Campo: una petizione per salvare le antiche mulattiere

KL Cesec CV 2014.01.31 Campo Petizione 002Per favorire lo sviluppo sostenibile del territorio scongiurando degrado, danni ambientali e speculazione è nato il Comitato Tutela Sviluppo Garda Baldo ONLUS, che ha sede in località Cà Politei a Brenzone ed opera nell’ambito della Provincia di Verona nei territori dei comuni dell’alto lago.KL Cesec CV 2014.01.31 Campo Petizione 001Il Comitato ha promosso tramite il sito Petizione Pubblica una petizione per favorire l’accessibilità al “Mont” attraverso la realizzazione di nuovi percorsi alternativi, per esempio lungo il tracciato da Villanova fino a Cà dell’Umen per creare un collegamento con la strada di Tenuta Cervi in Comune di San Zeno di Montagna, oltre che la sistemazione ed il recupero della mulatiera Campo – Cà Politei – Prada, l’antica strada di comunicazione dal Garda al Baldo fra le varie frazioni di Brenzone, così da far tornare a vivere luoghi oggi in stato di abbandono.
Segnaliamo l’iniziativa auspicando che sia coronata dal successo che merita, indicando i link per chi volesse saperne di più e sottoscrivere la petizione: www.gardabaldo.org e www.petizionepubblica.it/PeticaoVer.aspx?pi=Mont.KL Cesec CV 2014.01.31 Campo Petizione 003

