tanti borghi disabitati che abbondano nel nostro Paese. Intento ambizioso ma non utopistico, specialmente se attuato secondo i canoni della bioedilizia, con progettazione condivisa, utilizzo di fonti energetiche a basso impatto e terreno circostante coltivato con metodi non invasivi per garantire nella maggior misura possibile l’autosostentamento della comunità che vi si insedierà.
Ed è importante che uno spazio sia dedicato al recupero di saperi e sapori per onorare la memoria del luogo: trasformazione agroalimentare sostanziata dalla produzione di miele, vino, erbe aromatiche ed officinali, conserve, attività artigianali e via enumerando. In sostanza, quello che fa parte della cultura e della storia locale.
Naturalmente faccio in modo che in questi borghi riportati a nuova vita trovino collocazione attività legate al benessere fisico e spirituale in sintonia con gli studi e le esperienze che mi caratterizzano.Cesec-CondiVivere 2014.10.24 Eremo Camaldoli 006Oggi dedico un breve profilo all’Eremo di Camaldoli, che più di ogni altro luogo consimile ispira proprio per la sua comunione con la Natura. Lungi da me l’idea di tediare con pistolotti storiografici o mistici: per quelli ci si può avvalere della notevole messe di notizie reperibili in rete.
Intendo qui solamente celebrare quel fazzoletto di terra nascosto sui più alti versanti  dell’Appennino  Casentinese, nel cuore dell’Appennino Tosco-Romagnolo, dove aleggiano misteri e leggende incentrate sulla figura di san Romualdo, fondatore dell’ordine dei Camaldolesi, il cui nome pare derivi da un nobile aretino, Maldolo, che nel 1012 donò le terre sulle quali venne fondato l’Eremo.
Il primo nucleo, posto ad oltre 1.000 metri di altitudine, fu costituito da un oratorio con cinque celle, affiancato successivamente da una piccola costruzione in località Fonte Buono, in posizione meno solitaria e più facilmente raggiungibile, finalizzata ad accogliere ospiti  e pellegrini.  Il monastero che conosciamo nella sua forma attuale venne invece realizzato nel XVI secolo.Cesec-CondiVivere 2014.10.24 Eremo Camaldoli 005L’aspetto che ritengo preminente riguarda la sorte della foresta circostante, legata in maniera indissolubile a quella dell’Eremo: più questo si ingrandiva più aumentavano le donazioni di terre poiché i monaci si prodigavano alacremente per  la  cura  e  il   governo  del bosco, sostituendo alle essenze miste di faggio e abete piantagioni pure di Abete  bianco. Le rigidissime regole silvicolturali alle quali i monaci dovevano attenersi prescrivevano abbattimenti estremamente limitati e continuo rimboschimento con abete bianco.
Nacque così il nucleo forestale, quasi mille anni dopo diventato la Riserva Biogenetica di Camaldoli, nell’ambito del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, estesa dall’Eremo sino alla Foresta della Lama in territorio romagnolo e gestita dal Corpo Forestale dello Stato; la Riserva è importante anche sotto il profilo faunistico, ospitando cervi, daini, caprioli, cinghiali, lupi, scoiattoli e ghiri oltre a numerosi volatili: picchio maggiore, cincia, allocco, poiana, falco, mentre nelle aree umide si sono insediati anfibi quali il tritone e la salamandra.Cesec-CondiVivere 2014.10.24 Eremo Camaldoli 003Colpiscono, giungendo a Camaldoli da Arezzo o da Bagno di Romagna seguendo la statale del Passo dei Mandrioli, un monumentale cedro del Libano alto 24 metri e del diametro superiore al metro e mezzo, ed il castagno Miraglia dalla circonferenza di oltre dieci metri. Da Camaldoli una piccola strada asfaltata attraversa la foresta e giunge fino all’Eremo.Cesec-CondiVivere 2014.10.24 Eremo Camaldoli 001La realtà monastica costituisce ancor oggi un ponte fra l’antica tradizione dell’Oriente cristiano e la mistica occidentale che si riconosce nella Regola di San Benedetto, coniugando altresì la dimensione comunitaria e quella solitaria della vita del monaco, espresse rispettivamente nel Monastero e nell’Eremo, costituenti un’unica comunità. L’Eremo è oggi luogo privilegiato di incontro nel dialogo ecumenico e interreligioso, aperto a uomini e donne,dedicato alla ricerca interiore, alla spiritualità nonché all’elaborazione culturale ed all’impegno civile attraverso uno stile di vita improntato alla sobrietà.
L’antica cella del fondatore Romualdo, l’unica visitabile ed oggi inglobata nella biblioteca, evidenzia internamente la struttura tipica della cella eremitica: un corridoio che si snoda su tre lati, custodendo al suo interno gli spazi di vita del monaco, la stanza da letto, lo studio, la cappella. Questa struttura a chiocciola, oltre ad offrire riparo dalle rigide temperature invernali, simboleggia il percorso interiore del monaco che tende a recuperare il proprio Sé interiore.Cesec-CondiVivere 2014,10.24 Eremo Camaldoli 004Non è necessario tendere alle grandi opere: per cominciare è sufficiente piantare un albero. Contribuisce alla salvezza del pianeta ed arricchisce e migliora l’ambiente in cui viviamo infondendogli bellezza, non trascurando il fatto che la superficie fogliare di una latifoglia corrisponde a 6/8 volte la proiezione a terra, mentre per le conifere è 15/20, e genera ossigeno, assorbe pulviscolo e particelle inquinanti, fissa carbonio.
Un albero produce inoltre circa 30 kg annui di ossigeno, dodici alberi coprono il fabbisogno annuo di ossigeno di un essere umano adulto, esattamente pari alla quantità di ossigeno consumata da un’auto per percorrere 100 km. Un albero è fatto di legno, e un metro cubo di legno fissa sino a 300 kg di carbonio. Un ettaro di bosco, 10.000 metri quadri, fissa pertanto sino a 10 quintali di polveri annue ed immagazzina sino a 4 tonnellate di carbonio.