Da comune hippie a Fondazione: in Svizzera può accadere

Mentre da noi ci si gingilla con fondazioni che servono prevalentemente ad arraffare quattrini, si istituiscono osservatori e si tengono convegni in una sarabanda di tavoli aperti e chiusi mentre certi borghi, veri e propri gioielli, vanno in malora, nella vicina Svizzera accadono cose molto concrete.KL Cesec CV 2014.01.31 EcovillaggioCes 002Monte Chiesso, Canton Ticino, Svizzera: luogo di ecologismi un po’ radicali ripartito tra un antico villaggio costituito da venticinque case in pietra ed un’azienda agricola è una enclave un tempo decisamente fricchettona. Gente radicale ma simpatica, proveniente da mezza Europa e dove spicca una parlata che suona pressappoco così: A-zont andàa a cattàa i verz, hoo dovùu fal cont i man… nue ca l’è ca te l’è mettüù ol zapètt? Ah damm a traa, ta la fètt tii la bügada ztasira? Traduzione, anzi traduzzzione: Sono andato a cogliere le verze, ho dovuto farlo con le mani… dove hai messo la zappetta? a proposito, lo fai tu il bucato questa sera?KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 003Il villaggio montano, situato non lontano da Locarno ad un’altitudine di 1.450 metri, è praticamente disabitato d’inverno ma variamente vissuto d’estate, quando risuona dello sciabordio, anzi del mantra, di un’impetuosa cascata. Abitato a partire dal sedicesimo secolo, durante la II Guerra Mondiale accolse partigiani, rifugiati e famiglie ebree in fuga.
Ma negli anni Cinquanta gli allettanti agi cittadini sradicarono anche i più tenaci, lasciando il posto ai camosci finché, all’alba dei moti sessantottardi, decise di avventurarvisi in una temeraria azione di recupero (alcuni anche perché ricercati dalla polizia in quegli anni formidabili) un gruppo di giovani locarnesi ai quali si aggiunsero zurighesi, qualche olandese nonché alcuni milanesi che, oggi ormai nonni quelli che non sono nel frattempo morti di Aids o di epatite, ed ormai usciti di galera quelli condannati per tangenti, pedalano tuttora eco-chic per le vie ambrosiane pur avendo la Morgan in garage.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 001Volutamente dis-organizzati in una comunità di ricerca politica, ecologica, sociale e spirituale, a partire dal 1972  trasformarono Ces, così si chiama la località, in luogo alternativo e aperto, dove la cristallina selvaticità dell’ambiente potesse coniugarsi alla ricerca di una purezza interiore: organizzarono campi estivi, corsi, gruppi di autocoscienza che riuscirono a coinvolgere tantissimi giovani. Ogni tanto arrivava la polizia, sequestrava un po’ di maria e se ne andava, preferendo con calvinista pragmaticità non intraprendere ulteriori iniziative perché, in fondo, quella banda di ragazzi non faceva male a nessuno e almeno lì era fuori dalle palle.
Successivamente nacque la tuttora esistente Fondazione per la rinascita di Ces che ha tuttora, con i suoi quasi quaranta membri, la responsabilità del borgo montano. Oggi le case, ristrutturate e fornite di pannelli fotovoltaici, hanno mantenuto gli originali tetti in pietra mentre gli interni sono stati rivestiti in legno.
Arrivare a Ces richiede impegno: bisogna camminare per circa due ore su di un sentiero che può scoraggiare i meno convinti, osservati severamente da castagni pluricentenari e, non di rado, sotto una pioggia torrenziale. A Ces si vive volentieri a lume di candela, ci si scambiano massaggi, si consumano prevalentemente prodotti biologici locali, alcuni coltivati negli orti del villaggio, altri recapitati da una teleferica. Ma non si rinuncia ad olio, pasta e vino che arrivano dalla realtà comunitaria de Il Casale, vicino Pienza in provincia di Siena. Una particolarità: i gabinetti sono comuni, posti ad un’estremità del villaggio poiché strutturati per il compostaggio a secco.
Apparente stranezza nella piazzetta principale del borgo, la piccola chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo ottimamente restaurata. Niente affatto strano, invece, veder pascolare liberamente lungo i sentieri polli e vacche, alcune sacre in quanto appartenenti ad una donna hindu. Sotto una tettoia una serie di vasche comunicanti, continuamente irrorate dal gettito continuo di acqua sorgiva, garantiscono refrigerio a bidoni di latte, burro e lievito di birra mentre ortaggi e frutta vengono conservati in una cantina seminterrata.
Durante la stagione estiva alcune case vengono affittate o tenute a disposizione dei volontari del Servizio Civile Internazionale, impegnati in lavori di recupero.
E, chi vuole salire ancora, può giungere a quota 1.537 dov’è situato l’ancor più minuscolo villaggio di Doro, abitato da alcune coppie che allevano capre ed hanno dato vita all’azienda Monte Sponda, specializzata nella produzione casearia. Figura mitica, da qualcuno definita ginsberghiana-shivaita, è il Giovanni che vive vestito di pelli di capra insieme con due donne in un tepee – sia pure munito di pannello fotovoltaico per alimentare l’irrinunciabile radio –  e che, pur avendo contribuito a parte dei lavori nel borgo, ritiene che i membri della fondazione: “Discutono troppo, si sono imborghesiti e nella realtà dei fatti un solido progetto comunitario è ancora di là da venire“.
Il Giovanni, tra l’altro, costituisce anche la risposta all’eventuale domanda: quando e perché i ragazzi milanesi se ne andarono, tenendo altresì presente che qualcuno di loro raggiunse il fondovalle vagamente saccagnato… e poi divenne avvocato o commercialista, non escludendo di conseguire rosee, o per meglio dire rosè, mire politiche. Chi volesse saperne di più può trovare i sopravvissuti al Radetzky in largo la Foppa all’ora dell’aperitivo, ormai inconsolabilmente orfani della libreria Utopia che ha chiuso i battenti poco tempo fa, ma accompagnati dagli inseparabili pointer o levrieri afgani, a pontificare di migranti e cultura altra. Qualcuno si è riciclato nel terzo settore, c’è chi addirittura ha aperto una banca. Neanche a dirlo: etica e solidale.
Fin qui la storia di quello che, pur non essendo l’antesignano degli ecovillaggi svizzeri, è sicuramente il più coreografico.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 004Qualche tempo fa la Fondazione, ormai attiva sul web, in attività redazionali ed editoriali ed in alcune trasmissioni radiofoniche piuttosto seguite in Italia, lanciò un questionario. Il tema, che riprendiamo poiché suona come un chiarissimo manifesto, era:
Il cohousing, semplificando, non è altro che il condividere degli spazi abitativi con altri nuclei familiari. E’ una interessantissima soluzione, che risolve sia l’ottimizzazione degli spazi sia il concetto di integrazione e comunità di persone appartenenti a gruppi omogenei. E’ indubbio che nel venirsi a creare un progetto di cohousing, uno degli aspetti più importanti sia quello di redigere un’idea adatta al territorio e ai potenziali residenti.
In questo modo possiamo ottenere dei complessi abitativi ecosostenibili, con costi accettabili e studiati per integrare ed aggregare le persone. Se ci pensiamo potrebbe essere non solo la soluzione per condividere ad esempio la centrale termica, la lavanderia, la sala attrezzi, un tagliaerba per tutte le famiglie, ma anche la possibilità di avere un orto suddiviso, magari con serre  per verdure buone a costo quasi zero, un mini nido gestito dai residenti ma anche la possibilità di avere un locale comune per gli ospiti, una sorta di foresteria che potrebbe anche essere affittata come B&B e portare piccole entrate per le spese correnti. Secondo voi, quali zone possono essere condivise e quali no?
Tra le numerosissime risposte pervenute ce ne sono state segnalate alcune tra quelle giunte dall’Italia.
Gianfranco
La mia risposta è in realtà una domanda: perchè noi dobbiamo dividerci cose o zone, poi con le tasse che paghiamo dobbiamo arrivare a livelli così… quando i nostri politici sperperano soldi pubblici e cioè nostri, abbiamo bellezze architettoniche o costruzioni lasciate lì a marcire per mancanza di fondi e causa sprechi o lentezze burocratiche non possono essere destinate ad altri usi?
Lorena
All’inizio mi piaceva. Poi mi sono ricreduta. E’ una cavolata megagalattica. Lavanderia: separata dal corpo delle abitazioni, se hai la jella di abitare lontano devi farti tutto il cortile coi panni da lavare e viceversa, e d’inverno e quando piove? I bambini meglio madarli all’asilo, tutti vogliono parcheggiare i pargoli poi alla fine nessuno vuole prendersi la responsabilità di curare quelli degli altri. L’orto? Come l’asilo, tutti vogliono raccogliere ma quelli che zappano e seminano alla fine sono sempre gli stessi. Tosaerba: cos’è? Il locale in comune per le feste poi è una tragedia: ogni volta che ne hai bisogno tu è già accupato. No parliamo della pulizia… Insomma: meglio la casa di ringhiera!
Marco
Noi Italiani non siamo culturalmente preparati a esperienze simili, la casa è sempre e sempre sarà un focolare molto intimo, dove difficilmente si condividono interessi di gruppo. Io personalmente avrei forti dubbi nel condividere parti comuni con una persona sconosciuta, sono convinto che ci sarebbero problematiche irrisolvibili per chi deve o non deve fare. L’intimità deve prevalere, almeno nell’ambito abitativo è impensabile che acquistata una casa con sacrifici e rinunce debba trovarmi nella situazione di condividere parti comuni con persone che, culturalmente sono lontane anni luce dalle mie idee. L’ipocrisia non è nel mio dna e devo ammettere che condividere parti comuni con un mussulmano o altro, non sarebbe una cosa fattibile. Datemi pure del razzista, non mi preoccupo per questo, l’importante che la casa rimanga un luogo dove condividere gioie e dolori, solo con le persone che amo.
Marcello
Non sono d’accordo che vivere in un appartamento sia una forma di cohousing, una persona non condivide nulla con gli altri inquilini, spazzatura a parte. Quando chiudo la porta d’entrata, automaticamente mi creo una situazione di assoluto isolamento. E’ vero che posso sentire quello che dice il mio vicino di casa, ma tra lui e la mia famiglia c’è in ogni modo, una parete che divide e protegge.
Trovarsi in situazioni come ad esempio, dividere le spese sopportate da persone che accettano di vivere in una comunità, non è facile come dirlo. Sappiamo tutti che, mettere d’accordo un numero imprecisato di persone è veramente una fatica enorme e la vita in comune è assai complicata: tra marito e moglie, spesso si intraprendono discussioni per futili motivi, figuriamoci cosa succederebbe in caso di persone che si conoscono da poco tempo, sarebbe veramente complicato.
In questo particolare momento che stiamo vivendo, le persone hanno sempre meno voglia di ascoltare e i rapporti che si creavano fino a qualche anno fà, erano diversi. Oggi si parla solo ed esclusivamente con il computer o con il telefonino e la gente è sempre meno propensa a fare amicizia e su questo bisognerebbe aprire un dibattito. Persone sempre più arrabbiate e pronte alla lite, sostanzialmente vogliose di rimanere sole e senza troppi problemi.
Troppi galli in un pollaio, non possono convivere, la gente non è pronta e non lo sarà mai, a meno che, non cambi radicalmente la vita.
Luciano
Per quindici anni ho vissuto a Lugano in una palazzina di 22 famiglie con relativi spazi comuni tipo lavanderia e relativa asciugatrice,locale ludico con flipper,calcio balilla,piccola biblioteca,computer collegato a internet(nel 1993 era una cosa all’ avanguardia),campo di calcio e campo di hochey a rotelle,un campo da tennis su terra rossa.Nel locale ludico si sono tenuti corsi di vela, corsi di subacquea,diversi corsi sulla sicurezza in ambiente domestico,presentazione di birre artigianali,ecc.ecc.ecc.
Mai un problema per 15 anni.Il cohousing non è fattibile per noi italiani ,ma è un nostro limite su cui meditare e riflettere.Con questo non dico che vivere in Svizzera sia tutto rosa e fiori.
Serena
Premetto che sono abituata a vivere in case singole, sicuramente il cohousing non è per tutti, specialmente se consideriamo come siamo noi italiani, ma quali sono alla fin fine le differenze dal vivere in condominio? Gli spazi comuni sicuramente andranno studiati in base alla nostra cultura ed alla nostra mentalità, nella peggiore delle ipotesi si litigherà come accade sempre tra condomini, ma se si valutano i risparmi ed i vantaggi che da esso possono scaturire credo che la maggior parte di noi dovrà ricredersi ed ammettere l’interesse.
Facciamo l’esempio della città di Modena, ha fatto un bando per presentare progetti di cohousing da parte della popolazione e la cosa ha avuto scarso riscontro, mentre a pochi chilometri di distanza in un paese della provincia hanno già fatto realizzazioni. Credo che, fatto nei dovuti modi, potrebbe essere simile alle realizzazioni nelle zone Peep, dove si costituiscono le cooperative per l’assegnazione del terreno o della casa.
Non siamo così diversi, per esigenze, dalla maggior parte della popolazione, siamo solo più ottusi ed in un momento di regressione non farebbe male a prendere in considerazione questa formula inventata da paesi di certo più evoluti di noi.KL Cesec CV 2014.01.31 Ecovillaggio Ces 005I membri della Fondazione ci hanno infine fornito una risposta, che è il condensato di quelle fornite singolarmente:
Che la classe dirigente debba cambiare modus operandi e che la tassazione italiana debba essere rivalutata è fuori dubbio: non fatevi più fregare votando sempre gli stessi! ma non siamo qui per parlare di politica.
Il cohousing, indipendentemente dalla situazione economica dovuta a questa crisi, potrebbe essere di aiuto per esempio alle giovani coppie che in ogni caso avrebbero problemi ad acquistare la casa. E non solo a loro.
Certamente, il patrimonio immobliare esistente deve essere il più possibile recuperato e ristrutturato con  intelligenza. Esistono già dei progetti realizzati proprio su questa direzione.
I dubbi di Lorena sono legittimi e condivisibili da chiunque. Bisogna però considerare che il cohousing deve prevedere già a livello progettuale le necessità dei futuri residenti e la pianificazione urbanistica del progetto stesso: ovvio che la lavanderia non deve essere lontana, e che l’orto andrebbe suddiviso, ognuno si coltiva il proprio, molti attrezzi e l’impianto di irrigazione potrebbero essere in comune. Poi, se qualche volontario appassionato vuole aiutare gli altri, tanto meglio. Noi, nonostante la nostra partenza, abbiamo saputo adattarci ad un mondo che è cambiato e, pur non rinnegando la nostra matrice, non siamo più favorevoli alla visione del cohousing tipo hippie, ma riteniamo che ogni nucleo familiare debba avere la propria indipendenza, ma nel contempo dividere certi costi e certe spese. Questo può solo aiutare.
Un nuovo progetto di cohousing, prevede delle linee guida proposte dai promotori e da implementare e discutere con i futuri residenti. In tal modo si litiga prima e non dopo.
Vivere in condominio è già una forma di cohousing, ma ad ogni riunione ci sono liti. In questo modo verrebbero eliminate alla base. Lo ripetiamo, dipende molto dal progetto.
Un esempio molto banale: alcuni di noi hanno vissuto in Germania per un paio d’anni, ed in tutti i condomini c’era la lavanderia, inclusa nei costi condominiali. Ogni condomino aveva a disposizione un monte ore in base al nucleo familiare, bastava scendere e prenotare gli orari su un’apposita lavagna. Si tratta di una questione culturale.
Indubbiamente il cohousing non è per tutti e per esempio non vediamo la condivisione della cucina. Ma se studiato bene diventa un bell’esercizio di vita. Nella piccola contrada di montagna dove viviamo vige la regola non scritta che tutti si aiutano. Ci diamo il cambio per portare i bimbi a scuola, quando qualcuno scende in paese chiede agli altri se hanno bisogno di qualcosa al supermercato, ci si ritrova per preparare gli orti di ognuno, eccetera. Ci creda, non solo non costa nessuna fatica ma si viene anzi di coseguenza aiutati e si risparmiano dei bei soldini. Ed è un piacevolissimo momento di coesione, che termina sempre a tarrallucci e vino: un ottimo antistress. Crediamo infine che varcare il confine e vedere cosa c’è di buono, tornare a casa e studiacchiare per come renderlo adatto al nostro paese per migliorare la qualità di vita debba essere un ottimo esercizio che qualcuno dovrebbe avere la volontà di fare. Così diventerebbe, forse, anche meno ottuso e razzista da ignorante che ha visto solo il confine delle proprie montagne e crede che il mondo sia tutto lì.
Infine, il cohousing non è una forma di condivisione all’insegna del volemose bene, ma un progetto studiato a priori, dove ci si sceglie tra simili anche sotto il profilo delle capacità finanziarie, delle aspettative e delle aspirazioni, al fine di avere ciascuno la propria casetta ed il proprio giardinetto privato, condividendo invece con gli altri spazi che non recano disagio ma che aiutano a ridurre le spese. Oltretutto questa forma associativa porta notevoli vantaggi in termini, come si dice, di economia di scala per l’acquisto comune del lotto di terreno o del borgo da recuperare, delle strutture e dell’impiantistica.

Malleus

Monza: il cohousing si farà. Ma anche no.

Stanno per essere diffusi nella città di Monza i risultati di un’indagine esplorativa svoltasi a partire dal novembre scorso ed il cui bando si è chiuso l’8 gennaio, finalizzata all’acquisizione di manifestazioni di interesse per la realizzazione di un edificio polifunzionale. Destinato a coresidenza per giovani studenti e lavoratori, giovani coppie, centro di quartiere con servizi per l’aggregazione e la socializzazione oltre che per formazione e lavoro, verrebbe realizzato in un’area situata tra le vie Andrea Lissoni e sant’Andrea, prospiciente il Parco, edificando su campi di calcio dismessi. L’oggetto riguardava una palazzina della superficie di 3.930 mq nella quale ricavare 30 miniappartamenti, sita sulla medesima area dove sorgeranno quattro palazzi privati, acquisita dal Comune in conto oneri per una licenza edilizia concessa alla società di web-hosting Aruba in un altro quartiere cittadino.KL Cesec CV 2014.01.30 Monza Cohousing Aerea 001Nell’avviso diffuso a novembre erano previsti appartamenti in vendita, in locazione a canone agevolato ed eventualmente forme di affitto/riscatto.
L’idea è nata dal fatto che anche nel capoluogo della Brianza l’emergenza casa si fa sentire, e l’Amministrazione comunale aveva pensato di sviluppare una residenza in cohousing sociale, poiché andare a vivere da soli è la grande scommessa che gran parte dei giovani stanno cercando di vincere: affitti alti, mutui impossibili da ottenere, sempre meno soldi in tasca sono ostacoli noti ai ragazzi che tentano di affrancarsi da mamma e papà.
L’idea è partita dallo staff dell’attuale sindaco Roberto Scanagatti, che ha avviato con serietà e determinazione un’opera di ricostruzione, prima di tutto etica basata sulla fiducia, sulla trasparenza e sulla partecipazione. Da sempre intollerante verso gli sprechi, una delle azioni più incisive sin qui condotte dall’attuale giunta è chiara nello slogan Consumo del territorio uguale a zero. Naturalmente non significa impedire lo sviluppo della città, ma scegliere di usare le aree dismesse, notevolmente estese e spesso  da bonificare da svariati materiali inquinanti, salvando le aree verdi e quelle agricole e favorendo  l’edilizia bioclimatica per migliorare la qualità ambientale.
Per chiarire il concetto, in città non si è ancora spenta l’eco di una querelle ventennale che aveva per oggetto un grande appezzamento di terreno agricolo sottoposto a tutela ambientale acquisito dall’esponente di un noto gruppo imprenditoriale che intendeva ricavarne una lussuoso complesso residenziale.KL Cesec CV 2014.01.30 Monza piazza del MunicipioEd ora, prima di riportare gli esiti dell’indagine, mi sia consentita una divagazione, niente affatto peregrina ma utile ad inquadrare il contesto di una città dove la previsione di espansione edilizia prevista nella variante al PGT era abnorme, di una città dove il dettagliatissimo PRG messo online nella primavera 2002 è scomparso dai server (e chi lo possiede si comporta, giustamente, come se custodisse i Rotoli del Mar Morto) per lasciare il posto al vecchio ed illeggibile PRG risalente al 1971.  Di una città dove da oltre un decennio la popolazione è stabile e il fenomeno degli alloggi sfitti non diminuisce: significa che i proprietari, in non rari casi di notevoli patrimoni immobiliari, preferiscono tenere gli appartamenti chiusi piuttosto che affittarli ad un canone non di loro gradimento.
Di una città, infine, dove nel 2002 a chi scrive venne conferito dall’allora sindaco l’incarico riservato di monitorare aree dismesse ed immobili inutilizzati per individuare – nell’ottica della provincia di Monza e Brianza allora in fase di cosituzione – spazi di ricettività turistica che andasse oltre i pochi alberghi cittadini, oltre che residenziale da considerare per edificazioni convenzionate per accogliere nuovi residenti.
L’incarico era talmente riservato che dopo un quarto d’ora lo sapeva tutta la città… ma non siamo a Los Angeles.
Nel pomeriggio del giorno successivo al conferimento dell’incarico chi scrive incontrò (casualmente?) in una delle (tre) centralissime vie della città la facoltosa proprietaria di uno sterminato patrimonio immobiliare che, salutandolo, così lo apostrofò: “Ma ingeggnuere, cosa ciui sta combinando! case popolari in ciuentro? Ma per i poveri ci sono Bresso, Cinisello, Muggiò!… E poi anche lei abita qui, è un po’ come sentirsi traditi da uno di noi…” Aria finto contrita (la mia) e poi via con il carico da undici circa il messaggio mafioso affidato alla garrula troia. Per la cronaca lo scrivente completò l’incarico ma, sempre per la cronaca, non se ne fece nulla e dopo un po’ cambiarono sindaco e giunta.
Ed eccoci dunque all’esito dell’indagine esplorativa. Interesse da parte dei potenziali acquirenti od inquilini: tantissimo. Interesse da parte dei potenziali costruttori, cooperative comprese: zero.