ACS

Chi sostiene la finanza sostenibile

Sfarfallano come foglie d’autunno gli inviti a partecipare alla kermesse della finanza sostenibile, che avrà luogo dal 4 al 12 novembre aprendosi a Roma e serpeggiando in varie lochescion itineranti per concludersi nella cornice di Palazzo Mezzanotte a Milano, sede della Borsa. Non male come epilogo per una finanza che vuole indossare il vestitino sostenibile…Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Io odio la finanza sostenibileQuest’anno non ci andrò. Abbiamo già dato, l’anno scorso. E le ragioni per cui non intendo fare da claque all’evento le scrissi nell’articolo intitolato Onoriamo il Lupo, per noi è un animale veramente Sacro. Soprattutto se parliamo di finanza, pubblicato il 7 novembre 2013 in questo Blog, al quale rimando chi volesse approfondire.
Rileggendolo l’ho trovato addirittura più attuale oggi rispetto ad un anno fa, e prima di passare oltre ne riprendo un breve periodo:
Abbiamo visto quello che dovevamo vedere, detto quello che dovevamo dire ma soprattutto annusato un odore che avremmo preferito non sentire.
Non ci sono piaciuti i toni paludati, saccenti, supponenti. Non ci sono piaciuti i sorrisi a 96 denti splendenti d’acciaio su tre file. Non ci è piaciuto il tono da accademici illuminati, tanto per cambiare da guru della finanza, questa volta eticobiobau.
Non siamo in grado di stabilire se e in quale misura siamo finanziariamente etici e sostenibili, secondo quelli che sono diventati i parametri ufficiali. Dei quali, sinceramente, non ci frega il classico beneamato cazzo perché sono artefatti, e possiamo dimostrarlo. Ma per quanto attiene al nostro piccolo mondo di Amélie dove ci piace vivere abbiamo ancora una volta dimostrato a noi stessi di avere gli attributi e di non essere in vendita. E nemmeno in fistfactoring o in fuckleasing.
Però di una cosa, che avevamo dapprima compreso o se preferite sentito, siamo certi: la finanza, quella vera, quella con i denti a sciabola, si è appropriata dell’ecosostenibilità, della sostenibilità e della solidarietà, con la complicità di coloro che preferiscono usare il termine collettivo al posto di pubblico e nelle retrovie stanno scaldando i motori delle loro Kooperativistiche und Onlusaistische Panzer Divisionen
Indossando il vestitino etico e solidale si sta preparando l’ennesimo atto sodomitico ai danni dei risparmiatori. Non stiamo farneticando: alcune cooperative edilizie che promettevano comunità residenziali in cohousing in autocostruzione lo hanno già dimostrato. Una per tutte: Alisei.
Abbiamo fatto ciò che era nostro dovere fare affinché non rimanessero margini di dubbio circa la supposta (appunto) eticità di una certa finanza e, pur nella limitata potenza della nostra voce, possiamo lanciare un monito: attenzione a chi, con retrostante pabulus politico, irretisce, seduce, indora pillole di ecosolidarietà finanziaria, perché vuole solo avere il controllo anche di quelle realtà, per portarvi l’acqua del proprio mulino fatto di drenaggio di denari pubblici, clientele, commissioni, carrozzoni, compagnie circensi, osservatòri e corte canterina varia.Cesec-Condivivere 2014.10.20 Squali della finanza sostenibileE veniamo all’oggi. Il forum è tecnicamente un’organizzazione non lucrativa la cui finalità è quella di promuovere una finanza etica. Desumendo dal sito si legge: Accanto alle questioni dell’etica della finanza, troviamo altri ambiti sicuramente rilevanti quando si tratti di istituzioni finanziarie e responsabilità verso altri soggetti. Come ad esempio la relazione tra attività finanziaria e sviluppo locale, lotta alla disoccupazione, integrazione degli immigrati, protezione dell’ambiente. Ecco quindi che l’esercizio dell’attività finanziaria è legato a filo doppio con il dibattito sullo sviluppo sostenibile. Un bel blabla di maniera che avremmo potuto leggere nel tema in classe di uno studente di ragioneria, e dal quale chi sa leggere può evincere una matrice sdegnosamente caritativa. Siamo rimasti alla raccolta dei tappini per aiutare i negretti
La compagine societaria, pardon sociale, del forum è così composta:Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Composizione societaria forum finanza sostenibileSoci sostenitori
ABI, Associazione Bancaria Italiana
Intesa San Paolo
Natixis
Petercam, Istitutional Asset Management
Vontobel,Private Banking
Soci Ordinari
ACRI, Associazioni di Fondazioni e di Casse di Risparmio SpA
Adiconsum
Allianz
ANASF, Associazione Nazionale Promotori Finanziari
ANIA, Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici
Assofondi Pensione
Assogestioni
Avanzi
Axa Investment Managers
Bloomberg
CDP, Carbon Disclosure Project
CGIL, Confederazione Generale Italiana Lavoratori
CISL, Confedeazione Italiana Sindacati Lavoratori
Cittadinanzattiva
Cometa fondo pensione
ECPI, Sense in Sustainability
EQUI, Private Equity
Etica Sgr SpA
FABI, Federazione Autonoma Bancari Italiani
Federcasse
Fondo Pensione Gruppo Intesa San Paolo
Generali Investment Europe
HDI Assicurazioni
Hines Italia
HSBC
ING Investment Management
Legambiente
MBS Consulting
Microfinanza
Morningstar
Pegaso Fondo Pensione
PensPlan Invest SG
RITMI, Rete Italiana Microfinanza
Societe Generale
Symphonia
Sodalitas
UBS, Unione Banche Svizzere
Unicredit
Unipol
Vigeo Italia
WWF Italia ONG Onlus

mentre il Consiglio di gestione è formato da:Cesec-CondiVivere 2014.10.20 Struttura quote forum finanza sostenibilePresidente
Maurizio Agazzi – Fondo Cometa
Consiglieri
Chiara Mazzuoccolo – Vontobel
Franca Perin – Generali Investments Sgr
Gian Franco Giannini Guazzugli – ANASF
Anna Monticelli – Intesa Sanpaolo
Manuela Mazzoleni – Assogestioni
Salvatore Cardillo – Assofondipensione
Isabel Reuss – Allianz Global Investors
Angela Tanno – ABICesec-CondiVivere 2014.10.20 Gnomo nel boscoCurioso che nel Consiglio non compaiano esponenti di realtà non bancarie… Dietro il paravento dell’etico, del sostenibile e del sociale la finanza dei soliti noti porta avanti i propri interessi. Oggi il guadagno è nell’housing sociale, e allora piatto ricco mi ci ficco: “Per fare edilizia sociale non occorre essere filantropi, neppure costruttori, basta avere le spalle coperte“. Non l’ha detto uno qualsiasi bensì Giuseppe Guzzetti, classe 1934, banchiere, politico, avvocato ed uno degli uomini più influenti d’Italia. Presidente di Fondazione Cariplo dal 1997 e dal 2000 dell’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio, si proprio quell’ACRI che siede fra i soci del Forum, azionista forte di Intesa San Paolo, presente tra i soci sostenitori del Forum.
Cito dall’interessante Il business del futuro? L’housing sociale, pubblicato dal sito matteo-equilibrio1.blogspot.it ed al quale rimando per approfondimenti: Presidente della Regione Lombardia dal 1979 al 1987, incarna il dominus del governo occulto delle banche e degli intrecci con il potere politico. Lo aveva capito Tremonti, che tentò di porre rimedio al suo strapotere mettendo in dubbio il regime privatistico delle fondazioni. Fu la Corte Costituzionale a stabilire che le fondazioni sono persone giuridiche private dotate di piena autonomia statutaria e gestionale. In quell’occasione gli corse in soccorso anche Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte Costituzionale, che siede in diversi organi della fondazione Cariplo.
Ad onta dell’aggettivo sociale il nuovo housing è un affare per pochi: banche, fondazioni bancarie e l’immancabile Legacoop con annessi, clientes e connessi.
Se l’edilizia da sempre rappresenta business, quella sociale lo è all’ennesima potenza, e non poteva essere che la Lombardia a tenerla a battesimo, nel 2004, quando vide la luce il progetto sperimentale di autocostruzione assistita gestito da Alisei Ong-Innosense Consulting.
Risultato: nel 2006 fu posata a Pieve Emanuele la prima pietra del cantiere, che si trova in stato di abbandono dal 2011 mentre 24 famiglie che si sono giocate risparmi, energie, tempo e fiducia attendono ancora una abitazione.
Alisei ed i suoi sodali e manutengoli hanno seminato più cadaveri dell’Ebola: a Cologno Monzese, Vimercate, Brugherio, Besana Brianza, Ravenna per citare solo le prime località che mi vengono in mente.
Del resto non dico nulla di strano, artefatto o ingiurioso: basta scorrere internet per trovare riferimenti a iosa. E dire che per non dilungarmi non ho parlato dei Social Bond