Malleus

Vorrei uno chalet svizzero. Mi dispiace, si è inceppata la stampante.

L’avevamo già letto l’anno scorso su Livescience e su Daily, ed ora lo ritroviamo su Focus di gennaio.
Nei laboratori dell’Università della Southern California giurano che si può: stampare case in 3D non è una missione impossibile. Infatti hanno creato un robot in grado di stampare (leggasi costruire) in 3D un’intera abitazione.
In un futuro neanche tanto lontano l’intero comparto dell’edilizia potrebbe essere totalmente rivoluzionato da questa gigantesca macchina dotata di due braccia meccaniche capaci, mediante un procedimento detto countour crafting, di creare in sole 24 ore una casa a due piani di circa 240 metri quadrati.
Le braccia meccaniche si muovono su due binari come una gru aggiungendo strato per strato tutti i componenti edili dell’edificio e riducendo al minimo gli sprechi, senza l’ausilio di muratori, manovali, falegnami, lattonieri o carpentieri. La macchina riceve istruzioni computerizzate per interagire con una pompa per il getto del materiale usato per edificare, composto da due parti di calcestruzzo standard, due parti di sabbia e una parte d’acqua. Un software avrà cura di guidare la gettata lungo i profili dei tracciati che si basano su elaborati planimetrici, realizzati dai progettisti e convertiti in codice per essere interpretati dal software. Una volta terminata la realizzazione dei muri, agli operai umani resterebbero le finiture: posa dei pavimenti, impianti idroelettrici e sanitari, infissi e serramenti, riscaldamento.
Il robot sarebbe addirittura socialmente utile: in caso di calamità naturali potrebbe essere facilmente trasportato sui luoghi dei disastri ed essere impiegato per la rapida realizzazione di rifugi di emergenza.
Relativamente alla robustezza ed all’antisismicità l’inventore ed il suo team di ingegneri sostengono che le case costruite in questo modo sono molto più robuste di quelle tradizionali, poiché i muri stampati dalla Contour Crafting sono formati da due profili di cemento separati da un distanziale, e lo spazio interno viene riempito con altro cemento sagomato a S. No comment…KL Cesec CV 2014.01.30 Case 3DL’inventore, il professor Behrokh Khoshnevis, ha dichiarato: “L’obiettivo finale è quello di automatizzare la costruzione delle case senza necessità di impiegare manovalanza. Il vantaggio di questa tecnologia permetterà di costruire alloggi d’alta qualità a basso costo. Questa nuova tecnologia, secondo le mie previsioni, migliorerà l’economia perché darà impulso al settore dell’edilizia con nuove opportunità d’investimento“.
Il novello Stranamore è convinto che l’utilizzo della sua tecnologia durerà nel tempo e si proietterà nel futuro, quando i suoi macchinari robotizzati verranno portati nello spazio guidati da terra, per costruire sulla Luna e persino su Marte le città che accoglieranno i futuri colonizzatori. L’idea di un robot che può essere inviato su un pianeta extraterrestre per costruire autonomamente un edificio apre a scenari da fantascienza, e non poteva non incuriosire la Nasa, che avrebbe avviato studi per renderla realizzabile).
Questa tecnologia è come una roccia in equilibrio in cima alla montagna” ha spiegato l’inventore “basta una spintarella per provocare un’inarrestabile valanga di idee“. Già, anche con i castelli di carta succede così. Però, esimio professor-ingegnere-inventore, una roccia che cade da una montagna si chiama frana… ci dia retta, si sputtana se va in un cantiere a parlare di valanga. Già ma, esimio, c’è mai stato, lei, in un cantiere?

L’autobus del futuro è interattivo

Si chiama Willie, quasi come Un amico da salvare o come il simpatico fuco fancazzista amico dell’Ape Maia, anche se a nostro avviso non ha nulla di amichevole, lo troviamo anzi temibile. E’ un autobus articolato lungo 18 metri pensato per il circuito urbano e potrebbe incombere sulle nostre strade in un futuro nemmeno troppo lontano.
La tecnologia che presiede alla sua ideazione esiste già: si tratta di disseminare le fiancate del veicolo di schermi LCD trasparenti touchscreen, attualmente prodotti in serie ed utilizzati per numerosissime applicazioni.KL Cesec 2014.01.28 Willibus 001In questo modo finirebbero in cantina le pubblicità realizzate su supporti cartacei e con pellicole microforate, perché gli autobus del futuro sarebbero ricoperti di schermi, trasformando il veicolo in un mezzo che non si limita a trasportare passeggeri bensì a riportare su di sè indicazioni stradali sul percorso, ultime notizie, informazioni di intrattenimento, bollettino meteo, stampa e copertura televisiva, informazioni turistiche presentate in maniera accattivante, condizioni del traffico, e naturalmente la pubblicità dimensionata come su un cartellone, però dinamica, multimediale e interattiva.

Guardate il filmato cliccando qui.

Willie è stato definito “un concept interessante che utilizza le nuove tendenze della tecnologia per trasformare i paesaggi della città e fornire un ulteriore ragione per muoversi in città“. Per trasformare i paesaggi della città? Aiuto!
L’idea, definita progetto avveniristico, è da attribuire a tale Tad Orlowski, a sua volta definito designer, relativamente al quale siamo riusciti a scoprire – oltre al bus Willie per ora fortunatamente solo allo stadio di rendering dinamico – soltanto un sito che raffigura modelli ignudi fino alla cintola in pose da machos fatali.KL Cesec 2014.01.28 Willibus 002E veniamo alle nostre considerazioni.
Nulla sappiamo circa ciò che, in materia di sicurezza attiva e passiva, prenderà il posto delle fiancate in lega o policarbonato, sappiamo però che in caso di urto il fatto che si sviluppi un incendio con emissione di gas tossici non è una possibilità, è una certezza.
Ci immaginiamo inoltre noi stessi che, per conoscere la direzione dell’autobus e gli eventuali punti di interscambio ci mettiamo a guardare sulla sua fiancata nei circa 10 secondi in cui è fermo alla fermata… No, non ci sembra un’evoluzione ma solo un’abuso tecnologico, fatto perchè fa tanto figo.
Mica è finita. Non ci sono più le Prinz verdi ed i relativi conducenti con cappello, ma i rimbambiti sulle Strade d’Italia sono aumentati in maniera esponenziale:
Amo guarda, i nuovi orecchini di Marmellato! Dove? Dove? Dove? Ahhhh! #Crash!#
E, giusto per finire: evidentemente non bastavano i monitor che ci ammorbano in stazioni ferroviarie e metropolitane, i pannelli Lcd che incombono su vie e piazze, le musiche a palla che fuoriescono da store di vario genere per contribuire al rincoglionimento di massa, all’anestesia tendente a mantenere inalterato il sonno del popolo bue.

Malleus

In Valtellina alla scoperta dei vini pugliesi

Domani 24 gennaio serata enogastronomica a Bianzone, tra Sondrio e Tirano lungo la strada dello Stelvio, dove la delegazione valtellinese dell’ONAV, Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino, ha programmato un evento alla scoperta dei vini pugliesi prodotti con uva Primitivo, che verranno messi a confronto con altre produzioni dello stesso territorio: sarà una bella gara tra sapori corposi e niente affatto morbidi.KL Cesec CV 2014.01.23 Bianzone ONAVKL Cesec CV 2014.01.23 Onav SondrioOspite della serata sarà Enzo Scivetti, commissario regionale ONAV nonché delegato ONAV di Bari, grande esperto di vini e degustatore d’eccellenza. La serata, che si terrà a partire dalle ore 20:30 nella tenuta La Gatta – Triacca di Bianzone, si concluderà accostando i vini pugliesi con i piatti tipici della tradizione valtellinese: pizzoccheri, sciatt, polenta taragna.
La partecipazione è libera ma è necessario prenotare (onavsondrio@gmail.com oppure sondrio@onav.it) perchè i posti sono limitati.