Alberto C. Steiner

Non siamo Cassandre, siamo per la Finanza CreAttiva

Un uomo entra in banca e chiede in prestito 200 dollari per sei mesi. Il funzionario gli chiede quali garanzie può dare. L’uomo risponde: “Ho una Rolls Royce, ecco le chiavi. Tenetela finché non restituirò il prestito.”
Sei mesi dopo l’uomo torna in banca, rifonde i 200 dollari avuti in prestito più 10 dollari d’interesse e si riprende la sua Rolls. Il funzionario, incuriosito, gli domanda: “Signore, posso chiederle come mai una persona che possiede una Rolls Royce ha bisogno di chiedere in prestito 200 dollari?”
L’uomo risponde: “Dovevo andare sei mesi in Europa. Secondo lei, dove la parcheggiavo una Rolls per 10 dollari?” – da: Platone e l’ornitorinco di Thomas Cathcart e Daniel Klein, Rizzoli 2007
Finanza CreAttiva per sopravvivere al futuro
Abbiamo preso le mosse da questa storiella surreale
per parlare di povertà, flussi migratori, fame, sete e possibili iniziative finalizzate a salvarci dal futuro che ci aspetta. Il 10 ottobre presso il Teatro Dal Verme di Milano, in occasione della rassegna Meet The Media Guru, il sociologo e filosofo novantunenne Zygmunt Bauman ha affermato: “Lampedusa? Niente fermerà i migranti, persone superflue che cercano di rifarsi una vita. Qualsiasi cosa tenti di fare l’Europa, gli arrivi dall’Africa non finiranno, niente riuscirà a fermare chi è in cerca di pane e acqua potabile: né governi né tragedie del mare perché le migrazioni sono inseparabili dalla modernità. Infatti una caratteristica della modernità è la produzione di persone superflue: individui tagliati fuori dal processo produttivo che perdono la propria fonte di sussistenza. Il progresso economico consiste nel produrre la stessa quantità di cose che producevamo ieri con una minore quantità di lavoro ed a un costo più basso. Chi rimane tagliato fuori diventa una persona superflua. E non gli resta che andarsene, cercando un altrove dove ricostruirsi una vita.
Il sociologo ha aggiunto: “la popolazione dell’Unione Europea diminuirà da 400 milioni di persone a 240 nei prossimi cinquant’anni: un numero troppo basso per mantenere i nostri standard di vita, il nostro benessere. In base ad alcuni calcoli nei prossimi 20 o 30 anni sarà necessario accogliere in Europa circa 30 milioni di migranti.
Un fenomeno, sempre secondo Bauman, che gli stati nazionali, inadeguati di fronte alle sfide della contemporaneità, hanno pochi strumenti per arginare o regolare. Oltretutto i popoli non credono più che partiti e parlamenti nazionali siano ancora in grado di assolvere le funzioni per cui sono nati, non solo perché in alcuni casi i politici sono corrotti o incapaci, ma perché per queste istituzioni sarebbe strutturalmente impossibile realizzare quello che promettono agli elettori.
Per spiegarsi meglio Bauman cita Antonio Gramsci: “Viviamo in un interregno, un’epoca in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere: le regole e le leggi del passato sono scomparse, ma le nuove leggi non sono ancora state inventate. La sovranità degli stati nazionali è ormai in buona misura una finzione. Il potere è la capacità di fare, la politica è decidere che cosa fare. La globalizzazione ha fatto evaporare il potere degli stati nazionali verso poteri sovranazionali liberi dal controllo della politica. Se un governo provasse a realizzare ciò che davvero vogliono i suoi elettori, invece di ciò che esige la finanza, i mercati lo punirebbero con durezza“.
Sempre secondo Bauman “le economie europee hanno bisogno d’immigrati, perché senza di loro non potrebbero vivere. Se nel Regno Unito gli irregolari venissero identificati e deportati, la maggior parte degli ospedali e degli alberghi collasserebbe; credo si possa dire lo stesso per l’economia italiana.
Non è nostro intento confutare qui tali affermazioni, né lanciarci ad analizzare danni e benefici che l’immigrazione, controllata o meno, produce al tessuto sociale, all’economia, alle radici culturali.
Ci interessa semplicemente considerare un aspetto globale: le risorse alimentari e idriche non bastano per tutti, già oggi quasi un miliardo di persone muore, letteralmente, di fame mentre gli sprechi potrebbero saziare tre miliardi di persone. E almeno due miliardi di esseri umani soffrono la sete o hanno difficoltà a disporre delle risorse idriche.
Relativamente al cibo …

… pensiamo solo a frutti e ortaggi che, non rispettando le misure standard, vengono buttati via poiché agricoltura meccanizzata e vendita di massa richiedono uniformità.
Secondo Slow Food solo in Italia, dalla filiera e non dalla mancata vendita, vengono sprecate 4.400 tonnellate giornaliere di cibo, con le quali si potrebbero sfamare tre milioni di persone.
cesec,condivivere,vandanashiva,cohousing,ogm,biodiversità,ecosostenibilità,orobluVandana Shiva, vicepresidente di Slow Food e presidente del movimento ambientalista Navdanya ha recentemente dichiarato: “Il 50 per cento del cibo prodotto negli Stati Uniti viene gettato o non utilizzato” aggiungendo “Invece di un grande business legato alle monoculture, abbiamo bisogno di fattorie che preservino la biodiversità. Monoculture come la soia non risolvono i problemi legati al cibo, ma li creano. Si tratta di un circolo vizioso” ha concluso “perché il circuito della produzione industriale ha bisogno dello spreco per creare surplus“.
Le multinazionali delle sementi, oltre a guardarsi bene dal favorire la biodiversità e la tutela di un’agricoltura locale non invasiva, rispettosa delle specie e del territorio, sono quelle che già oggi ed ancor più nel prossimo futuro avranno letteralmente in mano le chiavi della dispensa: il massiccio ricorso agli OGM, organismi geneticamente modificati, che rendono definitivamente sterili molte specie ed improduttivo il suolo, crea un’ineluttabile dipendenza negli approvigionamenti consentendo a queste aziende di decidere chi mangerà e chi no. Ci sembra doveroso rammentare quanto allarme abbia suscitato la proposta di una legge europea, denominata Plant reproductive material law, il cui scopo è quello di creare un mercato regolamentato degli ortaggi e delle verdure a livello comunitario, ufficialmente per garantire la qualità dei prodotti e la salute dei consumatori. Partendo dalla premessa che ogni vegetale, frutto, albero debba essere testato e registrato prima di essere riprodotto e distribuito a fini commerciali si stava delineando uno scenario orwelliano che faceva addirittura paventare la proibizione di coltivare un orto per uso personale. Non potendo provare che il fine della norma fosse quello di svendere ogni zolla coltivabile alle multinazionali dell’agricoltura ci asteniamo dal commentare, non senza però registrare lo stato di notevole allarme suscitato nei mesi scorsi.
Fortunatamente, non sappiamo se e quanto in seguito all’imponente movimento di opinione creatosi, il testo della legge specifica chiaramente che il provvedimento non è applicabile a chi produce ortaggi o verdure per uso personale, nonché ad organizzazioni di volontariato, piccoli produttori con meno di 10 addetti, banche del seme ed istituti scientifici, organizzazioni rivolte alla conservazione delle risorse genetiche nonché al materiale riproduttivo scambiato tra persone che non siano operatori professionali. Si starebbe anche  lavorando a deroghe per  produttori di sementi destinati a coltivazioni biologiche, prodotti con valenza specifica locale e produzioni di nicchia. Una rondine non fa primavera, si dice, ma in questo caso il proverbio ci sembra debba essere letto al contrario. Chi vivrà – nel senso che non sarà morto di fame nel frattempo – vedrà…
In ogni caso giova ricordare che le varietà da conservazione sono entrate nel panorama legislativo sementiero già nel 1998 con la direttiva 98/95/CE. Successivamente sono state emanate altre tre direttive: la 2008/62/CE relativa a piante agricole e patate, la 2009/145/CE  sulle specie ortive e la 2010/60/CE dedicata alle miscele di sementi di piante foraggere destinate a essere utilizzate per la preservazione dell’ambiente naturale.
Due di queste direttive sono state recepite in Italia con i decreti legislativi 149 del 29 ottobre 2009 (piante agricole e patate) 267 del 30 dicembre 2010 (specie ortive). Entrambi i decreti sono tuttora vigenti.