In Brianza non crescono più gli ulivi

Ovvero della crisi che fa bene all’anima…
Sono approdato in forma stanziale, benché casualmente, nel capoluogo dell’Operosa Brianza quattordici anni fa ed ho potuto assistere ad una profonda deriva, per esempio dall’esibizione di una ricchezza sfacciata ad uno stile di vita più sobrio, dovuto sostanzialmente al fatto che chi non ha soldi non ne ha, mentre chi li ha ha imparato a tenere un profilo basso perché non si sa mai…
Debbo aggiungere, non perché credo che interessi chi legge ma giusto per scrivermi un po’ addosso, che pur discendendo da una nonna materna (mai conosciuta) appartenente ad un’antica famiglia concorezzese dal cognome che più doc in senso brianteo non si può, già attiva sin dalla fine del XIX Secolo proprio a Monza  nel fabbricare nastri e cappelli, non mi sono mai sentito parte di quel mondo preferendo storie di nebbie e lagune e, proprio quando sentivo il bisogno di parenti e terraferma, frequentando certi cugini pastori e muratori arroccati su un monte bergamasco.
Accampatomi dunque a due passi dal duomo in quello che, risalente al XVII Secolo, fu dapprima convento e poi casa ultrapopolare allorché i monasteri vennero sbaraccati dal Bonaparte e successivamente stalla, caserma della polizia, cinema ed infine, prima dell’attuale recupero, magazzino di legname con qualche tugurio abitato,  una delle prime cose che appresi dagli indigeni fu che a Milano si va a studiare, lavorare, pagar le tasse, e ‘far le brutte cose’ basta che non si sappia in giro. La seconda fu che i mobilifici commissionano (commissionavano) e vendono (vendevano) quadri, croste tanto immonde quanto imponenti per nobilitare le dimore di chi colpito da improvviso benessere ma non disponendo dell’adeguata cultura del denaro, quella che non si può improvvisare e a nulla valgono le Line Sotis di turno con i loro libercoli sul bonton, abbisognava di opulenza per l’autocertificazione in vita.
Proprio ieri, vagando naso all’aria come spesso faccio in cerca di ispirazione quando devo concludere una perizia o una relazione di particolare importanza, mi accorgo che qualcosa è cambiato: sempre più botteghe serrate mentre quelle aperte sono passate dal lusso alla paccottiglia, un negozio di accessori per la casa trasformato in libreria (toh una nuova libreria, a Monza?) la birreria bio dei frati del Carrobiolo con invito a riportare le bottiglie vuote, la stanza del sale di cui parlerò un’altra volta e l’antro del mio amico non-sannyasin Max che ha visto un’impennata di clientela locale alla ricerca di incensi, pietre, cristalli, consigli, reiki, shiatsu, musica da meditazione  e condivisione dell’anima. Altra novità l’anima a Monza, che non sia quella della messa di mezzogiorno alla domenica, in duomo. Oddio, una tizia è arrivata chiedendo al Max se aveva il prana… e lui prontamente ha risposto che nonostante le insistenze, essendo una capha tosta, tiene solo la pitta… lo giuro, ho rischiato di pisciarmi addosso… con quell’altro deficiente del Fabio che, essendo di origine calabrese, ha cominciato a blaterare a fiato aspirato stile Padrino che è bbonu pittari a pitta n’tu muru de casa, ca sanifica e ne protegge da a negatività.
Vabbè, torniamo anzi andiamo, a bomba. Ecco cosa manca: non ci sono più gli ulivi.KL Cesec CV 2014.01.22 Ulivo bonsaiCito a memoria, stralciando dal vecchio sito di uno fra gli allora innumerevoli commercianti di ulivi da decorazione con tronfia esposizione lungo l’ingorgata superstrada Valassina tra mobili più o meno in stile, che grosso modo recitava così: Un albero secolare è opera d’arte, scultura perfetta e armonica forgiata dalla natura e, come tutte le opere d’arte, invecchiando assume valore aggiunto quale testimone del tempo. Si impone a questo punto un doveroso quanto poderoso Ciumbia! equivalente padano del romano Mecojoni!
Ma il sito aggiungeva, puntiglioso: Tutti gli esemplari della collezione presenti nel punto vendita sono scelti con cura fra le piante autorizzate all’espianto. Solo gli esemplari migliori vengono lavorati ed esposti presso il centro giardinaggio.
Ricordo che mi colpì l’art. XY, ulivo nazionale con età presumibile di 800 anni lavorato nel 2002; esemplare unico con tronco ripartito in due grandi branche, rarità alta circa 6,5 m fuori terra, pianta ben radicata in contenitore con forte potere vegetativo, peso approssimativo 8.000 kg, circonferenza del tronco 450  cm, diametro della piantana circa 2,5 m.KL Cesec CV 2014.01.22 Pronti per la venditaMi recai, in bici, al vivaio per informarmi e conoscere il costo: solo 7.500 euro comprensivi di trasporto e posa nel raggio di 100 km. Ah beh, se sono comprensivi di trasporto e posa…
Per abbellire i giardini briantei costituendone un valore aggiunto gli alberi provenivano in massima parte dalla Puglia, dove chi li espiantava riceveva addirittura un contributo, un po’ come accadeva con i vigneti dell’Oltrepo’, e qualcuno esagerava. Ma progressivamente il mercato si esaurì, anche perché gli ulivi morivano come le mosche, sfiniti dal clima, da cure inappropriate e dal mitragliamento almeno bigiornaliero degli annaffiatori automatici. Parrocchie e grigliate invase da rami d’ulivo e tronchi… beh, a quanto sembra i tronchi hanno salvato un investimento altrimenti improduttivo, visto che nell’ultimo quinquennio è quanto mai agevole acquistare localmente costosissimi mobili in legno d’ulivo, soprattutto letti: che qualche mobiliere abbia sentito parlare dell’Odissea?
Attualmente gli ulivi sarebbero molto richiesti in Germania, però i tedeschi preferirebbero quelli spagnoli.KL Cesec CV 2014.01.22 Uliveto puglieseMa dal 2007 le cose si sono fatte teoricamente più difficili per gli estirpatori seriali: Chiunque espianti alberi di ulivo senza la necessaria autorizzazione o non ottemperi agli obblighi di reimpianto viene punito con una sanzione amministrativa pari al decuplo del valore commerciale degli alberi. Tale sanzione, per gli esemplari plurisecolari, viene stabilita da euro 30.000 sino a 500.000 per ogni pianta in relazione alla gravità della violazione, così recita l’articolo 5 della Legge Regionale 14/2007 che ha posto un freno all’espianto selvaggio.Ed a complicare le cose ci si è messa anche l’Europa, emanando un provvedimento tendente a non far procedere all’estirpazione degli esemplari, compresi quelli intaccati da un batterio, in verità oggetto di acerrime discussioni, chiamato xynella: “Non nascondo la grande soddisfazione nell’apprendere la notizia dello scongiurato espianto dei nostri alberi di ulivo” ha dichiarato alla stampa il 20 dicembre scorso l’assessore all’agricoltura della Provincia di Lecce, Francesco Pacella, aggiungendo “E per questo voglio ringraziare i tecnici ed il gruppo di coordinamento dell’Osservatorio fitosanitario“. L’assessore ha tuttavia sottolineato come permangano le preoccupazioni permangano, in ragione del fatto che gli agricoltori proprietari degli uliveti seriamente compromessi subiscono un drammatico calo del reddito a causa del fatto che gli ulivi diventano improvvisamente improduttivi. E lo stesso dicasi per i vivaisti, per i quali permane, seppur in maniera minore, una situazione di grande restrizione.
Bene, io intanto riprendo la mia passeggiata unter den Linden che, come dice il Puffo Quattrocchi, è meglio…

Malleus

I nostri figli faranno tanta strada. A piedi.

Conversazione semiseria e un po’ inventata con un’amica niente affatto inventata.
L’amica, sposata ed acerrima contrastatrice della sola idea di avere figli, mi confidò tanti anni fa: “La differenza tra non avere e avere figli è che, nel primo caso, nessuno ti rompe così hai tutto il tempo di occuparti di te e del tuo uomo, vai e vieni come e quando ti pare. Prendi X (una comune amica) per esempio: sempre sciatta, di corsa, stressata, il marito che si lamenta di non esistere più. Guarda me e Carlo (il marito, nome inventato) invece: week-end quando e come ci pare, usciamo e torniamo quando e se ne abbiamo voglia, andiamo e veniamo da Sharm tutte le volte che ci pare. Ma” aggiunse “mi sono chiesta, che ci facciamo sempre a Sharm? Si, guarda, nessuno ti rompe, così hai tutto il tempo per romperti da sola…
Come dite? Com’è andata a finire? Ah, niente, deve aver compreso un po’ di cose su se stessa e sui nodi della propria infanzia che aveva da sciogliere. Ora lei e il marito hanno due figli. Non vanno più a Sharm, so che sono andati a Capo nord in camper e, quando il maschietto ha compiuto 7 anni e la bambina 5 sono spariti per un mese perché volevano togliersi lo sfizio della Transiberiana. Quest’estate, visto che i bambini sono fissati con il film Madagascar, andranno in Madagascar. E’ stato proibito loro di andarci come avrebbero voluto: in moto, un figlio per ciascuno, legato alla schiena come un cotechino.
E lei? Ah, lei è tutt’altro che sciatta. Sempre più curata e, quando le ho chiesto: ma come fai con scuola, piscina, palestra, danza, tutte quelle cose, insomma, che schiavizzano le madri?
Mi ha guardato come se fossi l’aliena della piadina: “Piscina? Palestra? Danza? Ma sei matta? Io non ho bisogno di promuovermi socialmente mandando i miei figli a smarronarsi e diventando schiava di me stessa e a parlare di pappe, cacche, pediatri, peppepig e altre stupidaggini. Veronica (nome inventato) ha scoperto la lettura, e sai che a cacciarla fuori di casa ci vogliono i lacrimogeni. L’ho portata a una lezione di danza l’anno scorso perché me lo aveva chiesto. E’ uscita dicendo kekifo… Lei disegna, costruisce mondi con i suoi bambolotti. E riceve le amiche… Fede invece è un bambino estremamente sociale, figuriamoci cosa gli può importare di uno sport, il nuoto, che farebbe da solo. Quando e se ne avranno voglia saranno loro a dirmi cosa vogliono fare. E a scuola ci vanno da soli: abitiamo nell’isola pedonale e sia la scuola materna che quella elementare sono nello stesso isolato, in più fanno gli stessi orari. Fede prende la sorella, la accompagna e la va a riprendere. Così crescono e imparano che, là fuori, c’è il mondo. Si, ogni tanto vado a prenderli o li accompagno, oppure Carlo ma diventa un gioco, una sorpresa, non un obbligo.KL-Cesec - Piedibus 002Chiarissimo il concetto. Ora io non so se dipenda dal fatto che la mia amica è originaria di San Pietroburgo, è ingegnere, è arrivata in Italia da adulta, ne ha passate di ogni e non ha la benché minima intenzione di abdicare al proprio lavoro conquistato letteralmente con le unghie e con i denti… certamente è una tosta, diversamente non sarebbe amica mia.
Vabbè, non sapevo da dove cominciare e ho scelto questo quadretto familiare, che non casualmente termina con la scuola.
Uno dei timori che maggiormente impediscono ad un genitore di considerare la possibilità che i propri figli vadano a scuola da soli è rappresentato dal traffico intenso, soprattutto in prossimità degli edifici scolastici. Questi disagi spingono i genitori ad usare sempre più spesso l’auto creando cosi una situazione di causa/effetto.
Ma vi sono, in realtà, altri presunti fattori di rischio che concorrono a questa decisione tra i quali: la paura degli sconosciuti, le condizioni climatiche, l’inquinamento. Il genitore arriva così a prendere la macchina per proteggere i propri figli per questioni di sicurezza e per difenderlo dall’inquinamento, inquinando a propria volta ed creando di fatto nei figli il convincimento che il mondo esterno è qualcosa di alieno, oscuro, pericoloso. Insomma, chi so io direbbe: tirando su delle mezze seghe…
In ogni caso adesso arrivo al dunque, parlando di una famiglia decisamente allargata e che si sta allargando sempre più….
A Polistena, in Calabria, c’è il nonno o, se preferite, il decano; in provincia di Piacenza non c’è nessuno (a differenza del resto dell’Emilia-Romagna) e, per quanto ne so, nemmeno in Valle d’Aosta, Molise, Basilicata e Sicilia; ad Acquarica del Capo, in provincia di Lecce, I ragazzi si fanno strada; gli altri fratelli e cugini sono sparsi più o meno per tutta la Penisola; A Brugherio, Concorezzo, Villasanta e Vimercate si segnalano i nuovi nati mentre a Besate, in provincia di Milano, c’è la parente dal nome più eccentrico: la cugina Piedipolitana.
Sto parlando del Piedibus, che funziona come un vero autobus con un proprio itinerario, orari e fermate precise e stabilite, funziona tutti i giorni indipendentemente dalle condizioni atmosferiche ed è funzionale al calendario scolastico oltre che a conseguire i seguenti benefici:

Per fare movimento
Imparare a circolare
Esplorare il proprio quartiere
Diminuire traffico e inquinamento
Insieme per divertirsi
Bambini più allegri e sicuri di sè
Un buon esempio per tutti
Svegliarsi per bene e arrivare belli vispi a scuolaKL-Cesec -Piedibus 001I bambini si fanno trovare alla fermata per loro più comoda indossando una pettorina ad alta visibilità e, se un bambino ritarda, è responsabilità dei genitori accompagnarlo a scuola invece che dei due addetti volontari: l’autista che apre la fila e il controllore che la chiude, compilando un giornale di bordo dove segna i bambini presenti ad ogni viaggio.
Il servizio, generalmente gratuito tranne che per la pettorina luminescente che deve essere acquistata, può essere utilizzato anche dai bambini che abitano troppo lontano per raggiungere la scuola a piedi, a condizione che i genitori li portino ad una fermata.
Tutto qui. Come tutte le cose semplici e geniali mi sembra un ottimo esempio di ecosostenibilità del fare, senza trascurare la riscoperta dei nonni che molto spesso costituiscono gli equipaggi dopo aver frequentato un apposito corso. Per chi volesse saperne di più consiglio una visita al sito, divertentissimo oltre che utile, www.piedibus.it.