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E veniamo alle risorse idriche …
… Il 17 giugno scorso rilanciammo un trafiletto pubblicato sabato 15 giugno su IO Donna, supplemento settimanale de il Corriere della Sera, che sintetizzava significativamente attraverso i numeri una considerazione di fondo: l’acqua, bene primario che dovrebbe essere considerata pubblica e agevolmente disponibile, lo è invece sempre più in funzione delle capacità economiche e tecnologiche. Di seguito il testo:

La terra trema – NUOVA MAPPA: UN TERZO DEL MONDO E’ ASSETATO
Migliora la situazione in Cina e in India. Ma si degrada nell’Africa subsahariana e in Ucraina. Il rapporto 2013 dell’Oms aggiorna la mappa dello “stress idrico”. Ed eleva la cifra ufficiale di chi nel mondo non ha accesso all’acqua potabile a 2,4 miliardi. Aumenta il numero di impianti che veicolano acqua buona nelle case, ma anche la popolazione cresce. E paradossalmente, ci sono meno rubinetti oggi che nel XX Secolo. Tra le aree critiche: il Nilo (l’Egitto la fa da padrone, rispetto a Sudan, Eritrea, Etiopia e Kenya), il Mekong (il Vietnam preleva per abitante più di Thailandia, Birmania, Laos) e Israele, gestore unico delle risorse idriche anche nei territori occupati. (P.P.)

Esiste una terra di nessuno …
cesec,condivivere,oroblu,sete,ecosostenibilità,cohousing,finanza… chiamata finanza creativa della quale i mezzi di informazione parlano poco, e solo superficialmente o in toni scandalistici quando accade qualche disastro: terra dei derivati e dell’utilizzo spregiudicato e pericolosissimo che se ne fa nei chiaroscuri dell’alta finanza. Un modo per fare soldi a palate scommettendo sulle nostre paure più ancestrali. Nulla è più catastrofico che scommettere sulle riserve mondiali di cibo ed acqua. Infatti l’Acqua è da tempo nel mirino della speculazione: banche d’affari, fondi di investimento, multinazionali ed altri attori economici mondiali, compresi FMI e Banca Mondiale, sono già pronti a mettere la mani su questa fonte primaria per la vita umana.
Friedrick Kaufman, professore presso la City University di New York, in un articolo apparso sulla testata britannica Nature e ripreso il 21 dicembre 2012 da Internazionale sostiene che la prossima grande risorsa mondiale non sarà costituita da oro, grano o petrolio bensì da acqua. L’acqua potabile, poiché entro un ventennio almeno tre miliardi di persone avranno problemi a reperire quella necessaria per vivere.
Questo scenario, scandito dall’ossessione per la penuria idrica mentre estati interminabili e caldissime si ripetono con cadenza allarmante rappresenta il massimo che uno speculatore possa desiderare. Gli investitori adorano le situazioni apocalittiche: violenza e caos nascondono sempre possibilità di guadagno e creare denaro speculando sulla mancanza d’acqua in un’area geografica o in un settore, non è una previsione fantascientifica bensì una realtà molto vicina.
E per la finanza creativa, che produce molto di più del Pil mondiale ed è passata dai 500 miliardi di dollari del 1980 agli oltre 60 trilioni di dollari di oggi – cifra che molti hanno sentito pronunciare solo da Zio Paperone – la paura è sempre un ottimo affare. Oggi i grandi profitti, generati da strumenti finanziari totalmente separati dalla realtà, non nascono più dalla compravendita di case, grano, materie prime, auto ma dalla manipolazione di concetti eterei come rischio e collateralizzazione del debito. Ed a quanto pare investire in un indice del mercato dell’acqua sta diventando un’idea sempre più appetibile.

Torniamo per un istante a Zygmund Bauman …
… poiché riteniamo interessante riportare quanto da egli scritto in Modus Vivendi (Laterza, 2008) a proposito delle nostre prospettive di vita:
Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile, come sono instabili i nostri posti di lavoro e le società che li offrono, i nostri partner e le nostre reti di amicizie, la posizione di cui godiamo nella società in generale e l’autostima e la fiducia in noi stessi che ne conseguono. Il progresso, un tempo la manifestazione più estrema dell’ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all’altra estremità dell’asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso progresso sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua. Il progresso è diventato una sorta di gioco delle sedie senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il progresso evoca un’insonnia piena di incubi di essere lasciati indietro, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta.
Per parte nostra aggiungiamo che se si producono risorse impiegando un sempre minore numero di addetti che, di fatto estromessi dal processo produttivo e dalle attività collaterali, non dispongono più delle risorse per acquistare non solo i beni voluttuari, ma anche quelli necessari alla sopravvivenza, si crea una popolazione di affamati.
Ma se la gente non ha soldi per mangiare chi compra i beni prodotti? La risposta c’è: come da più parti si afferma è in atto un mercato della sostituzione: i vecchi acquirenti nordamericani ed europei lasciano il posto a cinesi, indiani, brasiliani, centroafricani di quei paesi dove il trend di sviluppo è attualmente in corsa.
I migranti, i disperati, provengono da paesi con conflitti in atto e da paesi con una miseria endemica. In non pochi casi, però, questi paesi sono ricchi di risorse naturali, i cui proventi rimangono strettamente saldi nelle mani di oligarchi, di veri e propri satrapi e non vengono affatto utilizzati per il benessere di quelle popolazioni. Gli stessi satrapi sono altresì i gestori delle derrate umanitarie che, non infrequentemente, costituiscono la principale risorsa alimentare di quelle genti. Nei paesi dei quali stiamo parlando, giova rammentarlo, si estraggono spesso petrolio e minerali preziosi, si esportano varietà alimentari, spezie e legni di pregio.
Queste orde di esseri umani, peraltro, non sono mai state educate a vivere di lavoro bensì di sussistenza e, come primitivi nomadi predatori, si spingono ovunque vi possa essere una fonte di sostentamento. Ma esportando il loro modello, quello dell’assistenzialismo passivo.

E veniamo al medioevo prossimo venturo …
… Non casualmente era il titolo di un libro che Roberto Vacca scrisse addirittura nel 1970 ipotizzando un’improvvisa regressione della civiltà umana, dovuta ad un blocco tecnologico e all’esplosione demografica, tali da costringere l’umanità a ritornare a forme di vita e di lotta simili a quelle medioevali.
Poco tempo fa l’Autore, in occasione di una riedizione del libro, ebbe a dichiarare che – essendo ingegnere – aveva basato su modelli matematici molte delle sue previsioni, non avveratesi soprattutto perché non si è (ancora) verificato il blocco tecnologico ipotizzato come base della crisi mondiale; per contro si è rivelato esatto il calcolo dell’incremento della popolazione della Terra, stimata in oltre sei miliardi di individui all’inizio del terzo millennio.
Curiosamente, nel 1989 uscì un libro analogo e dal titolo identico: l’Autore, uno statunitense del quale si sono perse le tracce, ipotizzò che a causa del depauperamento dissennato delle risorse non rinnovabili in tempi compatibili con l’esistenza umana – in ragione dell’utilizzo massiccio che le tecnologie ne avrebbero richiesto – nonché della deforestazione e dell’inquinamento atmosferico, idrico e del suolo, la terra non avrebbe più potuto sfamare i suoi abitanti nonostante anzi proprio in conseguenza del massiccio ricorso agli OGM, organismi geneticamente modificati, che avrebbero definitivamente reso sterili molte specie ed improduttivo il suolo.
Le risorse alimentari si sarebbero pertanto vieppiù ridotte diventando privilegio di pochi, le città si sarebbero trasformate in bolge infernali sempre più pericolose e sempre meno vivibili, e le campagne sarebbero state percorse da bande di predoni decisi a tutto pur di assalire chiunque possedesse cibo, qualunque esso fosse. Anche carne umana? non sappiamo, e speriamo di non saperlo mai.
L’umanità avrebbe dovuto fare i conti con una delle più ataviche fra le paure: la fame.
L’ignoto autore del libro scritto nel 1989 ipotizzava altresì due fenomeni che si stanno puntualmente verificando: lo scioglimento progressivo dei ghiacciai e l’innalzamento del livello degli oceani, rendendo inabitabili non solo città costiere, ma anche insediamenti lontani dal mare sino ad altitudini non trascurabili: per quanto riguarda l’Italia, secondo tale previsione non solamente città come Genova, Napoli, Palermo e Venezia cesserebbero di esistere, ma anche Firenze, Milano, Pavia, Rovigo. La sicurezza potrà essere conseguita a partire dai 600 metri di altitudine.
Gli esseri umani avranno un’unica possibilità di sopravvivenza: riunirsi in piccoli insediamenti autosufficienti sotto il profilo energetico ed alimentare, sfruttando le risorse del territorio ed acquisendo la capacità di difendersi da eventuali attacchi.
Decrescita, condivisione, co-housing, rispetto per il territorio, chilometro zero, utilizzo selettivo e responsabile delle risorse: in pratica ci stiamo arrivando mentre le difficoltà economiche ci costringono a rivedere la scala dei bisogni reali o presunti. Che la decrescita alla quale volenti o nolenti saremo costretti possa contribuire a riqualificare il nostro rapporto con la Natura e con i nostri simili?

Se fossimo tutti consapevoli …
… della limitata disponibilità delle risorse, e se tutti ci sforzassimo di portare ciascuno il proprio contributo produttivo, senza sprechi e nel rispetto dell’ambiente – e questa potrebbe essere la logica del villaggio globale in un mondo perfetto – forse potremmo anche salvarci da ciò che ci aspetta. Invece non sarà così.
Per cominciare il concetto di villaggio globale è stato a suo tempo creato partendo dall’idea di uniformare i popoli nella direzione di una monocultura appiattente e massificatrice. L’unico esito tangibile di questo è che in ogni angolo del mondo troviamo un McDonald’s ed almeno una via dello shopping con negozi tutti uguali a quelli di qualsiasi altra città. Ma nulla è stato fatto per una reale integrazione, anzi si sono vieppiù fomentati nazionalismi o divisioni in nome di fedi religiose. Mistificazioni, notizie inventate, credenze che grazie ai mezzi di comunicazione si espandono in modo virale non giovano al concetto di pace, convivenza e reciproca tolleranza.
L’oligarchia, sia essa occulta o meno non ha importanza, che detiene il potere mondiale ha inoltre interesse a focalizzare l’attenzione delle masse verso falsi obiettivi e verso una conflittualità crescente, per distoglierla da ciò che dovrebbe invece essere sotto gli occhi di tutti: la manipolazione delle coscienze finalizzata ad occultare giochi di potere economici e finanziari su scala mondiale.
Poiché la Storia, nonché la nostra modesta esperienza di Vita, ci hanno insegnato a non fidarci della capacità umana di ricompattarsi sotto un’unica bandiera di amorevolezza, collaborazione e valori condivisi, saremo pessimisti ma sicuramente realisti ritenendo che il futuro che ci aspetta, stanti queste premesse, sia semplicemente spaventoso.
Considerato che le politiche comunitarie, nazionali, locali e persino le ventate autonomiste ed indipendentiste hanno sin qui dimostrato di non perseguire l’interesse di chi dichiarano di rappresentare bensì le ambizioni di chi le guida ed interessi finanziari ed economici di parte, anche qui più o meno occulti, non resta a nostro avviso che ipotizzare due soluzioni, non disgiunte l’una dall’altra bensì fra loro indissolubilmente complementari.
Recuperare spazi di condivisione abitativa per piccoli nuclei autonomi il più possibile autosufficienti;
Acquisire il possesso delle fonti d’acqua affinché l’acqua stessa sia salvata dalla speculazione e resa disponibile a costi accettabili per la comunità locale che ne farà uso;
Questo presuppone di non assaltare i santuari della finanza in stile ecologisti arrabbiati di lusso (e ciascuno metta il nome che preferisce) ma combatterli con le loro stesse armi, in una logica di tante public-companies strutturate per l’autoconsumo ed eventualmente federate tra loro per garantire un’economia di scala, una forza contrattuale di base ed un’uniformità normativa.
Questo presuppone di non sottrarre più neppure un metro quadro di suolo a Madre Terra, bensì di recuperare borghi e villaggi dismessi (e solo in Italia sono oltre un migliaio) per farne unità condivise di vita e di lavoro.
Questo consente che, come vedremo più avanti, sia tutelata e salvaguardata l’unicità locale non solo in termini di cultura, origini e tradizioni ma anche di specie autoctone, saperi e sapori; un po’ come avvenne nel medioevo grazie alle abbazie, per intenderci.
Questo significa non farsi illusioni sul Peace&Love cui ci ha abituati una cultura promanata sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, sostanziata sia dalla chiesa cattolica sia dalle varie filosofie di matrice orientale che predicano un pacifismo di maniera più teorico che reale. Non farsi illusioni significa, in buona sostanza, che queste comunità dovranno essere in grado di difendersi da inevitabili attacchi e scorrerie di predoni.
Significa che dal concetto di villaggio globale, dal concetto di unione di stati, dal concetto di nazione passeremo a quello di Borgo in un neofeudalesimo, in una nuova età dei comuni? Non sarà proprio così, ed ora ne esplichiamo le ragioni.

Per cominciare citiamo una frase evangelica …
siate pronti, perché non conoscete né il giorno né l’ora. Quest’esortazione è più che mai attuale. Partendo dal dissesto geopolitico, sociale ed idrogeologico iniziamo citando Nietzsche per illustrare uno scenario tutt’altro che fantascientifico, collocato in un niente affatto remoto Medioevo prossimo venturo: Non vuoi oggi salire su un alto monte? L’aria è pura e puoi scorgere più mondo che mai.
Ci limitiamo ai fatti di casa nostra per affermare come sia ormai palese quanto l’Unione Europea propugni una strategia mirata a costituire una Paneuropa feudale partendo dallo sfaldamento della cultura locale di un qualunque popolo europeo o del cosiddetto sentimento nazionale anche attraverso la simbolica eurocentrica: Euro, bandiera, Erasmus, Inno alla gioia di Beethoven eletto ad inno europeo, passaporto, parlamento e Stati artificiali, Alpen-Adria, AER, CCRE in esecuzione di quel processo disintegrativo che taluni sostengono iniziato nel 1990 con lo sfaldamento dell’ex-Yugoslavia e che è tuttora visibile in Germania, Belgio, Spagna, Francia e persino Italia attraverso l’ascesa dei partiti autonomisti.