Anima in Cammino

Meglio un asino vivo…

A furia di essere subissati nostro malgrado da notizie su ciò che fanno, pensano, dicono i protagonisti della politica nostrana ci è venuta voglia di parlare di asini.
Questo splendido animale, da sempre ingiustamente citato come esempio di stupidità e invece degno della massima considerazione, ci affianca da quasi cinquemila anni anche se, almeno relativamente al nostro opulento mondo occidentale, negli ultimi decenni è stato messo in disparte dall’avvento delle macchine che lo hanno sostituito nei lavori, soprattutto in campagna e, se non si è estinto, lo si deve solo alla passione ed alla lungimiranza di pochi allevatori.KL-Cesec - Asino 001Forse non è accaduto ai nostri genitori, ma ai nostri nonni e bisnonni, specialmente se di origine contadina, è sicuramente capitato di avere a che fare con un asino in quanto, dopo il cane, è sicuramente uno dei primi animali che hanno accompagnato le vicende umane. Il cavallo, per esempio, è arrivato molto tempo dopo.
Da qualche anno è in atto la sua riscoperta e sono numerosi gli allevatori che attendono rassicurazioni, legislative e in termini di mercato, che consentano loro di effettuare investimenti importanti per portare le strutture a trasformare un’attività oggi prevalentemente amatoriale in un vero e proprio ramo d’azienda. Da un ruolo marginale, dove le sue potenzialità sono sfruttate solo parzialmente, l’asino diverrebbe così un prezioso alleato nell’impresa che acquisterebbe un ruolo multifunzionale in grado di garantire anche un’importante integrazione dei redditi.
L’asino è un prezioso strumento della pet therapy e nel trekking e il suo pregiato latte è ottimo per l’alimentazione di chi soffre di intolleranze alimentari, ma soprattutto per i neonati e per gli anziani. Deve questa sua fama all’elevata digeribilità, al contenuto di vitamine, sali minerali, proteine e zuccheri. Il suo profilo biochimico è talmente vicino a quello umano che numerosi pediatri lo prescrivono come una valida alternativa al latte materno, in grado di allontanare allergie ed intolleranze al lattosio, molto più comuni in risposta al latte vaccino. Solo in Italia la questione riguarda annualmente non meno di 20mila bambini, che trovano nel latte d’asina i nutrimenti e le sostanze che non potrebbero assumere altrimenti.KL-Cesec - CleopatraI latte d’asina è persino utilizzato da millenni come prodotto cosmetico: Cleopatra docet….
Particolarmente nell’Italia meridionale era usuale vedere sino agli anni Sessanta in paesi e cittadine un ragazzino che portava in giro per le strade un’asina per vendere il latte, mungendola davanti alla porta del cliente (altro che Km 0!) nell’orcino del cliente stesso che invariabilmente utilizzava questo latte per nutrire un bambino. Il prezzo ha un’oscillazione consistente,  dai 7 ai 18 euro al litro e la collocazione non è difficile quanto lo è invece avere una produzione omogenea nell’arco dell’anno, sulla base media giornaliera di due litri.
Per chiarire il concetto: un nostro conoscente appassionato ha raccolto nel tempo un allevamento che comprende 90 femmine. Nell’arco di un anno è come se solo 9 di queste fornissero latte, nella misura di 4 litri al giorno ciascuna mediante due mungiture, ed una parte è ovviamente destinata all’alimentazione dei piccoli.
Produrre latte di asina non è quindi il passatempo della domenica ma un’attività rischiosa e impegnativa che deve prevedere una pianificazione seria, in attesa del riconoscimento di alimento medicamentoso come da molti auspicato. E’ un latte che più di altri si presta a trattamenti tesi all’allungamento della conservazione, all’innalzamento della sicurezza ed all’adattamento al trasporto, ma continua ad essere penalizzato da una normativa antidiluviana che permette la mungitura meccanica ma non la semplice pastorizzazione o una banale condensazione.
Per contro, mangiando di tutto, compresi i rovi, l’asino è un ottimo spazzino che contribuisce a mantenere intatto un ecosistema e risulta particolarmente utile nella pulizia del sottobosco. Il recupero del suo allevamento costituisce oggi una concreta azione di tutela della biodiversità, diventando un’occasione per lo sviluppo di molte aree marginali, per esempio come mezzo di trasporto per un turismo lento, sicuramente più ecologico e meno maleducato di una mountain-bike.
E’ adatto a persone di ogni età, grazie all’indole non reattiva, in particolare per  bambini iperattivi o autistici, anziani, persone con scarsa autostima stressate dall’ansia del giudizio altrui. L’onoterapia, da onos, asino in greco, se associata alle cure psicologiche funziona anche nei casi di disturbi alimentari o di tossicodipendenza.
Tra le caratteristiche l’hanno reso un medico, in grado di guarire le persone da ansie, attacchi di panico, problemi relazionali e affettivi ve ne sono alcune fondamentali. Quando ha paura si blocca e rimane immobile finché il timore non passa e poi riprende il cammino. A differenza del cavallo, focoso e spesso imprevedibile, non è mai brusco o violento,bensì quieto, affidabile e docile.
Giova, come sempre, ricordare che non è la prestazione o l’uso dell’asino, ma la capacità dell’animale di darci contenuti a costituirne il vero patrimonio. L’asino non parla, ma comunica con tutto il suo essere ed  attraverso la relazione con lui  possiamo trarre vantaggi, basta aprire gli occhi e il cuore per cambiare e  migliorare. Ma questo vale anche per tutti gli animali.
In campo asinino la Serbia detiene un primato mondiale: è suo il Pule, formaggio di latte d’asina più caro del mondo. Il latte con cui viene prodotto è raccolto nella Riserva Naturale di Zastavica e per produrne un chilo ne occorrono almeno 25 litri, che in Bosnia costano l’equivalente di 40 euro per unità. L’ultima quotazione nota parla di 1.350 $ al chilo. Presentato la scorsa estate ad una fiera del turismo, pare che ne sia stato venduto solo mezzo chilo.
Chiudiamo questo articolo, scritto per puro divertimento, con una citazione del rinascimentale Tommaso Garzoni, che più di altri e in poche righe ha saputo rendere le innumerevoli doti dell’asino: Vive di poco posto et contentasi di ogni cosa, sopporta molto la carestia, la fame, la fatica, le busse, è patientissimo d’ogni persecutione, di semplicissimo, et poverissimo spirito, sì ch’egli non sa discernere tra le lattughe, et i cardi, di core innocente, et mondo, e senza colera, et ha pace con tutti gli animali; onde in merito di questa sua bontà non ha pidocchi, rare volte inferma, et più tardo che ogni altra bestia muore.

Malleus

Metropolitana Milanese? Una meraviglia: fa acqua da tutte le parti.