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L’unica forma di difesa possibile …
… da tutto questo non potrà, a nostro avviso e secondo una ben precisa chiave di lettura, che portare in una direzione: quel piccoli insediamenti autosufficienti di cui abbiamo scritto sopra, autosufficienti e – piaccia o meno – in grado di difendersi. Il feudalesimo probabilmente non avrà più i caratteri che abbiamo studiato sui libri di storia, magari sarà un Federalesimo o un Consorzianesimo, insomma un’alleanza fra borghi, villaggi, territori, comprensori.
Che, grazie alla profonda consapevolezza ed alla capacità di sentire con il cuore di quelli che immaginiamo saranno gli abitanti dei borghi risorti dal recupero di insediamenti abbandonati, avrà in alta considerazione la cultura dell’accoglienza del Viandante che viene in pace. Ma riprenderà nel contempo finalmente ad onorare la figura del Guerriero.
Per parte nostra ci permettiamo di raccomandare, citando Cromwell: abbiate fiducia in Dio e nel prossimo, ma tenete asciutte le polveri. Anche se, passateci la battuta, alle polveri preferiamo di gran lunga l’arco: silenzioso, fulmineo, letale, ecologico.
La formula vincente per ottenere tutto questo si chiama cohousing, che non è solo un modo di abitare ma di cambiare abito mentale: dal lavoro come produzione, che vede solo crescite esponenziali senza ragione, al lavoro come servizio dove la produzione non ha in vista solo beni e merci, di cui non sapremmo neppure cosa fare se non fosse per bisogni e desideri indotti, ma anche erogazione di tempo, cura, relazione. In una parola: Condivisione.
Il cohousing è un nuovo modo di abitare con spazi e servizi condivisi tra persone amiche che si sono scelte e che insieme hanno progettato la propria comunità residenziale. Chi vive in cohousing – e sono già più di mille gli insediamenti di questo tipo nel mondo – vive una vita più semplice, meno costosa e meno faticosa decidendo innanzitutto cosa condividere: un micronido per i bambini, un orto o una serra, un living condominiale, un servizio di car sharing o una portineria intelligente che paga le bollette e ritira la spesa. Solo per fare qualche esempio.
Naturalmente, sulla scorta delle nostre competenze professionali, stiamo organizzando l’ampio ventaglio di risorse necessarie a realizzare i progetti di cohousing: ricerca delle aree idonee, progettazione sostenibile degli interventi, formazione dei gruppi promotori e loro evoluzione in comunità organizzate, design di spazi e servizi comuni.
Il cohousing non è più da vedere come una comune più o meno hippy, rifugio di strafatti e sbandati, anche se sopravvivono iniziative di questo tipo: di solito vere e proprie topaie che lasciano molto a desiderare anche sotto i profili organizzativo, delle relazioni fra gli abitanti e persino igienico-sanitario. Siamo certi che scompariranno entro breve tempo.
Le comunità di cohousing combinano l’autonomia dell’abitazione privata con i vantaggi di servizi, risorse e spazi condivisi (micronidi, laboratori per il fai da te, auto in comune, palestre, stanze per gli ospiti, orti e giardini…) con benefici dal punto di vista sia sociale che ambientale.
Tipicamente consistono in un insediamento di 20-40 unità abitative, per famiglie e single, che si sono scelti tra loro e hanno deciso di vivere come una comunità di vicinato per poi dar vita – attraverso un processo di progettazione partecipata – alla realizzazione di un villaggio dove coesistono spazi privati (la propria abitazione) e spazi comuni (i servizi condivisi).
La progettazione partecipata riguarda sia il progetto edilizio vero e proprio – dove il design stesso facilita i contatti e le relazioni sociali – sia il progetto di comunità: cosa e come condividere, come gestire i servizi e gli spazi comuni, mentre le motivazioni che portano alla coresidenza sono l’aspirazione a ritrovare dimensioni perdute di socialità, di aiuto reciproco e di buon vicinato e contemporaneamente il desiderio di ridurre la complessità della vita, dello stress e dei costi di gestione delle attività quotidiane.

Questo scritto nasce anche come premessa …
… all’illustrazione di progetti, raccolta di idee, condivisioni e adesioni in una logica che intende essere sin dall’inizio partecipativa e con una particolarità che è un po’ il nostro Manifesto: nessun metro quadro in più sottratto alla Natura con nuove costruzioni, bensì il recupero di luoghi esistenti e dismessi. In Italia se ne contano oltre mille: borghi abbandonati che possono tornare a nuova vita, in una logica di decrescita e rispetto dell’ambiente.
Ma chi, già oggi,  desidera vivere in cohousing? Un identikit del cohouser parte dalla storia di un’utopia diventata realtà ed ha a che fare con il vivere insieme condividendo spazi e servizi con i vicini di casa: lavanderia e stireria, ludoteca, biblioteca, orto, giardino, palestra, mezzi di trasporto e chi più ne ha più ne metta pur mantenendo la privacy nel proprio appartamento.
L’idea non è così nuova per chi ha vissuto la ventata degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, ma le neotribù attuali non sono certamente formate né da nipoti dei Figli dei Fiori né da idealisti New Age, piuttosto da un panorama eterogeneo di singles giovani e meno giovani, coppie senza figli e famiglie più o meno numerose, anziani in cerca di socialità.
E l’attuale cohouser non è tipo da comune o casa collettiva ma è per l’abitare insieme in modo organizzato, vivendo in edifici pensati o recuperati per più nuclei, scegliendosi i vicini di casa. Si abbattono i costi fissi di alcune aree perché uso e proprietà sono ripartiti su più persone, la convivenza intergenerazionale è facilitata, e sono favoriti gli scambi di vicinato.
Altro valore forte, il basso impatto: gli edifici sono pensati per consumare poco o addirittura pochissimo attraverso tecniche costruttive o ricostruttive che vanno sotto la denominazione di casa clima, casa passiva, bioarchitettura.
Abitare in cohousing vuol dire molte cose, una in particolare: ritrovarsi tra persone interessate a un modo comune di concepire la vita a partire dalla dimensione quotidiana; ogni gruppo fa storia a sè e il percorso intrapreso è sempre su misura.

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Vivere in un ecovillaggio …
… non è quindi una protesta verso il sistema, non è un sogno romantico o un’utopia, ma una scelta razionale e motivata di dare priorità nella propria vita ad aspetti quali il senso di comunità e l’ecologia.
Storicamente vivere in un villaggio in armonia con la natura non era una scelta consapevole ma l’unica possibilità; ora invece gli ecovillaggi diventano comunità intenzionali di persone pienamente consapevoli di vivere in modo che rema in direzione contraria alla spinta della società circostante. Il sentimento di appartenenza ad una comunità viene da lontano, è innato nella natura umana. La tecnologia, l’organizzazione sociale, la nascita delle metropoli, la corsa verso il successo individuale han dato l’illusione che il nuovo essere umano non avesse più bisogno dell’appoggio di una comunità, creando la tendenza verso una vita sempre più individualista e solitaria. Evoluzione ben rappresentata dall’anonimo palazzone cittadino, dove un numero svariato di vite sono rinchiuse tra queste mura, cercando una nicchia di intimità dietro spesse porte blindate di appartamenti tutti uguali, ignorando completamente l’esistenza di vicini sovente visti solo come una molestia. La vita di comunità è l’opposto, è il compromesso di vivere in un gruppo, di solito non troppo numeroso in modo che tutti i membri si conoscano personalmente. Pur praticando una parziale comunione dei beni, la vera essenza di comunità è esaltata nell’appoggio reciproco.
Un gruppo su cui contare vuol dire miglioramento della qualità di vita, con esempi pratici quali la cura condivisa dei bambini, la possibilità di facilitare e rendere più attraenti lavori comunitari, la creazioni di posti di lavoro all’interno della comunità stessa. Inoltre la vita comunitaria è un costante stimolo alla crescita personale, in quanto persone a stretto contatto quotidiano sono obbligate a confrontarsi su scelte in comune, a discutere, a parlare apertamente dei problemi che invariabilmente sorgono e questo migliora la comunicazione con gli altri e con se stessi ed aiuta a vedere con più chiarezza il nostro misterioso mondo interiore. L’armonia della vita comunitaria si ripercuote conseguentemente nella cura dell’ambiente circostante. La concezione di tutela ambientale è variabile, ma principalmente si attua nel tentativo di produrre la maggior parte del cibo che si consuma, coltivando orti vicino alle case, di affidarsi a energie rinnovabili, di ridurre i consumi e di limitare l’utilizzo delle automobili. I bambini di un ecovillaggio possono trascorrere le giornate scorazzando per strade prive di auto, giocando nei giardini comunitari, nei campi e nei boschi senza necessità della miriade di giochi che popolano la vita dei bambini cresciuti negli appartamenti. Infine la spiritualità, che racchiude aspetti controversi perché storicamente è stata ingabbiata dalla religione. La spiritualità si accompagna in modo naturale al rallentamento dei ritmi, al contatto con la natura, poiché il materialismo non è sufficiente a saziare l’innata curiosità dell’essere umano. La spiritualità significa arte, musica, contemplazione, meditazione, riflessioni. Il tutto si associa spesso ad altri movimenti quali la permacultura, la decrescita, termini che evocano ancora in tanta gente uno scenario di ristrettezze, un ritorno all’età della pietra e una rinuncia. Ma non è questo il punto, tutt’altro, l’obiettivo è lo stesso di tutte le attività umane, la felicità e il benessere, che vengono ricercate, però in una forma che predilige l’armonia con la natura e l’ambiente.

Il cohousing rurale montano …
… costituirà in futuro la reale e più adeguata forma di salvaguardia del territorio, oltre che di protezione dagli accidenti climatici e dalle scorribande dei predoni di cui si diceva più sopra.
Niente folclore da cartolina: prati fioriti di mille colori, alte vette che fanno da quinta, aria cristallina, mucche sparse a brucare che sembrano messe lì come in un presepe, il mandriano, i cani, le baite, il formaggio saporito, il burro giallo che si conserva nell’acqua gelida del torrente mentre la polenta brontola nel paiolo sul fuoco del camino…
L’agricoltura in montagna non è per tutti. E’ fatica, è lavoro duro, è gestione, manutenzione, valorizzazione di territorio e paesaggio frutto di un’attività economica e produttiva che per millenni ha costituito la principale fonte di sostentamento e il centro identitario e culturale del territorio e delle popolazioni.
Le tracce di questa cultura e di queste attività improntano tuttora in modo indelebile e diffuso il territorio, il paesaggio, i modi di vivere, le tradizioni, l’architettura, i cibi, i prodotti alimentari ed i manufatti artigianali lasciando, in montagna forse più che altrove, i segni di un’identità forte che agli occhi degli estranei viene percepita come luogo di tradizioni senza tempo. Costituiscono la nostra matrice culturale, le nostre radici, attraverso una storia millenaria ha costruito in Alpe il paesaggio di cui oggi godiamo come straordinario testimone che ci racconta la vita delle sue genti e ci apre alle bellezze di ambienti frutto di fatiche secolari poiché, all’interno di questo sistema che ha funzionato perfettamente fino ad alcuni decenni fa, la valorizzazione delle risorse pastorali è stata una delle chiavi di successo e di sopravvivenza delle popolazioni, armonico ed equilibrato rapporto tra risorse del fondovalle e degli alpeggi che ha permesso lo sviluppo di forme integrate di economia agricola con l’allevamento permanente di bestiame da latte.
Naturalmente senza il ricorso ad antibiotici, estrogeni ed altre schifezze od allo spreco di milioni di litri d’acqua per produrre una bistecca. Significa tornare alle origini, quando il latte veniva dato caldo con il miele per combattere le affezioni bronchiali, non come ora che è un mucogeno, non come ora che se i bambini mangiano un hot dog o un hamburger richiano la femminilizzazione.
L’attività degli agricoltori montani ha costruito nel tempo un paesaggio variegato fatto di aperture tra i boschi, prati e maggenghi, pascoli di alta quota, nuclei rurali ed architetture tipiche che costituiscono il pregio di tante località montane. Certo anche la montagna è cambiata e sta cambiando, anche se questo può non apparire agli occhi dei frequentatori occasionali, primariamente per la riduzione dell’agricoltura e con essa, pur se a più lungo termine, della biodiversità e della bellezza paesaggistica dei luoghi. Alle quote più elevate e meno accessibili i terreni vengono spesso abbandonati, e prima o poi riconquistati dal bosco. Se il ritorno del bosco può apparire positivo perché riduce l’impatto negativo dell’uomo su natura e paesaggio, costituisce in realtà un pericolo perché spesso le zone abbandonate sono proprio quelle più importanti ai fini della conservazione della biodiversità florofaunistica, oltre che per la diversità dei paesaggi. E senza trascurare l’incontrollato proliferare di animali selvatici che, non trovando di che nutrirsi, devono necessariamente essere abbattute. Innegabilmente, il ritorno del bosco migliora la stabilità delle pendici.
In questo senso il cohousing montano svolge anche una insostituibile funzione di salvaguardia del territorio.
Naturalmente
l’atteggiamento più sbagliato che una comunità coresidenziale può assumere allorché si stabilisce in un luogo, e maggiormente in un contesto orograficamente difficile quale quello montano, è quello di apparire e sentirsi enucleata dalla società locale ivi residente, attuando non un inserimento bensì una sorta di colonialismo isolazionista.
Non nascondiamo che i cohouser provenienti, come in massima parte accadrà, dal vissuto urbano potranno incontrare situazioni particolarmente difficili; chi vive da generazioni strappando con fatica alla montagna di che sostentarsi ha maturato una scorza dura. Perché duro è il loro lavoro: in montagna non servono le mastodontiche mietitrebbia che vediamo in pianura, tutt’al più i trattorini ed i trenini delle vigne, anch’esse faticosamente ricavate terrazzando a mano la montagna, dove i raccolti e le merci viaggiano per gli alpeggi nella gerla, a dorso di mulo o con la teleferica.
Gli scenari futuri mettono in luce un sistema rurale alpino senza domani, con una perdita progressiva e costante delle note caratteristiche e delle specificità che l’hanno finora contraddistinto. Solo una diversa considerazione del ruolo dell’agricoltura di montagna rispetto alla conservazione dei paesaggi colturali tipici, alle produzioni alimentari di qualità, alla tutela degli spazi, alla difesa dell’ambiente e del territorio potrà garantire nuove forme di sopravvivenza e di sviluppo. Questo significa spazio disponibile per nuove opportunità coresidenziali, complici i numerosi borghi abbandonati presenti sulle Alpi e sugli Appennini.

Riscoprire l’Acqua …
… non casualmente chiamata Oroblu perché, non semplicemente in margine alla nozione di cohousing ed agli aspetti connessi all’autosostentamento alimentare, lavorativo ed energetico delle comunità coresidenziali che si svilupperanno dai nostri progetti, dobbiamo ora affrontare un argomento relativamente al quale desideriamo portare alcune considerazioni, sintetiche ma imprescindibili.
Abbiamo visto precedentemente come sul nostro Pianeta l’acqua costituisca indiscutibilmente il bene più importante, purtroppo non dappertutto risulta essere quello più economico o disponibile.
Nel secolo scorso l’acqua era, salvo casi particolari, abbondante, economica e pulita. Ma, trascorso il primo decennio di questo XXI Secolo, ci stiamo accorgendo di quanto l’acqua stia diventando sempre più preziosa, talvolta non scarsa bensì mal utilizzata, preda di ecomafie, trasportata da viadotti o condotte fatiscenti che la rendono difficile da gestire, sempre più costosa e inevitabilmente da purificare. Nel prossimo trentennio la situazione è destinata a peggiorare, non da ultimo a causa dei sempre più intricati trend geopolitici in atto e di un boom demografico senza precedenti nella storia dell’umanità, che incrementerà la popolazione terrestre di circa tre miliardi di unità, prevalentemente concentrate in un unico continente.
Particolare attenzione riveste la questione della sicurezza:  che si tratti di troppa poca acqua per lunghi periodi di tempo, o di troppa acqua tutta in una volta rappresenta una delle sfide tecniche, ambientali, sociali, politiche ed economiche più tangibili ed a più rapida crescita che è necessario affrontare da subito.
Non trascurabile è inoltre la crisi ambientale in rapido svolgimento: in ogni settore, la domanda di acqua è destinata ad aumentare e le analisi suggeriscono che entro il 2030 il mondo dovrà affrontare un deficit globale del 40% tra previsione della domanda ed offerta disponibile. E qui non è possibile ragionare per localismi: per loro stessa natura acqua, vapore acqueo, correnti, falde sono transnazionali.
Questa prospettiva eleva il potenziale di crisi e di conflitto poiché l’acqua è centrale per tutto quanto è importante per la vita umana: cibo, servizi igienico-sanitari, energia, produzione di merci, trasporto e biosfera. Come tale l’acqua non solo garantisce la mera sopravvivenza degli esseri umani, ma anche benessere sociale e crescita economica. Inoltre, l’acqua è una risorsa rinnovabile ma non inesauribile. Sarà per l’acqua, oltre che per il cibo, che in un futuro nemmeno tanto lontano si combatteranno guerre cruente.
Per tali ragioni già nel prossimo ventennio ci attendono sfide senza precedenti, soprattutto allorché la questione non sarà più appannaggio di ristrette cerchie di esperti ma diverrà aspra parte del dibattito politico e dovranno essere decise enormi allocazioni di risorse finanziarie a livello nazionale e internazionale. Già ora stiamo assistendo a tentativi, neppure troppo sommessi per privatizzare l’acqua funzionalmente al business che se ne potrà ricavare.