Questo articolo nasce dalla nostra partecipazione al Forum per l’Acqua Pubblica, che ha avuto luogo a Milano sabato 18 gennaio, a dimostrazione che a volte pubblico non è affatto bello.KL-Cesec - MM Acqua 003
L’acqua di Milano, tra le più buone d’Italia, arriva in città da una falda alimentata dalle acque che scendono a valle dalle Prealpi. Oltre 2.295 km di tubi, 28 centrali e 400 pozzi portano nelle case un’acqua controllata ogni due settimane dai gestori del servizio idrico ed approvata mensilmente dalla Asl attraverso 190mila analisi per il controllo dei parametri chimici, chimico-fisici e microbiologici. Vogliamo mettere la differenza tra aprire il rubinetto e la fatica di dover portare fino a casa le bottiglie acquistate al supermercato, senza trascurare il costo e lo smaltimento una volta svuotate?
Paradossalmente però i milanesi hanno scoperto l’Acqua del Sindaco solo in concomitanza della crisi economica, che ha fatto lievitare i consumi con impennate anche del 40 per cento.
Ma com’è veramente l’acqua milanese e, soprattutto, chi sono gli uomini in blu che se ne occupano, spesso mentre i cittadini dormono?KL-Cesec - Acqua 006Dal 2003 il servizio idrico è gestito da Metropolitana Milanese, la stessa che si occupa delle quattro linee metropolitane cittadine a livello tecnico ed impiantistico, ma che non ha competenza sull’esercizio, affidato ad Atm.
MM pianifica, progetta e realizza nuove reti e impianti, curando la manutenzione di quelli esistenti nonché la captazione, la potabilizzazione e la distribuzione dell’acqua. Raccoglie infine le acque dagli scarichi fognari coordinandone la depurazione prima del rilascio all’ambiente.
Dal 6 dicembre 2012 è on line MilanoBlu, il sito dell’acqua di Milano dove i cittadini, digitando il proprio indirizzo, possono conoscere in tempo reale la qualità dell’acqua che arriva alle loro case.KL-Cesec - MM Acqua 001Perseguendo criteri di efficienza ed economicità, MM ha la finalità di gestire il servizio idrico integrato di Milano per soddisfare i fabbisogni idrici dei cittadini, in modo quantitativamente adeguato e qualitativamente ottimale, operando responsabilmente nel rispetto dell’ambiente, con una struttura organizzata in tre direzioni: Acquedotto e Acque Reflue si occupano della gestione del ciclo dell’acqua, mentre Strategia e Pianificazione garantisce la realizzazione del Piano investimenti e gestisce i rapporti con enti terzi.
Il Comune di Milano, proprietario di reti e impianti, è responsabile dell’operato di MM, che pubblica un Bilancio di Sostenibilità volto a rendere trasparente le dimensioni economica, sociale e ambientale al fine di condividere con il pubblico i principi che governano l’atteggiamento e le azioni della società nel ruolo di gestore e custode del patrimonio idrico della città e di erogatore di servizi fondamentali per la persona.
MM, e conseguentemente l’acqua milanese, ha acquisito nel 2011 la certificazione UNI EN ISO 14001:2004 Sistema di Gestione Ambientale e, nel luglio 2013, la Certificazione Energetica Uni EN ISO 50001:2011 Certificazione di Sostenibilità di Prodotto Make it Sustainable Plus relativamente alla gestione del servizio idrico integrato.
La rete di distribuzione idrica ha una lunghezza complessiva di circa 2.295 km e l’acquedotto assicura l’approvvigionamento idrico della città, attingendo dalla falda sotterranea mediante un sistema a doppio sollevamento costituito da 28 stazioni di pompaggio e da 400 pozzi mediamente attivi che alimentano la rete di adduzione e distribuzione, per un totale di 230 milioni di metri cubi di acqua potabile distribuita annualmente.
Le centrali dell’Acquedotto sono tutte telecomandate mediante un complesso sistema di telemetria composto da quattro centri, ciascuno dei quali comanda mediamente 7-8 centrali. E’ possibile controllare e comandare l’avviamento dei pozzi e dei gruppi di spinta, oltre a regolare la portata distribuita in funzione della richiesta dei clienti.KL-Cesec - MM Acqua 002Milano è sempre stata una città d’acqua, anche sotterranea, se il Bonvesin della Riva riporta la notizia che già nel 1200 esistessero 6.000 pozzi di “acqua viva” nel territorio di Milano grazie all’abbondanza e alla superficialità della falda, a soli 2 o 3 metri dal piano campagna, la cui scarsa profondità li esponeva però a contaminazioni umane e animali.
Fu però solo durante l’epopea dei massicci insediamenti industriali che la città ebbe necessità di coordinare e regolamentare la gestione idrica, oltre che di individuare fonti di approvvigionamento. Nel 1877 venne indetto un concorso pubblico per la realizzazione di un acquedotto e, nel 1881 fu prescelto il progetto della Società Italiana Condotte d’acqua che prevedeva di trasportare a Milano le acque sorgive del fiume Brembo.
Ma i bergamaschi si opposero ed il progetto venne abbandonato a favore di quello proposto dall’Ufficio Tecnico comunale, che proponeva di proseguire nell’attingimento dalla falda sotterranea con pozzi di idonea profondità.
I primi due pozzi sperimentali vennero realizzati nel 1888 presso l’Arena a servizio del quartiere residenziale che stava sorgendo fra piazza Castello, Foro Bonaparte e via Dante. Per regolarizzare la pressione di erogazione furono costruiti due grandi serbatoi di accumulo, nascosti all’interno dei torrioni del Castello Sforzesco.
La municipalità decise che la falda sotterranea doveva restare l’unica fonte di rifornimento idropotabile, scartando altre ipotesi di approvvigionamento da fontanili extraurbani, allora molto numerosi e alcuni anche con portate elevate, o da sorgenti montane. Fu in quel periodo che, grazie all’abbondante disponibilità idrica, vennero realizzati i primi bagni e servizi pubblici: consentivano l’accesso a prezzi popolari a stabilimenti balneari non proprio eleganti, ma funzionalmente non diversi da quelli che la popolazione milanese più agiata già da molti anni utilizzava, per esempio il prestigioso Kursaal Diana a Porta Venezia.
Venne presto costruito il secondo impianto di pompaggio, presso l’attuale piazza Firenze, al quale nel 1903 si aggiunsero la centrale Parini, presso l’attuale piazza della Repubblica, e la Armi: edificata nel 1904 è la più antica tra quelle ancora esistenti.
Alla fine degli anni ’20, quando gli impianti erano 17 con una capacità di pompaggio complessiva di circa 6.000 l/s, cominciò un modesto abbassamento della falda che costrinse a modificare il sistema di estrazione. Attraverso elettropompe ad asse, l’acqua veniva immensa in apposite vasche, da dove veniva successivamente pompata in rete.
Nel 1948 entra in funzione la centrale di San Siro su progetto di Gio Ponti e, negli anni Sessanta, iniziò ad evidenziarsi il problema relativo alla qualità dell’acqua, pesantemente contaminata da scarichi industriali non depurati. Col passare degli anni a causa del progressivo indiscriminato sfruttamento pubblico e privato, la falda cominciò a dar segni di “affaticamento“, fenomeno che si sarebbe invertito a partire dal 1975, conseguentemente alla chiusura degli stessi grandi stabilimenti che erano stati la causa principale del deterioramento dell’acqua di falda. In questo periodo nascono problemi legati all’innalzamento della falda, che ha portato fra l’altro a fenomeni di allagamento di sotterranei, parcheggi, metrò.
Citiamo di passaggio il caso Olona, che da decenni costituisce un grave problema in occasione di allagamenti dovuti a piene o piogge abbondanti.
Nel 1988, nel centennale della nascita della rete idropotabile, esistevano 34 centrali per una potenzialità di spinta di circa 30.000 l/s e l’acquedotto inizia ad introdurre tecnologie di potabilizzazione per garantire la qualità dell’acqua e assolvere agli adempimenti sempre più restrittivi della normativa europea in tema di limiti alla concentrazione di sostanze inquinanti nell’acqua. Il primo impianto di filtrazione, a carbone attivo, viene costruito nella centrale Vialba ed entra in funzione nel febbraio del 1992, e nel 1994 entrano in funzione le torri di aerazione nelle centrali Novara, Comasina, Suzzani, Chiusabella e Cimabue. Risale invece al settembre 2007 l’introduzione dell’impianto a osmosi inversa presso la centrale Gorla.
MM è responsabile della qualità dell’acqua distribuita e agisce nel rispetto delle disposizioni previste dal D.Lgs 31/01 del 2003. Attraverso il suo laboratorio di analisi, Metropolitana Milanese analizza ogni anno circa 190.000 parametri. I risultati vengono messi a disposizione dei clienti ogni trimestre attraverso la bolletta e il sito web. Il controllo continuo della qualità dell’acqua, principalmente in uscita dalle centrali e l’attuazione delle procedure interne consentono di attuare tempestivamente gli interventi necessari a garantire con ampio margine il rispetto dei valori di parametro prescritti.
Attraverso il sito milanoblu.com i cittadini possono prenotare una visita gratuita alle centrali di potabilizzazione o ai manufatti fognari:  vi assicuro che è un’esperienza emozionante che non ha nulla da invidiare all’analoga parigina!
KL-Cesec - MM Acqua 004Per finire, in organico ai servizi idrici milanesi vi sono ben 481 draghi: sono verdi e invece che fuoco e fiamme buttano acqua. Si, sono le fontanelle pubbliche, chiamate draghi verdi o vedovelle per il fatto che piangono costantemente dai cittadini ambrosiani, decisamente pudibondi rispetto ai piacentini che le appellano in ben altro modo…
Sono realizzate in ghisa nel tipico colore verde ramarro e vennero disegnate nel 1931 in concomitanza all’inaugurazione della Stazione Centrale. La prima venne posta in piazza della Scala e, tuttora esistente, differisce dalle altre per il fatto di essere in bronzo.
Non disponendo di rubinetto molti pensano che i draghi verdi generino spreco, ma non è così anzitutto poiché la quantità d’acqua erogata è irrisoria in confronto alla portata d’acqua distribuita dall’acquedotto: a fronte di un flusso totale istantaneo medio erogato di circa 7500 litri/secondo, la portata dell’insieme delle fontanelle è pari a circa soli 10 litri al secondo, inoltre il flusso d’acqua continuo dei draghi svolge l’importante funzione di mantenere l’acqua sempre in movimento, preservandone la freschezza e la buona qualità in corrispondenza delle tubazioni terminali cieche, le cosiddette “teste morte”.
Ricordo infine che la portata in uscita dalle fontanelle non viene inutilmente dispersa ma, attraverso la fognatura, raggiunge i depuratori e viene impiegata dai consorzi agricoli per l’irrigazione dei campi a sud della città.

Malleus