La nostra posizione è assolutamente controcorrente …
… Anziché arroccarci in posizioni di protesta ed esecrazione, eticamente sacrosante ma strategicamente indifendibili, perché non combattere il nemico con le sue stesse armi? Perché non beneficiare in modo etico e vantaggioso di questa irripetibile congiuntura storica, compiendo azioni la cui ricaduta vada nella direzione del bene comune?
Vale a dire: vogliono privatizzare l’acqua? Ebbene, compriamola! compriamola come cittadini, come fruitori, come proprietari degli impianti, come investitori.
Siamo assolutamente concordi con chi sostiene che gli esseri umani non sono i proprietari del pianeta, ed esecriamo il fatto che la terra possa essere ed essere stata nei millenni compravenduta, recintata, delimitata, sfruttata, conquistata. Ma le posizioni rigide, di fronte ad un problema di questa portata, non sono solo inutili: sono dannose perché oggi è quanto mai opportuna una nuova visione.
Non si tratta, naturalmente, di comprare acqua: lo consideriamo semplicemente impensabile. Si tratta di diventare concessionari delle numerosissime fonti inutilizzate esistenti, oltre che comproprietari di tutto ciò che attiene al servizio, vale a dire impianti, rete distributiva e strutture accessorie.
Per farlo è indispensabile costituire delle società, i cui soci siano gli utilizzatori del servizio ed estremamente rappresentative del concetto di democrazia partecipata. Le società opereranno a livello locale e potranno essere confederate in un organismo in grado di fornire servizi a valore aggiunto: assistenza normativa, rapporti con le istituzioni, consulenza finanziaria e progettuale.
Il tutto potrà essere accorpato in un Fondo, strumento che potrà garantire la maggior tutela ammnistrativa, normativa, finanziaria
I benefici per i soci consisteranno prevalentemente nella garanzia di non dover corrispondere a terzi il costo dell’acqua in un contesto che potrebbe andare fuori controllo e, grazie ad opportune economie di scala, attuare delle politiche economiche e normative affinché il costo corrisponda agli oneri del servizio: manutenzione, depurazione, ammortamento degli impianti.
Il fenomeno, precipuamente locale,
potrebbe via via interessare luoghi, territori e bacini di utenza sempre più estesi, non solo a livello nazionale e non solo legati a realtà di cohousing, autogenerando aree su cui creare valore: in questo campo, la start up giusta al momento giusto avrà infatti risultati che non esitiamo a definire impensabili. Le questioni relative all’utilizzo dell’acqua sono e saranno per un bel pezzo – almeno fino a quando e se i mega acquadotti saranno costruiti – su base locale e ci sarà spazio per notevoli interventi.
Detto in altri termini: finanza, Si, finanza, ma con una connotazione sociale, etica. Si, ma come, e in quali nicchie, è possibile trovare il modo di generare valore?
La prima e più semplice nicchia da sviluppare sarebbe sicuramente quella dello stock picking sul settore, dato dal sicuro e gigantesco afflusso di denaro in un comparto relativamente immobile, che potrà ove incontrollato generare importanti fenomeni speculativi che potremo così contribuire ad arginare.
I trend su cui agire potrebbero essere i seguenti:
– riunificazione delle utilities di settore, da una base locale e via via in crescendo; puntare sul cavallo vincente sarà persino facile e su questo punto ci sarà anche l’opportunita’ di soddisfare gli investitori più conservativi perché queste nuove mega utility dovranno necessariamente finanziarsi con obbligazioni ad alto rendimento: per fare un esempio, come fa oggi SNAM che emette obbligazioni al 3 per cento netto, che gli investitori istituzionali si strappano di mano come fossero oro! E noi, in un’economia allargata e multifunzionale che comprende l’acqua ed il suo indotto, i cohousing e le loro produzioni, oltre a tutte le attività collaterali, potremo garantire molto di più.
– sviluppo di infrastrutture sovranazionali, altrimenti definibili Mega Water Projects. E qui siamo all’anno zero. Ma anche questo sarà un trend inevitabile. Portare l’acqua da dove c’è a dove non c’è in maniera radicale. Persino in America qualche analista del settore sta incominciando a proporre un mega acquadotto nord-sud, dalla regione dei Grandi Laghi (Erie, per capirci) a New Orleans ma le resistenze sono ovviamente immense. In Europa non osiamo neanche pensare, in Asia poi sarà da ridere visti le storiche rivalità. Ma anche qui, prima o poi chi potrà dovrà farlo. E qui ovviamente lo stock picking potrà essere incredibilmente efficiente e capace di generare grandi risultati.
Il problema dell’acqua però oggi come oggi non si manifesta su base nazionale. Gli esempi che abbiamo avuto nell’ultimo quindicennio riguardano problemi nati su base regionale o addirittura a livello di singola città, in cui le autorità, non essendo state previdenti prima, hanno incominciato a razionare l’acqua e a proporre soluzioni tampone sull’utilizzo quotidiano.
In questo momento stiamo ancora parlando di stock picking e anche in quest’area ci sono grandi opportunita’, da parte di start up che si occupano di specifici problemi: depurazione – fondamentale, specialmente dell’acqua di mare – purificazione da contaminazione esterna o da tracce di medicinali ed altre sostanze, ridotto utilizzo. Nicchie specifiche, insomma.
La componente finanziaria è sicuramente degna di nota, ma non rappresenta un motivo sufficiente per sviluppare una struttura tecnica in grado di sostenere un flusso informativo del tipo finora descritto. Occorre qualcosa di più. Cioè, che cosa?
Una parte educational di tipo classico dedicata al grande pubblico? Sicuramente interessante, ma insufficiente, vista la difficoltà di creare calore in questo ambito, fatta salva, ammesso di trovarli, la presenza di sponsor interessati a creare consapevolezza nel pubblico.
La nostra risposta è: p
artiamo da un concetto di base: sul problema acqua esistono al momento relativamente poche competenze che sono state sviluppate in un numero relativamente basso di aree a livello mondiale. Aree dove situazioni di siccità’ di lungo periodo hanno richiesto la gestione di soluzioni spesso altamente innovative.
Ma questo know-how base non è stato condiviso in maniera significativa e anzi è stato spesso confinato nei ristretti ambiti locali di attuazione. Per fare un esempio, certe soluzioni incredibilmente innovative sviluppate in numerose città australiane od israeliane, veri laboratori a cielo aperto dei problemi dell’acqua, non sono minimamente conosciute in Europa o nel resto del mondo occidentale, per esempio impianti di desalinizzazione dell’acqua marina con caratteristiche uniche.
Considerata l’importanza delle immagini, spesso prevalenti rispetto alle parole in quanto maggiormente efficaci, è nostro intento sviluppare una trasmissione video settimanale rivolta ad un pubblico professionale di settore, tecnico ed a politici (non serve che siano illuminati, è sufficente che siano onesti e non pressapochisti, e già trovane sarà un’impresa, almeno sic stantibus rebus…), che parli delle soluzioni innovative già sviluppate, descrivendole nei dettagli, e che illustri come i problemi che potrebbero presentarsi siano già stati risolti altrove.
La trasmissione potrebbe essere sviluppata in più lingue, magari attraverso un canale interattivo e con la possibilità di interazione da parte degli abbonati.

Ricapitoliamo quindi brevemente quali e quante attività potrebbero, se unite adeguatamente e coordinate sotto un’unica piattaforma di comunicazione video/interattiva, generare valore in questo settore:
Area finanziaria, stock picking, ricerca
Area servizi su start up innovative con possibilità di contatto
Area educational e di responsabilita sociale rivolta al grande pubblico
Area knowledge base e best practices  internazionali, rivolta a tutti gli operatori del settore
Questi quattro pilastri, se ben coordinati e sviluppati armonicamente, potrebbero garantire nel lungo periodo una base di servizi promozionali in grado di generare adeguato valore per i potenziali investitori.

Alberto C. Steiner